A Roma, alle 9.15 del 16 marzo 1978, il giorno in cui il governo appena nominato, guidato da Giulio Andreotti, doveva presentarsi in Parlamento per ottenere la "fiducia" (approvazione parlamentare), l'auto che trasportava Moro da casa alla Camera dei Deputati fu intercettata in via Mario Fani da un "gruppo di fuoco" delle Brigate Rosse, che in pochi istanti portò a termine una delle più feroci azioni terroristiche che si ricordino nella storia italiana contemporanea. In una manciata di secondi, sparando con armi automatiche, i terroristi massacrarono i due carabinieri a bordo dell'auto di Moro (Domenico Ricci e Oreste Leonardi) e i tre poliziotti a bordo dell'auto di scorta (Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana. Moro venne caricato a forza su un'auto che si allontanò rapidamente.
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Il rapimento fu rivendicato con il primo dei nove comunicati che le Brigate Rosse inviarono durante i 55 giorni del sequestro.
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Il 9 maggio dello stesso anno, dopo 55 giorni di detenzione, al termine di un presunto processo del popolo, sarebbe stato assassinato per mano di Mario Moretti. Il cadavere di Moro è stato ritrovato il 9 maggio in una Renault 4 rossa in Via Caetani, in pieno centro di Roma.
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Si è sostenuto che non tutto il vertice brigatista fosse concorde con il verdetto di condanna a morte. La brigatista Adriana Faranda citò una riunione notturna tenutasi a Milano e di poco precedente l'uccisione di Moro, ove ella ed altri terroristi (Prospero Gallinari e - forse - Franco Bonisoli) dissentirono, tanto che la decisione finale sarebbe stata messa ai voti.
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Quel giorno non segna solo la fine del compromesso storico, ma, paradossalmente, segna l'inizio della fine delle Brigate Rosse. Sembra che il destino di questo paese sia costantemente quello di dover toccare il fondo, prima di avvertire un senso di asfissia, e di sentire il bisogno di risalire. Ci riusciremo anche questa volta?
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