Stupro, nuova sentenza choc: pena più lieve per un reduce dall'Iraq
- di red - l'Unità 8 marzo 2006
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La violenza sessuale è meno grave se a compierla è un soldato statunitense appena tornato dall’Iraq. È quanto si può leggere nelle motivazioni della sentenza che spiega la condanna (del novembre scorso) per violenza sessuale a cinque anni e otto mesi (più 100 mila euro di risarcimento, invece dei 7 anni chiesti dal pm) di un parà statunitense di stanza alla caserma «Ederle» di Vicenza. Una condanna mitigata dal fatto che al parà in questione sono state concesse le attenuanti generiche a causa dell’«esperienza bellica ed extrabellica che lo ha logorato psicologicamente e spinto a dare minore importanza alla vita e alla incolumità altrui».
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I fatti. Secondo quanto ricostruito in aula durante il processo James Michal Brown, parà di 27 anni dell’Oregon, la notte del 22 febbraio del 2004 (due giorni dopo il suo rientro dall’Iraq), ubriaco, fa salire sulla sua auto una coetanea nigeriana. Quindi la picchia, la violenta e la lascia per strada nuda, ammanettata e in evidente stato di choc. Sono proprio le manette Smith&Wesson (oltre che la descrizione fatta dalla ragazza) a tradire il soldato. Infatti sono in dotazione dei 1900 militari americani della caserma Ederle, sede della Task force dell'Europa meridionale.
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La condanna e le attenuanti Alla fine del dibattimento il soldato (che nel frattempo è stato espulso dall'esercito e spedito in carcere in Germania) viene condannato per violenza sessuale: cinque anni e otto mesi più 100 mila euro di risarcimento. Il pm ne aveva chiesti 7 ma il tribunale ha stabilito che: «vanno riconosciute le attenuanti generiche, perché appare verosimile che l'imputato, nella commissione dei reati, sia stato influenzato da atti di violenza cui ha assistito in Iraq e che nulla avevano a che fare con la necessaria violenza bellica».
Uno stupro senza giustizia
Marco Galluzzo - Io Donna 26 giugno 2004
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Lo stupro è avvenuto di giorno, in un attico di Pordenone, in pieno centro. La casa in uso a un militare americano, una piccola festa privata: il soldato, due albanesi, tre italiane minorenni. Una riesce a scappare, Chiara no. Qualche giorno dopo Chiara sta male, denuncia di aver subito violenza. Le indagini e i medici confermeranno un'azione di gruppo. Per la ragazzina occorrerà il ricovero in ospedale e uno psicologo per ricominciare. Le cronache locali del tempo, un anno e mezzo fa, se ne occuparono senza enfasi. Oggi quel caso è diventato un rebus giuridico, è approdato in parlamento, lambisce le relazioni fra due Stati. Un caso in cui la giustizia fatica ad affermarsi. E in cui il dramma personale di una giovane è stato nei mesi sommerso e allo stesso tempo ignorato da una montagna di documenti e da un delicato carteggio burocratico. L'Italia intende rinunciare al processo contro l'americano, l'unico in grado di risarcire il danno. Ma un piccolo giudice di provincia ha sin qui "disobbedito" la richiesta di Castelli e ha fissato l'udienza il 28 giugno.
La ricostruzione: Chiara, il nome è di fantasia, all'epoca dei fatti 14 anni, accusa tre albanesi e il soldato americano Robert Scott Gardner, 19 anni. I tre vengono arrestati, uno di loro collabora, conferma la ricostruzione della ragazza. Gardner invece viene solo interrogato, nega tutto, oggi lavora nella base militare Nato di Aviano(...) Si mette in moto la diplomazia, il comando americano di Aviano chiede al ministro della Giustizia di rinunciare alla giurisdizione in base alla Convenzione di Londra. Roberto Castelli firma di suo pugno la richiesta. Informa la Farnesina, allega un parere della Procura generale, chiede ai giudici di passare la mano alla Corte marziale, che verrà allestita nella base militare. A questo punto cominciano i problemi. L'avvocato di Chiara, Rosanna Lovere, grida allo scandalo: "La ragazzina è stata brutalizzata, la sua famiglia è andata in frantumi, e le si chiede di rinunciare alle garanzie del processo italiano. Una vergogna. Il dolore di questa ragazza non avrà mai una vera forma di risarcimento, ma almeno non si aggiunga altro danno. Non si aggiunga l'atmosfera di una corte militare, l'interrogatorio diretto, un codice che non prevede la richiesta di danni". Il fatto approda in Parlamento: due interrogazioni denunciano un caso che non avrebbe precedenti dal 1945 a oggi. Sarebbe la prima volta (il ministero non nega) che per un reato riconosciuto dallo stesso Castelli di "particolare gravità", senza alcun collegamento con le mansioni del soldato, l'Italia passa la mano.
In casi come questo (nulla a che fare con il Cermis) la priorità della giurisdizione è italiana, la rinuncia un atto discrezionale. C'è anche un rimpallo di responsabilità: per il ministro "c'era il parere favorevole della Procura generale". Dario Grohmann, procuratore generale a Trieste, dice che il proprio parere "non è vincolante" e che "la scelta è politica". Nell'atto di rinuncia il ministero promette a Chiara che gli Stati Uniti "faranno fronte ai risarcimenti". L'avvocato Rovere ha inviato una domanda al ministero, ricevuto risposta dopo nove mesi, appreso che non esistono garanzie. Oggi il destino di Chiara è nelle mani del gip Rodolfo Piccin, che ha più di un dubbio sulla legittimità, in questo caso, di una Corte marziale. Finora Chiara è stata interrogata già tre volte. A venti mesi dalla violenza non sa ancora a chi chiedere giustizia. Né da dove cominciare.
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