La sconfitta del progetto populista!>
!>!>di EZIO MAURO - Repubblica!>!>
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NEL Paese indeciso, diviso e indecifrabile che la politica fatica da più di un decennio a governare, i cittadini hanno compiuto in una domenica di fine giugno una scelta netta e precisa, che è la più importante svolta culturale degli ultimi anni in Italia.
Un voto forte e partecipato (con il 53,6 per cento degli elettori alle urne), ha risposto all'appello del presidente Napolitano e ha riportato il referendum sopra la soglia del quorum, mai più raggiunta negli ultimi undici anni. Un voto positivo, perché bocciando una riforma confusa e pasticciata, che sarebbe stata pericolosa per il Paese, ha scelto la difesa della Costituzione e del suo disegno istituzionale. Un voto, infine, politicamente consapevole e rivelatore, perché non ha soltanto sconfitto la destra, ma ha spazzato via il falso presepio televisivo di un'Italia spaccata a metà, con il nord e la modernità in mano al Cavaliere, pronti a pretendere o imporre a forza le larghe intese: e invece dietro i muscoli berlusconiani di cartapesta c'è una destra a pezzi, senza più una politica, con un progetto delle istituzioni bocciato senza rimedio dal popolo, con un'alleanza senza leader e senza ragioni.
Vediamo le cose per ordine. Prima di tutto, l'interesse del Paese. La posta in gioco era molto alta, con i cittadini chiamati a confermare o bocciare una legge che manometteva la Costituzione più che riformarla, senza un disegno organico, un piano istituzionale, uno spirito costituente, sia pure aggiornato ai tempi. Dal soffio dello Spirito Santo laicamente invocato da Croce alla baita di Lorenzago apparecchiata da Tremonti: il passo era troppo lungo, e i cittadini hanno scelto di dire no. Per farlo, hanno votato con una partecipazione che nessuno aveva previsto, dimostrando la validità dell'istituto referendario, la volontà di prendere parte nelle questioni che davvero contano, la capacità di scegliere e di decidere, anche davanti a quesiti complicati.
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Non è una scelta conservatrice, come dice il futurismo arditista dei falsi modernizzatori. Sono ormai abbonati alle sconfitte e reagiscono con un curioso - anche se sterile - tic lessicale: chiamano "noia" la politica altrui, incidentalmente premiata dal voto e appoggiata dai cittadini ad ogni consultazione negli ultimi anni, e battezzano come "riforma" la spinta disordinata che il mondo berlusconiano dà periodicamente e casualmente alle istituzioni, secondo le sue private necessità. In questo caso, il "no" viene dipinto come un arroccamento e una chiusura ad ogni cambiamento. È invece un sì alla Costituzione e all'equilibrio dei poteri che la Carta disegna, con la precisa indicazione alla politica di cercare altrove - e in se stessa - la causa delle disfunzioni, dei ritardi e dei vuoti della nostra democrazia. La Costituzione, com'è ovvio, è riformabile. Ma il referendum dice che per gli italiani la Costituzione non si cambia per aderire all'ideologia di una piccola fazione che ricatta politicamente la metà del Parlamento, né - ancor peggio - per aderire ad una biografia titanica e incompiuta che cerca nel ridisegno dei poteri quella forza politica che ha smarrito anno dopo anno.
Ecco perché (e siamo al secondo punto, dopo l'interesse del Paese) il voto è una svolta culturale. Con questo referendum tramonta infatti l'idea che tutto - anche i principi e le norme costituzionali - sia strumentale ad un'avventura politica, e che ogni cosa - anche le istituzioni dello Stato - sia disponibile pur di compiere quell'avventura come un destino della nazione. Non è così, fortunatamente per il Paese. I cittadini hanno messo al riparo i poteri dello Stato, il loro equilibrio, un quadro istituzionale che ha retto la prima e la seconda Repubblica. Non per blindare la Costituzione, ma per sottrarla ad un uso politico contingente, per non trasformarla da cornice a semplice mezzo estemporaneo di parte.
La destra televisiva predicava la parola d'ordine del cambiamento, e la coniugava nel qualunquismo del taglio dei parlamentari. Una miscela che poteva essere esplosiva, unita alla leadership ferita di Berlusconi, alla ricerca di un plateale risarcimento da parte del suo popolo dopo la sconfitta, e all'insediamento ideologico della Lega, ormai arroccato tutto nella parola d'ordine della devolution, sfocata e confusa, ma unica bandiera concreta di una forza in ritirata. Ciò che è stato sconfitto, invece, è proprio l'asse culturale tra Bossi e Berlusconi, quel cemento pre - politico, di vera destra "naturale", che è un'intesa anche umana e antropologica, ed è sempre prevalso sulle tentazioni moderate o istituzionali - peraltro intermittenti - di Fini e Casini. Oggi quell'asse è saltato, facendo saltare nello stesso tempo l'equilibrio e il baricentro che reggeva la Casa delle libertà. In quella Casa risuona la libera uscita, perché va in pezzi non solo una politica, non tanto una leadership, ma molto di più: l'inedito esperimento del populismo applicato ad una moderna democrazia, come via originale ed inedita per la semplificazione della politica. Il no al referendum, un referendum complesso, di natura costituzionale, nega proprio quest'illusione diabolica, figlia della modernità. La politica deve sciogliere i suoi nodi, anche i più complicati: la spada populista che li taglia è un'illusione, non la soluzione.
Il referendum dunque ci racconta finalmente un Paese diverso da quello narrato da Berlusconi e manda in frantumi anche la sua stessa rappresentazione della sconfitta, dopo le elezioni politiche. Una rappresentazione di comodo, - come la stanza imbandierata in cui il Cavaliere si fa riprendere dalle sue televisioni, senza accorgersi ormai che sembra la scena di un re in esilio - quasi una partnership di governo, con un Paese spaccato, la forza politica divisa in due, la sinistra nel Palazzo vuoto, e la destra nell'Italia produttiva e moderna. Tutto questo non c'è più. Una coalizione con il 49,7 per cento dei voti alle politiche ha mobilitato nel referendum appena il 38,7 per cento dei cittadini, mentre la sinistra ha portato alle urne il 61,3 degli elettori. La destra parla a vuoto, con il suo leader indeciso se insultare gli avversari (come puntualmente ha fatto) o ritirarsi nel silenzio per paura della sconfitta e soprattutto per il timore, mostrandosi, di mobilitare l'elettorato avversario, con un talento rovesciato. Come la Lega di Bossi, ormai forza locale non del Nord ma del Lombardoveneto, che ieri ha registrato il fallimento della sua avventura politica di governo. Quando più di 15 milioni di elettori votano contro un tema programmatico della destra, fondativo, addirittura identitario, e solo 9 milioni lo sostengono, il giudizio è senza appello, ed è il giudizio di un Paese tutt'altro che diviso: un Paese deciso.
Soprattutto, nel paesaggio berlusconian - bossiano si spegne la luce del Nord, unica stella cometa di questa destra in declino. Anche nel Nord, infatti, vince il no alla riforma della Costituzione. E lo stesso Nord si fa spaccare in due dal referendum, con Piemonte, Liguria, Valle d'Aosta, Trentino, Friuli ed Emilia - Romagna a favore del no, e soltanto Lombardia e Veneto per il sì: con le eccezioni delle due capitali, Milano e Venezia, per la prima volta ribelli ed eretiche, come ad anticipare un'inversione di tendenza, un cambio di clima e forse di stagione. Dunque, dopo il referendum non c'è più una questione settentrionale. O meglio: c'è, ma da oggi interroga in ugual misura destra e sinistra, è un problema per entrambi i Poli, com'è giusto che sia quando una parte del Paese fortemente dinamica lamenta sottovalutazioni, inadempienze, ritardi nella modernizzazione. Un problema per tutta la politica che in quanto tale cessa di essere un'arma della destra contro la sinistra.
Il referendum ridisegna dunque il profilo del quadro politico, due mesi dopo il voto. I numeri del governo Prodi restano certamente fragili e ancor più fragile resta l'identità culturale del centrosinistra, pronta a dividersi su ogni questione, grande e piccola. Ma dopo la partenza difficile, dopo gli errori dei partiti nell'assemblaggio dell'esecutivo, il referendum poteva essere per il governo una prima sanzione, e invece è stato un successo. Tocca a Prodi usare quel successo per trasformarlo in politica. Il premier ha già detto che sonderà ufficialmente la destra, per verificare la disponibilità ad un percorso comune di riforme. Non pensa a Bicamerali, semmai ad un comitato di saggi che identifichi poche questioni urgenti cui mettere mano nella Costituzione, su un percorso condiviso, che necessariamente viaggia insieme alla riforma della legge elettorale. È una proposta saggia e utile, anche perché il referendum dimostra da un lato che la Costituzione non si cambia con i voti di una sola parte, e dall'altro che l'equilibrio istituzionale della Carta non va sovvertito da "grandi riforme" ideologiche, ma può essere rivisto in uno spirito condiviso di aggiornamento, alla luce dei principi fondamentali.
!>Infine, a mio parere, c'è un'ultima lezione da trarre, e forse è la più importante. Da oggi esiste la possibilità che una larga parte dell'Italia si ritrovi su una piattaforma politico - culturale comune e condivisa. Io non so definirla altrimenti che così: una piattaforma costituzionale, repubblicana, europea. Non sarebbe affatto poco, per ricostruire e ripartire. Se il Paese lo volesse, se la sinistra lo sapesse.
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