Una donna leader del Partito democratico. Per dare un segno di svolta. E frenare Veltroni. Un'idea con due sponsor eccellenti: Marini e D'Alema. E un nome: Finocchiaro
L'Espresso - Marco Damilano

La diretta interessata per adesso non vuole sentirne parlare. Non ne ha neppure il tempo. Dal lunedì al venerdì vive accampata nel suo ufficio di capogruppo dell'Ulivo al Senato, al primo piano di Palazzo Madama, come un generale in trincea, assistita dalla storica segretaria Manuela e dal portavoce Stefano Sedazzari. Di fronte alla porta, è un via vai continuo. Anticamera affollata: bussano i senatori della maggioranza. In fila per presentare proposte di legge, lamentele, rivalità. Lei ascolta tutti, prende nota, calma gli animi, consola. Quando non è in stanza è in aula, al posto di combattimento. Al Senato, dove il centrosinistra traballa a ogni giro, con i due voti di maggioranza che sono sempre un bottino da conquistare, ancora più incerto ora dopo le defezioni dell'ex dipietrista Sergio De Gregorio e del comunista Fernando Rossi (un altro senatore di Rifondazione è dato in uscita). Nonostante la fragilità, il governo è andato sotto una sola volta, quando Antonio Di Pietro ha ordinato ai suoi tre senatori di votare contro il disegno di legge sulla giustizia di Mastella. In quell'occasione la Finocchiaro ha perso la pazienza. "Non possiamo andare avanti così", l'hanno sentita gridare fuori dall'aula, quasi invocando l'aiuto del soprannaturale. Non a caso la presidente si è già guadagnata un soprannome: Anna dei miracoli.

Invece nella battaglia c'è lei, e per assicurare le presenze in aula delle truppe bisogna utilizzare tutti i mezzi, vecchi e nuovi. Il bip dell'sms che tormenta i forzati del voto a passeggio intorno a Palazzo Madama per avvertirli che bisogna rapidamente tornare allo scranno. E il segretario d'aula, il democristiano lucano Tonio Boccia, già temutissimo a Montecitorio per i suoi continui richiami al regolamento che ora si è trasferito a Palazzo Madama, ad acchiappare senatori distratti o lavativi.
Il gruppo dell'Ulivo al Senato è il baluardo su cui il governo Prodi si giocherà la sopravvivenza nel prossimo mese sulla Finanziaria. Basta uno scivolone qui, anche piccolo, e addio. Il grosso della responsabilità grava sulle spalle della Finocchiaro, nell'aula in cui sembrano essersi dati appuntamento tutti i guai che angosciano il centrosinistra da inizio legislatura. Ci sono i teodem di Bobba e Binetti e i dieci senatori dell'area di Cesare Salvi. Ci sono i trotskisti di Rifondazione e le inquietudini della capogruppo comunista Manuela Palermi. E c'è l'attivismo di Marini, un presidente ben deciso a giocarsi un ruolo di primo piano nella politica attiva, da capocorrente dei Popolari e da candidato in pectore per la guida di ipotetici governi istituzionali.

Strano destino per lei che fino a poco tempo fa veniva inserita tra i frenatori del Partito democratico. Rossa, rossissima, fin da ragazza, iscritta al Pci a 18 anni nella sezione Ruggero Greco di Catania, un club aristocratico in cui spiccavano gli intellettuali ingraiani, i giuristi Antonio Cantaro e Pietro Barcellona. Contraria alla svolta di Occhetto, al cambio del nome del Pci: "Era un partito più burocratico, ma anche più democratico", ricorda oggi. A farle cambiare idea furono due amici, D'Alema e Luciano Violante. E poi per anni considerata un'anti-ulivista, tenace sostenitrice della necessità di un partito di sinistra, socialista e laico. Come dimostrano le sue battaglie da parlamentare e da ministro delle Pari Opportunità nel primo governo Prodi: la violenza sessuale, la tratta delle schiave, il doppio cognome per le mogli.
Oggi non ha cambiato idea, ma è stato uno spettacolo vederla al seminario di Orvieto dialogare sulla laicità della politica con Ciriaco De Mita. E i senatori con cui ha più confidenza sono spesso personaggi di frontiera: il chirurgo Ignazio Marino, presidente della commissione Sanità, il cristiano-sociale Giorgio Tonini, capogruppo agli Esteri, la presidente della commissione Istruzione Vittoria Franco, ma anche la senatrice prodiana Albertina Soliani. E soprattutto, il vice della Margherita Luigi Zanda.

Se la battaglia riesce la Finocchiaro potrebbe diventare la Ségolène Royal del centrosinistra italiano. E sì che appena qualche mese fa ha dovuto battersi nella Quercia per ottenere la ricandidatura in Parlamento, contro il parere negativo di Piero Fassino. Il suo nome era girato per il Quirinale, alla fine commentò amareggiata: "Se fossi stata uomo mi avrebbero eletto". Ora c'è anche lei in corsa per la leadership del Partito democratico. Una trovata di due sponsor eccellenti come D'Alema e Marini, consapevoli che per fermare l'irresistibile ascesa di Veltroni bisogna inventarsi qualcosa. Una novità, una donna candidata premier, ma solida e politicamente affidabile. Un'operazione futuribile, ma talmente avviata che già circola il nome del vice: il capogruppo alla Camera Franceschini, non a caso il primo a parlarne sui giornali. Ma prima di arrivare a questo punto Anna di miracoli ne deve fare ancora tanti.
...noi nei miracoli speriamo tanto, ma crediamo poco... il Partito Democratico c'era già: si Chiamava "Ulivo", poi si è chiamato "Unione"... ad ogni tornata elettorale, rinasce come "marchio commerciale", per essere affossato dopo esser servito a "vendere la merce". Partito Democratico? E come si farà a "tenere" insieme Morando e Mussi? o Rutelli e Gloria Buffo? ...e in Europa vedremo davvero Marini nel gruppo dei socialisti, o D'Alema nel gruppo dei popolari, insieme a Rutelli e Berlusconi? Comunque, ove mai la Finocchiaro dovesse riuscirvi, si conquisterà, per sempre il titolo di "Anna dei Miracoli", che già incombe...
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