Parte seconda: Relatività delle misure.
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La parte seconda di questa ricerca propone una analisi del concetto di “misura” , ovvero del parametro di misurazione delle varie grandezze che esprimono in fisica concetti di moto, di tempo, di massa e di energia. Questo capitolo si propone di mettere in evidenza come il significato di “misura” non vada confuso con quello di oggetto in sé, poiché la fisica teorica lavora essenzialmente sulle quantificazioni proporzionali che noi abbiamo concesso agli oggetti, senza curarsi del fatto di come queste astrazioni possano avere in qualche modo un riscontro concreto sugli oggetti misurati. Partiremo dalla seguente misura, che verrà trattata in due puntate:
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1. Velocità.
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Un oggetto isolato nello spazio, è a tutti gli effetti un oggetto statico. In mancanza di un parametro con cui porre un rapporto in termini di differenza, non esiste modo per definirne il moto o la direzione. Il fenomeno che chiamiamo “dinamica” deve necessariamente contemplare l’interazione di almeno due elementi. Generalmente viene inteso il punto di osservazione come “statico” e l’oggetto osservato come “dinamico”. Ovviamente questa distribuzione dei ruoli di statico o dinamico viene posta arbitrariamente da chi si proclama “punto di osservazione”.
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Quando un agente di polizia ci propina una contravvenzione per eccesso di velocità, deve venire sottinteso che costui abbia assunto d’ufficio il ruolo d’ osservatore. Se il guidatore dell’auto si assumesse, per ripicca lo stesso ruolo, relegando l’agente a quello di oggetto osservato, potrebbe obiettare che, mentre egli era fermo, l’agente gli veniva incontro come un forsennato alla velocità di 160 km/h. Comunque si risolva il confronto, resta il fatto che il fenomeno velocità è rilevabile soltanto attraverso una differenza di carica dinamica tra due o più oggetti.
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Per innumerevoli secoli l’umanità ha posto la nostra Terra come punto statico dell’universo, attribuendo agli oggetti circostanti, il ruolo di dinamici. Fu con Copernico ed inseguito con Galilei, che questa convinzione venne rivoluzionata. Questo fu il primo, importante passo verso una visione più oggettiva della realtà. Ma più ancora importante, fu che questa concezione portò come conseguenza l’assunzione del principio di relatività del moto. In altri termini, subentrò la necessità, per definire il moto, di stabilire in relazione a che cosa esso avesse luogo.
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Come noto il nostro pianeta compie due moti fondamentali, quello di rotazione attorno al proprio asse e quello di rivoluzione attorno al sole, con una velocità di circa 30 Km./s. Invece meno noto, è che il nostro pianeta compie un terzo movimento, di gran lunga più vistoso dei precedenti qui accennati. Vediamo quale, a seguito di una breve premessa:
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La fisica cosiddetta “moderna” trae spunto dal risultato sperimentale che fu ottenuto da Michelson e Morley nel 1887 a Cleveland, negli Stati Uniti. Questi due scienziati, appassionati sostenitori della teoria dell’ “etere”, si proposero di dimostrarne l’esistenza attraverso un esperimento che sfruttava la velocità di rivoluzione della terra attorno al sole. Una velocità che, come già detto, si aggira attorno ai 30 km/s. È altrettanto noto che quest' esperimento portò soltanto ad escludere categoricamente l’esistenza dell’etere…ma, argomentando per assurdo, supponiamo solo per un istante,(e ribadisco, per assurdo) che non fosse stato così? Se lo spazio fosse stato effettivamente cosparso da questa sostanza impalpabile, intesa come base di propagazione delle onde magnetiche, i due scienziati si sarebbero trovati davanti ad un risultato altrettanto indecifrabile, che avrebbe causato un rompicapo ancora più grosso di quello che fu.
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Ciò che Michelson e Morley nel loro tempo, non potevano tenere conto è che la Terra opera un moto di rotazione – assieme a tutto il nostro sistema – attorno al nucleo della nostra galassia, con una velocità di circa 250 km/s. Una velocità di circa 8,5 volte maggiore di quella di cui nell’esperimento di Cleveland si tenne conto. Una velocità che avrebbe potuto inghiottire, o assommarsi a quella del moto di rivoluzione attorno al sole, portando a risultati incomprensibili. Invece dell’attesa differenza sulla variazione dello spettro, calcolata intorno ai 4/10 di punto, essi si sarebbero ritrovati con un ricco 3,2 punti di differenza, di cui non avrebbero saputo chi ringraziare.
Antoon Lorenz
Quanto sopra, dovrebbe essere sufficiente a scoraggiare gli attuali sostenitori della teoria dell’etere nel perseverare su ricerche in questa direzione: se un etere ci fosse stato, circa l’esperimento in questione, quest' esperimento lo avrebbe vistosamente e senza possibilità di dubbio rilevato più in base alla velocità di rotazione galattica, che su quella – con piccolo margine d’errore - del nostro pianeta attorno al sole. D’entrambe non ne risultò traccia alcuna.
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In linea di principio, tutte le misure si dispongono, su una scala di infinite possibilità, da zero a, appunto, infinito. Tutte le misure, diciamo, tranne una: la velocità. Secondo la fisica che si sviluppò a seguito dell’esperimento di Cleveland, la velocità è da considerarsi una misura limitata. Le ragioni di questa convinzione traggono radici nella soluzione che Antoon Lorentz, intorno al 1900 trovò come eventuale risposta al quesito che si venne a creare a seguito di detto esperimento. Cioè: se la velocità della luce rimane costante anche quando la fonte che la produce si muove nello spazio, dove imputiamo le differenze che matematicamente ne scaturiscono? Come dire: io vado da Milano a Roma ad una velocità media di 100 km/h e prevedo di impiegarci sei ore e mezza (650 km a 100 km/h). Invece, a consuntivo, risulta che ne ho impiegate solo 6. Ora, ferma restando la correttezza della distanza misurata, sia quella del tempo impiegato, dovrei concludere che ho viaggiato ad una velocità di 108,33 km/h. Ma l’esperimento da me effettuato mi conferma in modo inequivocabile che la mia velocità media era proprio quella di 100km/h e non uno di più. Mi ritrovo con una differenza di mezz’ora se la voglio imputare al tempo o a uno spazio di 50 km, se la voglio imputare alla distanza.
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Orbene, Lorentz scelse di imputare questa differenza alla distanza, attraverso un costrutto matematico che pone una misura unitaria di spazio in relazione con la velocità con cui questa viaggia in rapporto alla velocità della luce. Viene inteso che in quest'elaborazione la velocità della luce viene considerata come una velocità costante, così come risultò dall’esperimento di Michealson e Morley.
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Come conseguenza la formula di Lorentz porta il fatto che, più le misure unitarie di spazio sono vicine a quelle della luce, tanto più queste misure si avvicinano ad infinito. Alla velocità esatta della luce, 1 metro diventa uguale ad infinito.
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Da qui, la convinzione che, considerando questa formula come il fondamento della logica su cui il nostro universo è strutturato, nessun oggetto può uguagliare né superare la velocità della luce.
Einstein usa questa formula, applicandola al fattore “tempo”. Così come nell’esempio sopra enunciato, la scelta era duplice: o si fanno inghiottire le differenze dalle unità di spazio, o dalle unità di tempo. Il risultato rimane sempre il medesimo: più la velocità è grande, rispetto a quella della luce, tanto più la misura unitaria di tempo si avvicina ad infinito.
Ma osserviamo il risultato ottenuto, attraverso questa formula, quando un oggetto raggiunge la velocità della luce:
1 = ¥. (1 uguale a infinito)
Ciò significa che anche:
∞ = 1 (infinito uguale a uno)
e che infine:
1= 1
e:
∞ = ∞.
Dato che la matematica si fonda essenzialmente sulle equazioni di espressioni numeriche, affermare ad esempio che x = y, significa sostanzialmente affermare che x ed y esprimono il medesimo concetto quantificato e che infine sono la stessa cosa. L’equazione di Lorentz, risulta infine un costrutto sofisticato che porta come risultato concreto che 1 non è mai uguale ad 1 Ma all’atto pratico, rivoltando l’equazione in termini logici, così come si dimostra qui sopra, ci porta alla stessa conclusione a cui il buon De la Palice, già precedentemente era giunto, cioè che 1 è uguale ad 1 ed infinito è uguale ad infinito.
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Nel contesto delle equazioni di Lorentz, che infine costituiscono la base della teoria della Relatività, risulta chiaro che ciò viaggia nello spazio ad una certa velocità, non è né un oggetto né un soggetto, bensì una misura. Che 1 metro possa diventare infinito, attraverso questa costruzione, può risultare attuabile in linea teorica. Per realizzarlo in termini pratici, occorre una fantasia che pochi posseggono: dovremmo poter accettare che una scatola di pelati alla velocità della luce possa coprire l’infinito con le sue dimensioni materiali, trasformando l’universo in una salsa per maccheroni. Per poi riscontrare che, all’ atto pratico, riconducendo le cose alla loro logica naturale, che tutto sommato è rimasta quella scatola di pelati, che era prima di partire.
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Se l’equazione che sta alla base della teoria della relatività fosse estendibile ad un principio generale, si dovrebbe supporre che chi avesse la possibilità di far viaggiare 1 euro ad una velocità vicinissima a quella della luce, si ritroverebbe in possesso di un cospicuo capitale. Già a metà della velocità della luce, avrebbe raddoppiato il valore originale, che salirebbe a 2 euro e qualche decimale, ma senza modificare in alcun modo l’essenza materiale della moneta..
(continua la prossima settimana)
Charly Brown, alias Luciano Rota
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