Fino all'ultimo hezbollah
di Gigi Riva - L'Espresso
Il premier israeliano Olmert si dice disposto a bombardare Beirut anche per un anno. La sola via d'uscita dalla guerra è una soluzione diplomatica. Ecco a quale prezzo

Il nemico, nel caso, arretra ma non rinuncia a lanciare i suoi Katiuscia e i suoi Fajar 3, missili che al riflesso del sole di luglio mediorientale diventano traccianti argentati per andare a morire (procurando morte) sulla stessa Avivim, presidiata ormai solo da truppe e giornalisti e, all'indietro, sull'intera Galilea fino al nodo fatidico di Haifa. La paralisi pressoché totale dell'economia in una delle aree più floride del Paese è uno degli ingredienti che fanno alzare, dopo un pressoché unanime consenso, qualche voce critica per una crisi che, parametrata sul passato, sta durando troppo a lungo. Beninteso, lo smantellamento degli arsenali hezbollah è un risultato che non trova obiezioni. Piuttosto è il come. Come raggiungerlo? Anche ammesso che Israele arrivi fino al fiume Litani, considerato il limite per stabilire una buona zona di sicurezza e proteggere il confine, quei 20 chilometri o poco più stanno largamente nella gittata dei missili avversari, soprattutto se davvero dispongono dei micidiali Zelzal ('Terremoto' in arabo), fabbricazione iraniana, raggio d'azione di 200 chilometri, quindi in grado teoricamente di colpire persino Tel Aviv. È l'interrogativo che toglie il sonno agli agenti del Mossad, alle prese con l'analisi di un episodio passato quasi inosservato e considerato cruciale. Al sesto giorno di guerra le telecamere ripresero un oggetto misterioso che cadeva dal cielo, a Beirut sud. I miliziani hezbollah si vantarono di aver abbattuto un F16 israeliano. Tel Aviv rispose che invece era stata individuata una rampa di Zelzal e che, a causa della lunghezza del dispositivo di preparazione, un'opportuna bomba aveva provocato un lancio prematuro. In realtà il Zelzal è un missile tattico a carburante solido. Può essere rifornito in un luogo chiuso e necessita di soli 20 minuti per l'attivazione una volta portato all'aperto. Forse lo sceicco Hassan Nasrallah aveva dato semplicemente l'ordine di trasportarlo da un luogo all'altro. Ma perché in pieno giorno? E perché non sono stati ancora utilizzati? Gli 007 ipotizzano questo scenario: Nasrallah non ha ancora avuto 'luce verde' dall'Iran per alzare l'intensità e gli Zelzal potrebbero essere l'arma di riserva qualora Teheran si trovi in seria difficoltà col mondo per via dello sviluppo del suo programma nucleare.
Sarebbe un'ulteriore dimostrazione che lo scontro tra Israele e Hezbollah altro non è che un conflitto per procura, il primo round del ben più complesso Usa-Iran (per tacer della Siria). La sensazione di essere in qualche modo usati dagli amici d'Oltreoceano sta cominciando a serpeggiare se Eial Zifer, professore del Centro di ricerche sul Medio Oriente dell'Università di Tel Aviv, considerato il massimo esperto del Paese su Siria e Libano, ammette: "Noi no, ma l'America ha tutto l'interesse ad allargare la crisi alla Siria. Prima ci si chiedeva se fosse Sharon a condurre la politica di Bush o viceversa. Adesso non c'è dubbio che sia Bush a guidare le decisioni di Olmert". È lapalissiano dire: in guerra si sa come si entra e non come si esce. Così lo scenario dei missili su Tel Aviv viene preso in considerazione. A Tel Aviv il lungomare è gremito come in ogni luogo del Mediterraneo d'estate. Alberghi pieni e bella gioventù in cerca di dolce vita ed emozioni forti. Il riflesso di quello che Meron Rapoport, columnist del quotidiano liberal 'Haaretz', chiama il cambio di percezione verso l'esercito. Le famiglie della città più popolosa e internazionale non considerano ormai un punto d'onore che i loro figli servano la patria. Alcuni entrano nelle truppe speciali, ma il grosso dei fanti è fornito dalla bassa manovalanza degli immigrati recenti. Un missile su Tel Aviv, con corollario di sirene, choc e gente nei rifugi sarebbe il salto di qualità psicologico. Non reale. Ancora Zifer: "Nel 1991 Saddam Hussein lanciò 40 Scud e il risultato fu un morto". Come dire che non cambierebbe l'inerzia favorevole e tuttavia quell'eventualità non si potrebbe prevenire perché poca fiducia si nutre, a livello generalizzato, sull'efficacia dei sistemi antimissile Patriot, pure ridislocati ad Haifa.
La guerra al terrorismo scardina le convenzioni abituali e, per tornare alla metafora di Brom, i punti non si contano in territorio preso o nemici uccisi. Dovendo cambiare parametri e per uscire dallo schema azioni-reazioni delle prime due settimane, si guarda all'arbitro, cioè alla comunità internazionale e al momento in cui suonerà il gong definitivo. "La sola soluzione può essere diplomatica", conclude Zifer. E vista da questo lato del fronte dovrebbe contemplare alcune acquisizioni irrinunciabili. Anzitutto la creazione a ridosso del confine di un'area che i militari, per una volta con un certo gusto per la fantasia, hanno definito 'parcheggio'. Cioè una spianata di alcune miglia a perdita d'occhio dove sia impossibile nascondersi in bunker o lanciare attacchi a sorpresa. Poi, il disarmo degli hezbollah con la collaborazione di una forza multinazionale dalle robuste regole d'ingaggio. Olmert ne ha parlato e anche il ministro della Difesa, il laburista Amir Peretz. Questo non ha impedito loro di essere sufficientemente duri coi vari ministri che hanno visitato Gerusalemme. Il premier avrebbe assicurato loro di essere disposto a bombardare il Libano "anche per un anno, se necessario". E voleva probabilmente tastare la reazione di interlocutori che si trovano in grave affanno. Perché la forza internazionale, al momento, è una bella formula ancora vuota di contenuto. Al motto di 'armiamoci e partite' gli inglesi fanno presente che passano già i loro guai a Bassora, i tedeschi ci stanno sì, ma si offrono per la logistica a Cipro, i francesi fanno presente che scarseggiano le truppe scelte, già impegnate in altre missioni. Qui si tratta di svuotare arsenali e disarmare miliziani, non semplicemente di interporsi.
Parole grosse e trattative febbrili in un Paese che, se balla a Tel Aviv, si sente però impegnato su più fronti. Almeno altri due, oltre al confine nord. Gaza, naturalmente. Dove quotidianamente ci scappa qualche morto che fatica a guadagnarsi poche righe in cronaca perché ormai relegato a questione locale senza eccessive ripercussioni su vasta scala. Ma dove sono endemici bombardamenti e risposte coi missili Kassam su Sderot e Askelon. E poi, sorpresa, Nablus, in Cisgiordania. Dove è stata smantellata una cellula di ex membri di Fatah (il partito del defunto Yasser Arafat) sospettata di connessioni con gli hezbollah, da cui sarebbe ampiamente foraggiata. Che nei Territori la popolarità di Nasrallah sia via via crescente lo dimostrano le manifestazioni di piazza con le immagini del leader (integralista e sciita) che ha osato sfidare il 'nemico sionista'. Un ulteriore incubo perché qualche cellula kamikaze potrebbe attivarsi, realizzare un attentato e aumentare il caos. L'incubo, in questo caso, è stretto parente di una sindrome se si susseguono gli allarmi e le segnalazioni circa sospetti 'suicidi' sul punto di immolarsi. Al dicastero degli Esteri, gli analisti che coadiuvano il lavoro del ministro Tzipi Livni, tracciano un parallelo col passato e fanno notare che anche Saddam nel 1991 ebbe una improvvisa quanto fugace popolarità. E che Nasrallah potrebbe disegnare la stessa parabola. La prima guerra del Golfo produsse la speranza di Oslo. Questa guerra cosa può produrre? Presto per dirlo, lo si capirà soltanto con la fine delle ostilità. Scendendo dall'avamposto di Avivim si può passare da una deliziosa località immersa nel verde chiamata Rosh Pina dove una signora di origine polacca, Noga Cilniker, si sforza di cucinare per i pochi avventori di passaggio, preparando i tavoli all'aperto sotto le fronde dei salici. "Per favore, un poco di normalità per questa terra", è la sua supplica sottovoce. Mentre lo dice, il cielo di Galilea è attraversato da un Katiuscia.
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