Ho saputo dire solo: "Perché?"
di Lorenzo Guadagnucci - (giornalista del Resto del Carlino)
10.09.2001 (intervista tratta dal sito www.isfreedom.org
...questo post è dedicato a due miei amici immaginari che, per comodità ed amore per la sintesi, chiamerò "Gli Idioti"...
Ho saputo dire solo: “Perché?”. Ero seduto in terra, in un angolo della palestra, e con le braccia riparavo la testa, mentre due poliziotti mi colpivano coi manganelli, e l’unica cosa che riuscivo a dire era: “Perché?”
Nella notte fra il 21 e il 22 luglio ero a Genova in via Battisti, dentro la palestra della scuola Pertini (ex Diaz), adattata a dormitorio per i giorni del G8. Gli agenti sono entrati verso mezzanotte. Io mi sono svegliato di soprassalto, ho indossato scarpe e pantaloni, messo gli occhiali e quindi ho assistito al loro ingresso. Sono entrati a passo svelto, erano qualche decina: i primi si sono avventati contro un gruppo di ragazzi seduti sul pavimento e hanno cominciato a colpire con calci e manganelli. Nel frattempo insultavano, gridavano frasi come “Questo è l’ultimo G8 che fate”, “Stasera vi divertite meno”. E’ stato un pestaggio brutale. E’ toccato anche a me. Sono stato colpito prima da due agenti, poi un terzo, quando ero già sanguinante alle braccia e a una gamba, ha completato l’opera colpendomi alla schiena, a un fianco e all’addome.
Mentre venivo picchiato, dicevo solo “Perché?”. Non credo che gli agenti mi abbiano sentito. Del resto non sarebbe servito a niente, come non sarebbe servito a niente dire “sono un giornalista”. Dentro la palestra, quella notte, non c’erano giornalisti o insegnanti, studenti o impiegati; non c’erano cittadini, titolari di un’identità e di precisi diritti. C’erano solo potenziali membri del Black Bloc, c’erano manifestanti da punire dopo i cortei e i disordini di venerdì e sabato nelle strade di Genova, c’erano non-persone su cui sfogare la violenza, nell’esercizio di una cieca repressione. Io ho detto solo “perché?”, in un disperato tentativo di dialogo, perché in quei frangenti stava accadendo qualcosa di troppo grande, e troppo grave, per le mie capacità di comprensione. Improvvisamente, con l’irruzione degli agenti nella scuola, erano caduti tutti i capisaldi, i punti di riferimento della nostra vita civile: l’identità personale, il diritto all’integrità fisica, il diritto ad essere informati dei provvedimenti giudiziari subiti. Della libertà di stampa non parlo nemmeno, perché dentro quella palestra abbiamo vissuto un paio d’ore di sospensione dei più elementari diritti civili, e in quel contesto le libertà di espressione e di stampa apparivano come un lusso impensabile.
Potevo forse accampare i miei diritti di cronista, mentre aspettavo l’ambulanza, seduto in terra in mezzo agli altri feriti, con un braccio e una gamba sanguinanti, la schiena a pezzi, un dolore lancinante all’addome? Non potevo, altrimenti avrei chiesto al “dottore”, ossia al signore in borghese che comandava l’operazione dal fondo della palestra, perché mai ci avessero pestato in quel modo. Perché mai non si fossero nemmeno preoccupati di identificare le persone presenti e di contestargli qualcosa: un possibile reato o qualunque altra cosa. Forse mi avrebbe risposto con la spiegazione ufficiale diffusa a operazione conclusa: perquisizione finalizzata alla cattura di membri del Black Bloc, i teppisti responsabili delle violenze di piazza di venerdì e sabato. Non ho fatto quelle domande, perché dentro alla palestra non ero un cronista [..] Dentro la palestra ero uno come gli altri, una non-persona. Un “perquisito” a cui non si chiedono neppure nome e cognome, a cui non si rovistano le tasche, che pure nascondevano un telefonino (e se avessi avuto, per assurdo, una pistola, chi se ne sarebbe accorto?).
Ho trascorso due giorni in ospedale, in stato d’arresto. Nessuno, peraltro, mi hai comunicato alcunché. D’essere accusato di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e resistenza aggravata a pubblico ufficiale, l’ho appreso sbirciando un giornale con la “complicità” di uno degli agenti che mi piantonavano. In quei due giorni ho spesso pensato al peggio. Avevo la sensazione di essere finito in un meccanismo perverso in cui le regole del diritto vengono capovolte: ti pestano, ti arrestano, ti accusano di reati gravissimi senza nemmeno identificarti, interrogarti, ascoltare le tue ragioni. E tu ti senti colpevole. Cominci a pensare che il solo fatto d’essere entrato dentro uno dei dormitori del Genoa social forum può essere un elemento d’accusa nei tuoi confronti, una “prova” della tua colpevolezza. Sei tu che hai sbagliato, perché forse in quello stesso dormitorio c’erano dei teppisti, dei ricercati. E tu che ci facevi?
E’ terribile, ma quando sei solo, detenuto, privato della tua stessa identità, cominci a ragionare con la stessa logica aberrante di chi ti ha imprigionato e condotto al di fuori delle regole, lontano dallo stato di diritto. Cominci cioè a pensare che le norme siano cambiate e che quindi devi trovare una via d’uscita, per salvarti, nell’ambito di questo nuovo contesto. Non pensi più ai tuoi diritti civili, non contesti nemmeno le irregolarità compiute nei tuoi confronti, ma ti concentri sulle opportunità che ti restano per tornare in libertà, per “giustificare” la tua presenza in un luogo perfettamente legale.
Per fortuna i pensieri di quei due giorni, la sensazione di vivere fuori dallo stato di diritto, erano solo un incubo dettato da circostanze davvero eccezionali. La legge, per un paio d’ore, aveva cessato d’esistere all’interno della palestra, ma fuori il diritto esisteva ancora. Io stesso, chiamando alcuni colleghi dall’ambulanza col telefonino rimasto in tasca, avevo innescato i meccanismi virtuosi della libertà di stampa. Dei 93 arrestati alle scuole Diaz-Pertini, ero l’unico, nella notte di sabato 21, di cui si conoscessero nome e cognome. Col cellulare ho potuto raccontare il pestaggio, le brutalità subite da persone indifese. Si è cominciato subito a capire che dentro quella scuola, quanto meno, non c’erano solo teppisti: il mio stesso caso lo testimoniava. Col passare delle ore e dei giorni l’irruzione del 21 luglio ha assunto i suoi veri contorni: un’operazione sbagliata, condotta con metodi illegali. Ora c’è un’inchiesta della magistratura in corso. Un giorno, forse, ci sarà un processo e solo allora si chiuderà questa brutta pagina nella storia delle nostre forze dell’ordine.
Come dimostrano il mio caso e i tanti episodi filmati, fotografati, raccontati durante i disordini di piazza, le “giornate di Genova” hanno esaltato, come mai avvenuto prima, quel “giornalismo diffuso” che è praticato da decine e decine di professionisti, free lance, “cani sciolti” dell’informazione. Niente è sfuggito all’attenzione dei media, intesi nel senso più ampio. A Genova c’erano migliaia di giornalisti accreditati presso il G8 ma ce n’erano anche molti altri che la targhetta del cronista se la sono guadagnata sul campo. Perciò tutto o quasi tutto è stato documentato: le azioni di guerriglia del Black Bloc, le violenze di altri gruppi di manifestanti, le cariche a volte indiscriminate delle forze dell’ordine, i pestaggi ingiustificati, la stessa irruzione alla scuola Diaz-Pertini, della quale peraltro mancano immagini, ma non – appunto - le testimonianze dei cronisti. La scelta di mescolarsi ai cortei, di “partecipare” ai fatti per raccontarli meglio, vivendoli dall’interno, si è rivelata vincente. Io stesso mi sono trovato dentro la notizia. Nei giorni di Genova la libertà di stampa è stata messa a dura prova, ma le ricostruzioni di comodo sono state generalmente smascherate e la massa di dossier e documenti raccolti è lì a dimostrare che il “giornalismo diffuso” è uno presidio prezioso per la democrazia.
...come dicevo: chi cerca, trova; ricordavo "il fatto", ma non i nomi. Alla fine, i fatti sono riemersi. Questo racconto non è fatto da un giornaliosta di Liberazione o del Manifesto, nè da un black-bloc, nè da un appartenente a qualche "famigerato" Centro Sociale. Inviterei i miei amici immaginari, i cosiddetti "Idioti", a riflettere. Arte difficile, la riflessione. Sparare minchiate costa meno fatica...
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