“...ci sono uomini che, nascendo, potrebbero chiamarsi Giovanni Coltrani, e nessuno se ne stupirebbe. Altri nascono per chiamarsi John Coltrane, e per stupire il mondo...” Era il 1965. Io ero appena passato dalla Unilever alla Vicks, e andavo due volte al mese a Parigi, alla sede Europea. La Vicks era vicino all’Etoile, in Avenue de Wagram; anche il Blue Note era vicino all’Etoile, in una traversa degli Champs Elysées che buttava verso Avenue de Wagram.
Nell’albergo dove andavo, una sera incontro Franco Cerri (l’uomo in ammollo, qualcuno lo ricorda?), che avevo conosciuto nel periodo dell’Unilever. Un personaggio squisito, oltre che un grandissimo musicista. All’epoca era ritenuto uno dei più grandi chitarristi jazz d’Europa. Lo avrei poi una volta ancora; qualche anno fa, quando perse un giovane figlio (figlio d’arte, suonava il basso con Renato Sellani al “Ponte” di Brera) per una malattia improvvisa e fulminante.
E’ stato lui a mandarmi la prima volta al Blue Note. Anno fortunato. John Coltrane aveva appena costituito un quartetto tutto suo, il cui pianista era un signore che sarebbe poi diventato un altro mostro sacro: tale McCoy Tyner, uno dei padri putativi del free Jazz.
John Coltrane era un gigante, non solo dal punto di vista musicale, ma anche fisicamente. Aveva 39 anni, essendo nato nel ’26. Sarebbe rimasto in vita ancora e solo due anni.
John Coltrane è stato al tempo stesso un grande innovatore ed un grande tradizionalista; le sue innovazioni erano ”visceralmente capite” anche dai non addetti ai lavori, perchè non avevano niente di intellettualmente costruito; erano fluide, belle, facili da sentire.
La sua biografia sarebbe interminabile; basti dire che viene ingaggiato a 23 anni da Dizzy Gillespie, e a 29 anni da Miles Davis. Nel frattempo erano diventate leggendarie alcune sue jam sessions con Sonny Rollins, alcune delle quali salvate dalla Blue Note.
Di lui il musicologo Jean-Louis Comolli avrebbe scritto: “...«...senza dubbio il jazz non è stato mai portato a un tal punto di esaltazione, l'improvvisazione così vicino al delirio e la bellezza tanto vicino alla mostrousità, che è la perfezione superumana. Musica non celeste ma infernale, in cui l'amore di Dio è la morte dell'uomo...»
E Red Garland, un pianista che lo conosceva molto bene, avrebbe scritto: «...stare accanto a Coltrane è stato più che un'esperienza impagabile. Lui iniziava a soffiare e ognuno di noi veniva immediatamente catturato nella sua rete. Non potevi più uscirne fuori. Ma, per il vero, nessuno di noi ha mai tentato di uscirne. Era ammaliato, stregato, plasmato, annientato dalla sua musica, dalle note che quel sassofono sfornava a getto continuo, senza tregua, senza remissione. Note incandescenti che avrebbero potuto anche ustionarti. E tutte con un preciso significato. Trane non ha mai fatto nulla in cui non credesse fortemente e che non sentisse intensamente. Era un sincero, un passionale. Si è distrutto suonando troppo. La creatività, che aveva dentro e non gli dava tregua, lo ha fatto morire. Dopo Charlie Parker è arrivato Trane. Poi, quando anche lui è scomparso, è rimasto il deserto. Arriverà un altro messia? All’orizzonte non appare nessuno...»
Il brano proposto questa settimana è del “periodo parigino”, quello che più amo perchè meglio conosco, ed è eseguito in quartetto con McCoy Tyner:
Jonh Coltrane Quartet - Violets for your furs
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