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Il modo critico, talvolta
ipercritico (giustamente ipercritico) con il quale un po’ da tutti è stata
seguita la gestazione del Partito democratico, va oggi lasciato da parte per
fermarci a riflettere in modi più appropriati su cosa rappresentino e cosa siano
le assise con cui di qui a domenica Ds e Margherita si scioglieranno.
Come prima cosa va osservato che, al di là degli esiti che potrà avere
l’operazione, siamo al cospetto di un evento di dimensioni storiche. Quattro
anni fa, quando il lungimirante Michele Salvati propose la fondazione di questo
partito, il suo isolamento fu pressoché totale. E ancora pochi mesi fa lo
scetticismo era prevalente. L’idea che l’esperienza organizzativa del comunismo
e del postcomunismo italiano nonché quella della sinistra Dc e di parte
dell’area laica intermedia potessero avere fine con lo scioglimento dei due
partiti in un unico contenitore, appariva ingenua o eccessivamente ambiziosa. E
invece ciò accade.
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Non ci sembra poi di
scarso rilievo la circostanza che i fondatori della nuova formazione
politica, anziché ispirarsi a una delle denominazioni del centrosinistra
europeo, abbiano optato per quella del più antico partito statunitense, il
partito di Franklin Delano Roosevelt ma anche dell’anticomunista Harry Truman,
di John Kennedy ma anche del «guerrafondaio» Lyndon Johnson e poi di Jimmy
Carter e di Bill Clinton. Chi conosce la storia americana sa quanto apparenti
fossero le contrapposizioni tra questi presidenti e quanto diverso da quello
della nostra sinistra sia sempre stato il rapporto del Democratic Party con
parole come democrazia o guerra. Quel nome, Partito democratico, implica la
collocazione di radici importanti del nuovo albero dall’altra parte dell’oceano.
Implica in buona sostanza la scelta del modello americano anche se ancora a
lungo, per prudenza e dissimulazione, ciò verrà negato. Quantomeno nel discorso
pubblico.
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Nella storia di questo
dopoguerra c’è un precedente dell’attuale matrimonio (sia pure allargato)
tra Ds eMargherita: l’unificazione socialista del 1966. Un precedente
sfortunato, che può essere portato a esempio solo di quel che non si deve fare.
La fusione di due apparati recalcitranti, socialista e socialdemocratico,
produsse scissioni, un flop elettorale (nel 1968) e la rottura dell’anno
successivo, quando Psi e Psdi ripresero ognuno la propria strada. A onore dei
contraenti del patto odierno va detto che, pur se gli errori di quarant’anni fa
possono essere commessi di nuovo tutti e in parte sono già stati commessi, in
caso di disfatta l’esito non potrà essere lo stesso; nel senso che, se dovranno
ridividersi, i due partiti non potranno mai tornare ad essere quel che sono
adesso. Ds e Margherita, a differenza dei socialisti degli anni
Sessanta, si muovono dunque senza rete. E questo nobilita
l’impresa.
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Tale condizione dovrebbe
far sì che da adesso in poi chi deciderà di militare nel partito democratico
dovrà dimostrarsi all’altezza della prova. A cominciare dai leader. Anzi dal
leader. Oggi ancora non sappiamo chi possa capeggiare il nuovo partito e
candidarsi alla guida del governo (un’idea ce l’avremmo, ma non spetta a noi
dare questo genere di indicazione). Sappiamo in ogni caso che quel
leader deve essere una sola persona — sottolineiamo: una sola persona—e che
dovrà uscire allo scoperto nel giro di poche settimane. Solo se guidato fin dai
primi passi da un capo certo e carismatico il partito democratico potrà avere
successo. Un successo i cui effetti, riverberandosi anche nel campo opposto,
possono produrre una stabilizzazione dell’intero sistema. Del che c’è evidente
bisogno.
Paolo Mieli
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...diciamo la
verità... la "sterzata al centro" dei DS è un evento temuto da molti. Molte idee
dei centristi non ci piacciono, e non ci riferiamo solo a fenomeni folcloristici
come la Binetti e i suoi cilici. No, ci riferiamo proprio alle mille giravolte
del leader dei centristi, giravolte "etiche" prima che politiche. Staremo a
vedere. Speriamo che Mussi e Angius abbiano torto, ma non possiamo impedirci di
temere che abbiano ragione...
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