Le origini della vita/2 (a cura di Charly Brown)
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La nostra scienza biologica si perita di classificare organismi, abbiamo constatato, attribuendo loro un regno di appartenenza (flora o fauna) in base a parametri spesso di dubbia definizione. Da un punto di vista chimico, possiamo senz’altro affermare, che un organismo, a qualunque regno di appartenenza lo vogliamo sottomettere, presenta una struttura ed una composizione degli elementi che lo costituiscono, del tutto simile fra loro. In termini di esempio, se avessimo a disposizione una scatola di “Lego” con pezzi esattamente identici fra loro, potremmo con questi costruire strutture tra loro molto differenziate, ma che alla radice ritroveremmo identiche negli elementi che le compongono.
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Ricordando che, la definizione di organismo si riferisce a qualcosa in grado di nascere, crescere e di riprodursi, prima di estinguersi nella sua esistenza individuale, possiamo senza dubbio operare una definizione globale tra mondo organico e mondo inorganico. Ovvero tra esistenze organizzate in grado di evolversi autonomamente di generazione in generazione e di esistenze che invece restano immutate nella forma e nella struttura per tutto il percorso di un’ era planetaria. Sotto quest’aspetto ci sarà più agevole operare una netta distinzione tra il concetto di “vita” e quello di “non vita”, a prescindere dalle distinzioni di regno, che la biologia arbitrariamente mette in atto.
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In conclusione: un organismo vivente e tutto ciò che si attiene alla definizione di organismo sopra ricordata. Organismo è un batterio, una pianta di ortiche, un calabrone, una sardina, un cammello. Non lo è una bicicletta, una pantofola, una candela ecc., sebbene questi due rami della classificazione si distinguano solo nel fatto che i primi citati hanno una composizione cellulare composta da elementi che comprendono prevalentemente catene di atomi di carbonio, idrogeno e di azoto (acidi grassi e amminoacidi), non presenti nelle strutture inorganiche.
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Generazione spontanea. Con questo termine viene inteso il generarsi della vita senza farla discendere da vita esistente. Fu l’oggetto di una ricerca che sin dagl’inizi del diciassettesimo secolo venne fatta per riprodurre la vita in laboratorio, o per meglio dire, di produrre le basi elementari della vita senza avvalersi di organismi già esistenti. Si tratta per la verità di una sequela di tentativi non riusciti, cominciati nel 1668 con Francesco Redi e conclusisi nel 1864 con Louis Pasteur. Il succo di queste ricerche - che ovviamente annoverano il contributo di molti altri biologi ed inventori, come A. van Leeuwenhoek, inventore del microscopio e scopritore dei “protozoi” o di T. Schwann, di Lazzaro Spallanzani tanto per citarne un paio - consisteva prevalentemente nel tentativo di riprodurre in laboratorio le condizioni ideali del nostro pianeta, cercando di isolare le misture preparate allo scopo (brodini di manzo, in genere), dalle interferenze di una esposizione atmosferica densa di vita già esistente. Come detto questi tentativi non approdarono a nulla e oggi appare anche abbastanza comprensibile il perché: in primo luogo nel tempo in cui vennero effettuati questi esperimenti, non era ancora ben chiara la composizione atmosferica, la temperatura e una serie di condizioni ambientali che non sono assolutamente paragonabili a quelli presenti nella nostra era. Inoltre uno degli impedimenti più massicci all’ottenere risultati positivi in quel senso, è rappresentato dal fatto che l’ambiente attuale è saturo di esistenza organica evoluta e definita, tanto che se mai fosse possibile produrre in laboratorio delle forme primordiali di vita non riprodotta da generazioni precedenti, queste verrebbero a costituire subito una bella merenda per forme organiche esistenti ed agguerrite, precludendo così la possibilità di evolversi e di sviluppare quelle difese naturali atte a sopravvivere in un certo ambiente, che generalmente vengono trasmesse per DNA. Sarebbe come cercar d’ inserire un uomo di Neanderthal, nella nostra civiltà tecnologica, lasciandolo a se stesso e anche con la modesta pretesa di impiegarlo come ragioniere alla Comit, aspettarsi che metta su famiglia e si riproduca per raggiungere il livello di evoluzione che gli altri hanno impiegato decine di migliaia d’anni per farlo.
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Sulla linea di quest’ipotesi, intorno agli anni 20 del secolo scorso, il biologo inglese Sanderson Holdane avanzò per primo l’idea che l’atmosfera primitiva fosse composta prevalentemente da anidride carbonica ed azoto. Un ipotesi che venne più o meno confermata dalla recente scoperta del fatto che le atmosfere di Marte e di Venere siano costituite prevalentemente da anidride carbonica. Quindi assenza di ossigeno allo stato puro. Il che si connette con l’assenza di ozono, ovvero di quel filtro che difende la crosta terrestre dall’eccesso d’irradiazione ultravioletta. Ciò significa che la Terra primordiale assorbiva una quantità di radiazioni ultraviolette molto superiore a quelle odierne. In queste primitive condizioni, la forte irradiazione ultravioletta ha potuto fungere da catalizzatore per favorire la combinazione di molecole di azoto, anidride carbonica e acqua in composti sempre più complessi, fino a sviluppare quelle che costituiscono le basi della vita.
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Una prova concreta del fatto che la vita non sia da attribuire ad una coincidenza più unica che rara, ce la fornisce il biofisico francese Pierre Lecomte du Nouy, il quale dimostrò(anche se per altri intenti dei nostri) che se i vari atomi di carbonio, idrogeno, ossigeno azoto e zolfo si fossero disposti in ordine al caso, tutta la durata dell’universo non sarebbe stata sufficiente a permettere la formazione di una sola molecola proteica del tipo associato alla vita. In forma di esempio dovremmo pensare ad una catena proteica composta da un centinaio di amminoacidi. Ognuno di questi potrebbe essere di venti varietà diverse. Ora, il numero di catene proteiche possibili, diverse fra loro, sarebbe costituita da un numero uguale ad 1 seguito da 130 zeri. Da cui, attraverso un ragionamento statistico, si evincerebbe che la possibilità che si avrebbe di formare a caso una particolare catena associata alla vita sarebbe di 1 su 1 seguito da 95 zeri.
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Tutto questo ci induce a concludere che la vita non sia un caso. Dovremmo invece supporre che la materia sia dotata di un qualcosa che chiameremo semplicemente “software”, un programma prestabilito, che convoglia l’evoluzione di questo o di tutti gli eventuali pianeti simili al nostro verso un fine prestabilito. Una volontà precisa che si esprime non dal di fuori delle cose, ma dall’essenza intima delle cose stesse.
(continua)
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