La Farnesina e il ritiro dall'Iraq - "Ci spiace se Bush non capirà"
di Massimo Giannini - Repubblica
Al Parlamento italiano e all'Amministrazione americana il ministro degli Esteri spiegherà, una volta per tutte, ciò che "è già deciso": "La nostra missione militare in Iraq si concluderà entro l'autunno. E a Nassiriya non resterà neanche un soldato. Era un impegno preciso che avevamo preso in campagna elettorale, e intendiamo rispettarlo, nei modi e nei tempi dovuti. Tanto più che adesso, su questo, abbiamo anche avuto il plauso delle autorità irachene".
Non è facile, per il responsabile della Farnesina, uscire dalla tenaglia che si stringe sul governo. Da una parte le pressioni diplomatiche degli Stati Uniti. L'ambasciatore Ronald Spogli, in queste ore, fa arrivare segnali inequivocabili: "C'è un accordo per la partecipazione civile italiana ai 'Prt', i 'Provincial reconstruction team', coperti da un'adeguata presenza militare. Dovete rispettarlo". Dall'altra parte, le pressioni politiche della sinistra radicale. Rifondazione e Pdci contestano addirittura le parole di Napolitano sulla partecipazione italiana alle missioni di pace e si spingono a rimettere apertamente in discussione anche la missione in Afghanistan. D'Alema, con il pieno sostegno di Romano Prodi, si prepara a uscire dalla morsa dicendo un no secco su tutti e due i fronti. No agli americani, che ci chiedono di restare comunque con 30 civili e con 800 militari di sostegno in Iraq, nella provincia di Dhi Qar. No ai post-comunisti, che ci chiedono di andare via anche da Kabul e Herat, ritirando in tempi rapidi i 1.670 soldati impegnati in "Enduring Freedom".
La partita più delicata, in questo momento, si gioca ovviamente con la Casa Bianca. Il ministro degli Esteri vedrà domani o martedì Spogli, per confermargli che, nonostante la crescente moral suasion che si avverte da Oltreoceano, "la posizione italiana sul rientro dall'Iraq resta immutata". C'è un documento di quattro cartelle, messo a punto dagli esperti della Farnesina, che sintetizza le ragioni del governo di Roma. Si intitola "Rischi e opportunità del disimpegno italiano dal Sud dell'Iraq". D'Alema ne riferirà sia all'ambasciatore americano, sia a Palazzo Madama due giorni dopo, sia alla Rice il venerdì successivo.
Il punto di partenza è la grave situazione in cui versa l'area di Nassiriya. Sul piano politico, dopo le elezioni, nella zona interagiscono tre gruppi: i seguaci di Moqtada Al-Sadr (ormai "ricollocato pienamente nei ranghi iraniani"), gli appartenenti al Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica (lo Sciri, "guidato da Abdel Aziz Al-Hakim, a sua volta "in rapporti organici con i Servizi di sicurezza iraniani") e il movimento popolare che si rifà alla guida spirituale dell'ayatollah Al Sistani. In questo scenario confuso, caratterizzato da "un livello di sicurezza piuttosto incerto e non ancora accettabile" e dal "mancato consolidamento delle istituzioni amministrative", c'è una sola certezza: "l'influenza iraniana è sempre più penetrante". Il rischio connesso è una vera e propria "iranizzazione dell'Iraq sciita", diventato ancora più concreto dopo l'avvento a Teheran del regime di Ahmadinejad.
Questo sbocco convince l'Italia, una volta di più, al rientro delle sue truppe. E lo induce anche a un disimpegno dai "Prt", che invece il precedente governo Berlusconi aveva effettivamente concordato con gli americani. Allo stato attuale, secondo la Farnesina, anche l'operazione Prt "appare densa di rischi", poiché questi gruppi di civili impegnati nei progetti di ricostruzione territoriale vengono comunque "percepiti dalla popolazione come strumenti di occupazione militare", esponendo così i civili "agli stessi rischi delle loro controparti militari". Per questo D'Alema spiegherà a Spogli e poi alla Rice che l'Italia non può e non vuole prendervi parte. "Sarebbe un controsenso", secondo il ministro degli Esteri.
Questa scelta può creare una frattura nelle relazioni trans-atlantiche. Il governo Prodi si può permettere il lusso di partire con l'handicap di uno strappo con gli Stati Uniti? D'Alema sembra consapevole di questa incognita, ma spera di poter convincere gli americani. Ha dalla sua due buone ragioni. La prima è il consenso ottenuto dalle autorità irachene: la missione a Bagdad di mercoledì scorso "è stata un enorme successo, se è vero che Talabani ha parlato dei un 'modello italianò per il ritiro delle truppe". La seconda è la contropartita che il governo italiano è pronto a mettere in campo. Una contropartita diplomatica, innanzitutto: l'Italia, forte della sua "special relationship" con le componenti più moderate del regime iraniano, potrebbe assumere una "forte azione diplomatica volta a scongiurare la progressiva iranizzazione" dell'Iraq, "ricavandosi uno spazio tra i mediatori" nel Golfo Persico. Ma anche una contropartita pratica. L'Italia si impegna "nella cooperazione politica, civile e umanitaria con il governo di Bagdad". La Farnesina propone, sul modello già sperimentato da Francia e Germania, la formazione in Italia di ufficiali della polizia, dell'esercito e degli apparati di sucurezza. E poi il finanziamento di "progetti mirati nei settori di maggiore criticità: sanitario, edilizio, delle infrastrutture, dell'educazione e della formazione al lavoro". Può darsi che tutto questo, a Bush, non possa bastare. D'Alema non se ne fa un cruccio: "Ne sarei dispiaciuto", dice, ma poi insiste: "La nostra linea non muta". Il ritiro partirà in estate, le truppe rientreranno completamente a fine autunno. E se c'era un impegno precedente, la Casa Bianca ne deve chiedere contro a Berlusconi, non a Prodi. Non è grave che noi ci ritiriamo - è il ritornello che ripete in queste ore il responsabile della Farnesina - ma il fatto che in campagna elettorale un governo uscente, senza informare nè il Parlamento nè l'opinione pubblica, avesse preso accordi con gli Usa per il dopo voto, promettendo una presenza militare "mascherata" da missione civile.
Convincere Condoleezza non sarà uno scherzo. Al confronto, piegare la resistenza arcobaleno degli alleati interni sembra più agevole. Anche su questo Palazzo Chigi, la Farnesina e la Difesa non arretrano. Quando a fine giugno sarà presentato il decreto di rifinanziamento delle missioni italiane all'estero, non ci saranno sorprese sul dossier Afghanistan. La missione "Enduring Freedom" sarà rifinanziata. E in prospettiva, se serve, anche potenziata. Nello schema dalemiano, Kabul non è una "partita di scambio" nella trattativa con gli americani su Nassiriya. Sono due questioni "completamente diverse", sul piano giuridico, politico e militare. La Nato, come ha confermato il segretario generale Jaap de Hoop a Prodi l'altro ieri, potrebbe chiederci di rafforzare il nostro impegno contro i talebani, in termini di uomini o di mezzi aeronautici (a partire dai caccia Amx). "Siamo pronti a fare la nostra parte", è la posizione della Farnesina. L'Italia ripudia la guerra. Ma come ha detto il Capo dello Stato e come dice l'articolo 11 della Costituzione, non può rifiutarsi di partecipare a tutte le missioni militari, quando queste avvengono sotto l'egida delle organizzazioni multilaterali. L'ultimo attentato costato la vita al caporalmaggiore Pibiri, avvenuto dopo l'annuncio del rientro delle truppe dall'Iraq, dimostra che l'Italia, in quanto parte di un Occidente comunque "nemico", resterà ancora a lungo sotto l'attacco del terrorismo jiahdista. Di fronte a questa minaccia, tra il frazionismo interno e l'isolazionismo internazionale, non si può non scegliere il male minore.
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