Longarone com'era alle 23,28
...correva l'anno 1963... il 9 Ottobre, alle 23,29 in punto, nell'invaso della diga del Vajont precipita una frana gigantesca, preannunciata. La diga resiste, ma la massa d'acqua che tracima e si precipita a valle è imponente. L'ondata d'acqua, preceduta da un fortissimo soffio di vento, si precipitò a valle, cancellando in un attimo Longarone, Codissago, e buona parte di Erto e Casso. I morti furono oltre 1900. Non è stata una calamità, ma una strage colposa. Tutti, ma proprio tutti, sapevano che il monte Toc sarebbe venuto giù, ma nessuno, proprio nessuno, ebbe la volontà, la capacità, la forza di fermarsi, o di fermare i Signori della Sade.
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Questo non vuole essere un reportage (ne sono stati fatti a decine, alcuni bellissimi). Questo vuole essere un ricordo rispettoso di quei morti, ed un monito per tutti coloro che periodicamente dimenticano le lezioni della storia, e cominciano di nuovo a chiedere, progettare, invocare insensatezze di vario genere.
Ringrazio il nostro lettore Luca Picciali che mi ha ricordato l'anniversario, e mi ha incitato a ricordare.
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La testimonianza
10 ottobre 1963, il giorno dopo
di Angelo Frignani
"Il "lancio" dell'Ansa arrivò poco prima di mezzanotte. Da Roma, il Vajont appariva quasi un'entità astratta. Telefonata ai Vigili del Fuoco di Belluno. Il centralinista fu di poche parole: «Non so bene che cosa sia successo: sono tutti fuori. Ma se è caduta la diga, i morti sono migliaia». La diga non era caduta, ma i morti erano davvero tanti. Li tiravano su dal Piave, tornato alle sue dimensioni di piccolo fiume di montagna dopo la furia della notte precedente, e li allineavano sul fango secco della riva. Da Longarone a Fortogna, a Faè, fino al ponte della Priula e più giù ancora, verso il mare.
Come contarli? Fu necessaria una semplice, pur se macabra, sottrazione: gli abitanti risultati dal censimento del 1960, meno i pochi superstiti: il resto erano tutti là sotto. Sotto un metro o due di fango. Il primo impatto non fu impressionante: non c'erano macerie, non c'erano vistosi segni di distruzione. Poi, camminando verso la diga, ti accorgevi che l'assenza di macerie era proprio il segno dell'immensità del disastro. Dei paesi lungo la riva destra del Piave non c'era rimasta traccia: tutto liscio, levigato, "pulito". E il sole - in quelle eccezionali giornate di ottobre - colpiva implacabile.
Fu necessario seppellire in fretta le vittime, anche se ben poche erano ancora quelle identificate. La domenica successiva a quella del disastro, in un grande spazio spianato con le ruspe accanto all¹abitato di Fortogna, più di mille salme vennero inumate in lunghissime e profonde fosse, dopo essere state fotografate e contrassegnate da un numero.
Un alpino, all'ingresso di quello che stava diventando uno dei più grandi cimiteri d¹Italia, mi porse una mascherina imbevuta di disinfettante maleodorante. Cercai di respingere l'offerta. «La prenda - disse il ragazzo - più avanti ne sentirà il bisogno». Avanti, più che la visione di quei poveri corpi in attesa di sistemazione, impressionarono le cataste di bare appena assemblate nelle decine di fabbriche di mobili della zona, "mobilitate" dalla Prefettura. E, più che il sentore dei morti, colpiva l¹odore dolciastro del legno segato di fresco, ché ovviamente non c¹era stato il tempo della stagionatura.
Un pomeriggio, il pilota di uno degli elicotteri americani arrivati da Vicenza mi invitò a "fare un giro", ma - siccome sapeva che a destinazione avrebbe incontrato un suo severissimo superiore e poiché aveva il divieto di trasportare estranei - pensò bene di posarsi sulla diga e di invitarmi a scendere. «Poi vengo a prenderti».
Rimasi lassù, da solo, più di due ore: da una parte la parete vertiginosa della diga, che la gigantesca ondata non aveva spostato di un millimetro; dall'altra quello che restava del lago, con gli abeti del monte Toc radicati al terreno, ma in posizione orizzontale. Sullo sfondo i paesi-fantasma di Erto e Casso. L'elicottero tornò all'imbrunire, quando il freddo (ma non era questione di temperatura) cominciava a entrarmi nelle ossa.
Posso dire di aver - in quelle due ore - vegliato a modo mio i morti che avevo visto seppellire. Su di loro svettò fin dal primo giorno un'alta croce di tronchi d'abete fatta da una squadra di Vigili del Fuoco di Roma, alcuni dei quali, con i capelli bianchi, oggi saranno a Fortogna.
Chissà se ci sarà anche l'alpino che volle darmi per forza la provvidenziale mascherina, con premura. Come si rivolgesse a un fratello".
Ndr. Ci piace qui - del grande bellunese Dino Buzzati - riportare le ultime frasi che concludevano il suo articolo "Natura crudele" sul Corriere della Sera dell'11 ottobre 1963: "
...il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele"
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