Nel confuso dibattito sulla politica estera delle ultime settimane, Massimo D'Alema ha mostrato la stoffa politica che anche gli avversari gli riconoscono. Non ha mai mancato di rivendicare il significato e la coerenza della sua azione alla Farnesina, ha sottolineato la svolta che a suo giudizio quell'azione manifestava rispetto al governo precedente, ha sempre cercato di difenderla dalle pressioni che miravano a spostarla su un terreno più radicale, di rottura più o meno palese con il quadro tradizionale delle nostre alleanze..
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In questo sforzo quotidiano il nostro ministro degli Esteri ha fatto qualcosa che in Italia non è certo usuale: ha parlato con nettezza, e lo ha fatto ripetutamente. Ha detto fuori dai denti, rivolto ai turbolenti soci della sua coalizione militanti nella sinistra radicale, che un governo che si rispetti deve potersi reggere su una propria maggioranza in politica estera; che su un tema così decisivo non sono ammissibili apporti dell'opposizione; che se non si sta su questa strada allora l'unica alternativa è quella di abbandonare la partita. Non solo. D'Alema ha fatto di più: su ciò che andava dicendo ha deciso di impegnare la propria personale immagine di uomo di Stato. Dando una lezione di quella che si chiama «responsabilità politica», e insieme una lezione altrettanto importante di moralità politica, ha fatto chiaramente capire che in caso di sfiducia al suo operato di sicuro egli non avrebbe potuto restare al suo posto.
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Ma naturalmente, ascoltando il D'Alema dei giorni passati, nessuno poteva dimenticare l'esistenza, accanto al D'Alema statista, di un altro D'Alema: del D'Alema tattico consumato, esperto di assemblee e di giochi d'aula, dell'oratore abile a radunare consensi. E' stato questo il D'Alema che ha parlato ieri a Palazzo Madama. Alternando con avvedutezza impegni e disimpegni, cautele e toni morbidi da un lato e affermazioni recise dall'altro, usando insomma tutti gli strumenti offertigli dal lessico e dalla dialettica, il ministro si è impegnato nel tentativo di convincere i recalcitranti della maggioranza a non fargli mancare l’appoggio. Sfortunatamente, il suo si è rivelato un tentativo disperato. Ha prevalso la coerenza ideologica di un pugno di massimalisti, cocciuta sino all'accecamento, e l'appoggio richiesto è mancato: il Senato non ha approvato la politica estera del governo.
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Adesso sappiamo che Prodi, dopo aver incontrato il presidente Napolitano e averne ascoltato il consiglio, ha deciso saggiamente di dimettersi. Ma al di là di questa decisione si può pensare — e siamo sicuri che egli per primo in queste ore lo sta pensando — che esista uno specifico caso D'Alema. Chiedergli perentoriamente di non partecipare al prossimo governo ha un sapore maramaldesco che non ci piace; sarebbe quasi rivestire i panni di Shylock. Una cosa sola pensiamo che l'opinione pubblica possa chiedere in questo momento a Massimo D'Alema: una parola, un gesto, veda lui quale, che comunque non dissipi la lezione di serietà, di impegno e di coerenza, che le sue parole hanno offerto al Paese nelle settimane passate.
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Ernesto Galli della Loggia – Corriere.it
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Di Ernesto Galli della Loggia non ho mai amato la tendenza all'ambiguità cerchiobottista. E tuttavia questa volta non posso non essere d'accordo con lui. Anche perchè, per una volta, tesse l'elogio non già di una probabile "new entry" nella stanza dei bottoni, ma di un probabile capro espiatorio che la stanza dei bottoni si accinge a lasciare, dopo aver lasciato (fra i pochi, insieme a Visco e Bersani) una traccia visibile e positiva del suo passaggio ministeriale.
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