Le origini della vita/4 (a cura di Charly Brown)
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Nel precedente articolo siamo giunti a constatare, circa l’argomento che trattiamo, l’esistenza di due domande a cui la scienza, ancora oggi non è in grado di dare una risposta. Vediamo quali:
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la prima: con quale logica e con quale schema si combinano le molecole che andranno a formare stelle e pianeti? Se fosse solo il caso a gestirne l’evoluzione, l’universo probabilmente sarebbe un minestrone di tutte le verdure spaziali che potremmo immaginare. Invece, a vista d’occhio astrofisico, la struttura e lo spettro di tutte le galassie e stelle conosciute rispecchia la stessa quantità e in grandi linee la stessa proporzionalità di elementi contenuti.
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La seconda domanda: la gestione evolutiva si esprime dall’ interno delle cose o dall’esterno di queste ? E qui abbiamo due strade distinte che purtroppo ancora fanno a pugni fra loro. Considerare l’evoluzione universale o “genesi” (che più si adatta al presente caso) come una gestione esterna, ci porta giocoforza alla concezione di trascendenza dell’atto creativo. Che in termini spiccioli significa al concetto di un Dio creatore, e gestore di ogni esistenza universale.
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Questa versione si scontra in modo evidente con tutto ciò che possiamo osservare in termini di organismi, dove ogni elemento si associa ad altri elementi spontaneamente, secondo uno schema prestabilito e nella giusta misura richiesta, per ottemperare ad una certa necessità. Il che non escluderebbe, anzi potrebbe senz’altro avvallare l’esistenza di una volontà finalizzata, ma escluderebbe certamente la figura di un’esistenza esterna a tutto ciò, capace di mettere in opera una genesi dell’universo in modo trascendente. In considerazione del fatto, anche, che ciò che si costruisce come manufatto e si comanda dall’esterno ha bisogno di una costante direttiva, un continuo controllo ed un rifornimento d’energia non autonomo. Ora sappiano che nessuno degli organismi naturali si fonda su detti principi.
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Allora dovremmo ripiegare sulla soluzione che tutti gli organismi naturali, si generino dall’interno di se stessi e si sviluppino sulla linea di un programma che è contenuto nel seme originale di qualunque struttura e che inoltre si evolvono secondo una logica di adattamento all’ambiente in cui nascono e si riproducono.
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Lo studio sempre più dettagliato e approfondito della cosmologia e della biologia portano inequivocabilmente alla luce il fatto che ogni struttura esistente, sia inanimata che animata, si prefigga, attraverso una certa logica autonoma e un comportamento riconducibile in legge, il raggiungimento di un certo fine di sopravvivenza e di perfettibile adattamento oltre a fini collaterali.
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Nel DNA che accomuna tutto il regno vegetale, vi riconosciamo il fine individuale di attitudine alla sopravvivenza in un certo ambiente, e un fine riproduttivo per la continuazione della specie di appartenenza. Connesso con il fine della sopravvivenza, possiamo però ritrovare un fine collaterale. Un attività che pur essendo di diretta necessità del vegetale, si proietta come conseguenza, nell’espletamento di una funzione finalizzata in un contesto estraneo a vegetale stesso, ma legato da continuità consequenziale: la funzione clorofilliana per esempio. Indispensabile al vegetale per rifornirsi dell’anidride carbonica necessaria per trasformarla nei tessuti vitali dello stesso. Tuttavia quest’attività porta come conseguenza un costante assorbimento di anidride carbonica dall’atmosfera ed una continua emissione di ossigeno. Forse che i vegetali siano coscienti di questo loro attributo che costituisce il sostanziale anello della catena tra regno vegetale e quello animale? Non più, presumibilmente, di quanto lo sia una capra che defeca sul prato, dell’utilità collaterale che la sua azione comporta ai fini della fertilità del terreno.
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Come già si è detto, è un fatto praticamente accertato che ai primordi del nostro pianeta nell’ atmosfera non ci fossero che tracce trascurabili d’ossigeno. Quasi tutti gl’atomi d’ossigeno presenti al tempo in cui la Terra era ancora priva di vita organica in senso stretto, si trovavano combinati con due atomi d’idrogeno in molecole d’ acqua o con un atomo di carbonio, in molecole di anidride carbonica. I vegetali non necessitano d’ossigeno, anzi lo scartano come rifiuto organico, dissociando le molecole di anidride carbonica (CO2) in atomi di carbonio, necessarie alla riproduzione del proprio tessuto costitutivo, e di ossigeno, che vengono liberate nell’atmosfera.
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Questo processo ha permesso col tempo la vita fuori dall’acqua, poichè questa richiede una quantità di energia molto più grande di quella richiesta per la vita acquatica, dove la gravità è praticamente nulla. Solo una reazione chimica tra ossigeno e carbonio può fornire l’energia sufficiente ad un organismo per sopravvivere all’asciutto, per giunta, portandosi dietro alcuni litri di oceano nelle vene.
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Con ciò mi prefiggo di mettere in evidenza che ogni singolo organismo (inteso come organizzazione di singoli elementi) faccia parte e sia strettamente collegato nelle sue funzioni collaterali ad altri organismi che li comprendono o in cui sono compresi. E’ evidente che esiste una logica finalizzata che collega tutte le specie di organizzazione dell’universo.
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Con riferimento alla nostra realtà, noi ci troviamo in un punto intermedio tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Proprio per la nostra mediocrità (in senso aristotelico) di dimensioni potremmo tracciare i parametri relativi di “grande”e “piccolo”. Da questa nostra mediocrità, ci dovrebbe risultare abbastanza facile collegare il più grande col più piccolo e viceversa, in una logica di continuità organica. Invece così facile non è. Per quale ragione? In primo luogo la tendenza egocentrica che ci compete come caratteristica: nella nostra qualità di osservatori critici, studiamo la fenomenologia naturale come qualcosa esterna a noi e non come qualcosa che ci coinvolge come parte sostanziale del tutto. Noi assistiamo alla realtà come ad un film al cinema, stando seduti sulla poltrona, con la consapevolezza che quello che vediamo sullo schermo seppure ci avvinca ed emozioni, non ci coinvolga in alcun modo. Per millenni ci siamo sprofondati nell’illusione di un unico rilevante rapporto tra la nostra stirpe ed un Dio che tutto regola, tutto vede e tutto sa. Per millenni abbiamo vissuto nella convinzione che al di fuori di questo rapporto essenziale, siamo stati gratificati, come decoro, della compagine naturale: per rallegrarci le notti ci furono concesse fiammelle sparse per il cielo. Ci sono stati concessi gl’alberi per farci ombra e per poterci rimpinzare dei loro frutti. Gli animali per farci compagnia e fornirci il cibo. Fino agl’eccessi della visione maschilista, secondo cui anche la femmina sarebbe stata concessa al maschio della specie umana per suo esclusivo uso, consumo e sollazzo. A pochi è venuto in mente, nel corso dei millenni, che tutto ciò che esiste, esiste in primo luogo per ragioni proprie ed oggettive (nei nostri riguardi). Quei pochi che hanno compreso l’eguale importanza di ogni connessione con la natura che ci ha dato i natali e che ne perpetra l’esistenza. Quei pochi che rifiutano le visioni concettualmente utilitaristiche, limitandosi ad osservare i fenomeni per quello che in sè rappresentano.
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Ma anche questo non basta per avere una comprensione della totalità e dei rapporti che legano ogni cosa ad ogni cosa, con una logica essenzialmente organica ossia di biunivoca interdipendenza. Quella stessa logica che nei vegetali lega le radici al frutto: due esistenze profondamente diverse fra loro: una sotterranea, mesta e intricata, l’altra attraente e luccicante nei raggi del sole; eppure così connesse tra loro in legame di reciproca sopravvivenza.
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Qui si forma la risposta alla seconda domanda precedentemente posta circa le ragioni della nostra difficoltà a collegare la fenomenologia universale in un unico organismo: la frammentarietà delle competenze. La fanatica ricerca del dettaglio in ogni singolo fenomeno, isolandolo dagl’altri. Quando spesso la risposta a certi quesiti, la si potrebbe trovare in strutture ad esso collegate ma appartenenti a differente tassonomia. Come dire: per comprendere le ragioni del frutto sull’albero, lo si analizza nei suoi più infimi dettagli. Mentre la ragione potrebbe essere insita nelle radici o ancora più a monte, nel seme.
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Questa concezione organica dell’universo, così come qui viene intesa, non studia i dettagli, ma le connessioni tra tutte le strutture universali, allo scopo di promuovere nuove conferme e risposte a quesiti ancora irrisolti e legare ogni cosa con lo stesso filo conduttore nella ricerca delle finalità d’insieme.
Per la ricerca di dette finalità sarà necessario ampliare le questioni qui affrontate, cercandone i legami in ogni ramo dello scibile. Ogni ramo che presumibilmente fa capo allo stesso tronco ed alle stesse radici.
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Così come affermato, la ricerca speculativa operata in questa sede si ferma al ‘come’. Per risposte esaurienti circa il ‘perché’, sarà necessario ricercare i collegamenti in altre direzioni, che anche se a mio avviso conciliabili con la scienza, non appartengono al momento attuale all’ambito scientifico, quale questo saggio si è premesso di attenersi.
(continua)
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