Le testimonianze pilotate. Le prove manomesse. Le molotov scomparse. Errori, menzogne e depistaggi del massacro alla Diaz
di Peter Gomez
Tutta colpa di due bottiglie di vino. Di quello buono, invecchiato a dovere. Erano la prova regina del processo per la 'macelleria messicana' della scuola Diaz. Erano la plastica dimostrazione di come qualcuno a Genova, in quella notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001, per giustificare l'arresto illegale di 93 manifestanti massacrati a colpi di manganello avesse imbrogliato le carte.
Subito dopo l'irruzione, quando si era trattato di redigere il verbale di sequestro, la Polizia aveva dato atto che le bottiglie "contenenti liquido infiammabile e innesco (cosiddette molotov)" erano state scoperte "nella sala d'ingresso ubicata al pian terreno". Ma non era vero. I due contenitori di vetro pieni di benzina erano invece stati trovati per terra nel pomeriggio in una zona completamente diversa della città ed erano arrivati alla Diaz su un blindato del primo reparto mobile di Roma.
Una truffa in piena regola che avrebbe spinto anche l'attuale numero uno del Viminale, Antonio Manganelli, a dire: "Io ne ho viste tante, ma quelle molotov sono come le bustine di cocaina messa in tasca allo spacciatore. Sono una cosa da film che non credevo potesse succedere". Di cose da film a Genova ne accadono però parecchie. E lo spettacolo non si è chiuso sei anni fa, con un G8 che ha lasciato sul campo un morto, una città devastata dalle incursioni di migliaia di black bloc e centinaia di feriti sia tra i no global (in gran parte pacifici) che tra le forze dell'ordine. Adesso non si parla più solo di prove artefatte. Come in un legal thriller è scoccata l'ora delle prove sparite e delle testimonianze pilotate. Addirittura, secondo l'ipotesi dell'accusa, per intervento di Gianni De Gennaro, l'ex capo della Polizia e attuale capo di gabinetto del ministro dell'Interno, Giuliano Amato.
Tutto comincia il 17 gennaio scorso, in un'aula sotterranea del Tribunale dove l'assenza del pubblico e della grande stampa nazionale testimonia la voglia tutta italiana di seppellire per sempre i fantasmi di Genova. Quel giorno il collegio incaricato di giudicare 28 imputati per i fatti della Diaz, tra i quali figurano alcuni tra i dirigenti più noti della Polizia di Stato, prende atto con disappunto della scomparsa delle due bottiglie molotov. In teoria avrebbe dovuto custodirle la questura, ma lì non si trovano più. La spiegazione ufficiale è che già nel settembre del 2001 le bottiglie potrebbero essere state distrutte assieme ad altro "materiale esplodente" come chiesto proprio dalla magistratura. Fatto sta che i difensori di due poliziotti accusati di aver materialmente portato le molotov alla Diaz esultano. Secondo loro, "senza il corpo del reato il processo è finito". Il pm Enrico Zucca invece è preoccupato. "Alcuni imputati potrebbero essere responsabili di questa sparizione", dice. Lui, del resto, della polizia non si fida. A torto o ragione pensa che durante l'indagine sull'irruzione gli uomini del Viminale abbiano sempre remato contro. E non tanto perché alla sbarra ci sono dirigenti di primo piano considerati fedelissimi di De Gennaro, come Francesco Gratteri, Gianni Luperi e Gilberto Calderozzi. Il dato che fa invece riflettere Zucca e il suo collega Francesco Cardona Albini è l'incompletezza e l'imprecisione degli elenchi che la polizia ha fornito quando ha dovuto spiegare chi avesse partecipato al violentissimo blitz. Per l'accusa, ad esempio, è inconcepibile che nessuno abbia saputo identificare un poliziotto che il giorno dell'irruzione portava "i capelli raccolti in una fluente coda di cavallo lunga fino alla cintola", filmato con chiarezza da una tv privata mentre colpiva uno degli occupanti della Diaz steso a terra. O che non sia stato possibile capire chi abbia apposto la quattordicesima firma su un verbale poi ritenuto falso.
Per questo la scomparsa delle molotov diventa un episodio da prendere sul serio. Molto sul serio. La procura chiede e ottiene dal gip il permesso di intercettare una serie di telefoni. Il risultato è che nel giro di poche settimane anche il capo della polizia De Gennaro finisce sul registro degli indagati per induzione alla falsa testimonianza. Con la sparizione delle bottiglie non c'entra nulla, ma secondo i pm potrebbe invece avere a che fare con l'inspiegabile correzione di rotta di uno dei testi chiave del processo: l'ex questore di Genova, ora passato al Cesis, Francesco Colucci.
Così, all'improvviso, la scomparsa delle bottiglie diventa l'ultimo capitolo di una storia nera, sempre più scivolosa, sporca e complicata, in cui gli errori (non ultimi quelli della politica), si sommano agli errori, le negligenze, gli atti criminali e la disorganizzazione. Oggi, a mente fredda, scorrendo con gli occhi le immagini di quel vertice internazionale, delle manifestazioni, delle cariche, dei nasi e delle ossa spezzate anche a chi con i no global violenti non aveva nulla a che fare, viene facile dire che lo sbaglio più grande è stato compiuto dai due governi che si sono succeduti nel 2001: quello di Amato e quello di Berlusconi. È l'esecutivo di centrosinistra infatti a scegliere Genova, una città dalle strade strette, densamente abitata, e virtualmente incontrollabile, per il primo G8 destinato a durare più giorni. È quello di centrodestra a confermare la riunione dei grandi della Terra in Liguria - nonostante che ormai da mesi in occasioni di ogni vertice internazionale le tute nere dei black bloc fossero protagoniste di violenze di tutti i generi - militarizzando il capoluogo e chiudendo con alte grate di metallo la zona rossa, per renderla inacessibile alle manifestazioni regolarmente autorizzate del Genoa Social Forum.
Sì, perché la genesi dei fatti della Diaz, come quella di tutti gli eccessi di quelle ore di sangue, va ricercata in ciò che accade venerdì 20 luglio, quando anche a causa dei difetti di comunicazione tra la sala operativa e i reparti delle forze dell'ordine, un contingente dei carabinieri che avrebbe dovuto cercare di fermare un gruppo di anarchici, incrocia invece il corteo delle tute bianche che stava percorrendo via Tolemaide. Il comandante del contingente, un capitano, decide di caricare i manifestanti. A quel punto la situazione precipita. I no global si disperdono nelle strade laterali mentre i militari sparano lacrimogeni ad altezza d'uomo. Auto e cassonetti vengono rovesciati, partono cariche e controcariche, finché in piazza Alimonda Carlo Giuliani muore ucciso da un colpo di pistola mentre sta lanciando un estintore contro una camionetta dell'Arma. In città scatta la caccia all'uomo e visto che le tute nere colpiscono e si dileguano, a essere manganellati, spesso con sbarre e pezzi di legno fuori ordinanza, sono vecchi, pacifisti della rete Lilliput con le mani alzate, donne, giornalisti.
Il giorno dopo, il giorno della Diaz, a pagare per quanto accaduto è in tempo reale il prefetto Ansoino Andreassi. Era il responsabile dell'ordine pubblico del G8, ma Andreassi non ha quasi nemmeno il tempo per decidere di lasciare i carabinieri nelle caserme per evitare di scaldare ulteriormente gli animi dei no global, che viene esautorato. Da Roma arriva l'ordine di arrestare più manifestanti possibile. "Allora percepii un cambio di strategia. Si voleva passare ad una linea più incisiva", dice Andreassi in aula il 23 maggio 2007, prima di spiegare che fu Gianni De Gennaro a impartire le relative disposizioni. Andreassi viene messo da parte e alle 4 del pomeriggio arriva in città al suo posto il prefetto Arnaldo La Barbera, uno dei grandi investigatori antimafia italiani, oggi scomparso. "Dovevamo reagire, la polizia sembrava essere rimasta inerte di fronte a migliaia di manifestanti che l'avevano messa a ferro e fuoco (Genova, ndr)", aggiunge Andreassi, chiarendo come il 21 luglio la situazione sul campo fosse stata presa in mano fin dalla mattinata dai funzionari dello Sco (il servizio centrale operativo) che secondo i piani iniziali avrebbero invece dovuto occuparsi solo della bonifica della zona rossa e delle attività d'indagine. Verso le 11 del mattino, dopo che un elicottero ha filmato un furgone da cui le tute
nere scaricano dei bastoni, scatta un primo blitz. Vengono messi a segno una ventina di arresti sostanzialmente a caso, tanto che non verranno poi convalidati. E a poco a poco si fa spazio tra i funzionari la convinzione che black bloc e Genoa Social Forum siano quasi la stessa cosa, visto che le tute nere sembrano spesso essere inghiottite dalle fila dei manifestanti più moderati.
È una tesi che piace anche ai parlamentari del centrodestra in quelle ore presenti in massa a Genova, persino nella sala operativa delle forze dell'ordine dove è passato anche il vicepremier Gianfranco Fini, ufficialmente solo per portare un saluto. Nel pomeriggio, quando ormai i cortei sono finiti, a Genova a comandare è di fatto La Barbera, mentre Andreassi "con scarsa convinzione" ordina al questore di organizzare dei "pattuglioni" per "rintracciare i black bloc", come richiesto da De Gennaro. Fosse stato per lui, il G8 si sarebbe chiuso lì: "La gente se ne stava andando, sazia di disordini, bisognava solo lasciarla andare via. Pensavo che quei pattuglioni potessero provocare grane e basta". Fatto sta che alle 9 di sera nei pressi della Diaz passano quattro auto della polizia. Fuori ci sono molti ragazzi anche perché quel plesso scolastico non è un posto qualsiasi: è il luogo che ospita il Genoa Social Forum e i computer del mediacenter, la sala stampa delle manifestazioni. Per qualche secondo c'è un po' di subbuglio: secondo la procura vengono tirate un paio di bottiglie, si urla e rumoreggia. Secondo la polizia, invece, la contestazione è una cosa più seria. Nei rapporti si parla "di un violento lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle tute nere". Un episodio grave, contro il quale, anche secondo Andreassi, bisogna reagire. Come? Perquisendo la Diaz, ritenuta il rifugio dei black bloc. Durante le due riunioni operative sono tutti d'accordo. L'unico che dice di aver avuto qualche perplessità è il capo della Digos di Genova, Spartaco Mortola. In istruttoria sosterrà di aver pensato che fare una perquisizione in una delle sedi del Genoa Social Forum, dove erano presenti anche dei parlamentari di Rifondazione comunista, fosse "inopportuno sotto il profilo politico" e anche "pericoloso" sia per i manifestanti che per gli agenti. Ma aggiungerà che di fronte alla sua valutazione "il questore ha allargato le braccia dicendo che ormai hanno deciso così".
Al di là degli interrogativi su cosa è esattamente accaduto nelle concitate riunioni pre irruzione è comunque certo che a quel punto la polizia sembra sicura di aver fatto bingo. Per i funzionari le tute nere sono davvero nascoste lì, tra i più pacifici no global. Tanto che vengono quasi subito avvertiti i giornalisti: varie fonti dicono di tenersi pronte perché di lì a due ore i black bloc finiranno in manette. In questura fervono i preparativi. Alla Diaz, come in cerca di gloria, ci vogliono andare un po' tutti. Gli uomini delle Digos, delle squadre Mobili dello Sco e dei reparti mobili, ovvero i vecchi celerini. I più eccitati sembrano gli agenti del VII reparto Mobile di Roma, comandati da Vincenzo Canterini e dal suo vice Michelangelo Fournier. In teoria si tratta di gente super addestrata, in perfette condizioni fisiche e psicologiche. Ma come spiegherà Pippo Micalizio, il prefetto poi incaricato proprio da De Gennaro di svolgere un'inchiesta interna, per tutto il giorno quelli del settimo erano rimasti in piazza senza mai scontrarsi con i manifestanti: "Non c'era quasi mai stata la possibilità di un ingaggio. Per questo è ipotizzabile che un reparto di questo genere sia diventato come una sorta di molla (pronta a scattare)", dirà Micalizio. E le cose vanno proprio così. Sono loro a fare irruzione alla Diaz, seguiti dagli uomini degli altri contingenti, manganellando tutto e tutti. Il risultato sono 71 feriti , di cui tre gravissimi (uno in coma), su 93 presenti. Tutta gente massacrata mentre si trovava distesa per terra o stava scappando. Lo dimostrano le ferite sempre al cranio o sulle braccia alzate nell'atto di difendersi.
La Diaz diventa così 'una macelleria messicana', come dirà da subito Fournier, indicato da molti testimoni come il funzionario che a un certo punto si sarebbe messo a urlare agli uomini "basta, basta". Nel corso dell'inchiesta Fournier, imputato con Canterini e altri otto capisquadra di concorso in lesioni personali, affermerà però di non aver visto nessuno picchiare. Dirà di essere entrato nella Diaz a cose fatte e di aver gridato così, come per disperazione. In aula invece cambierà versione. Sosterrà di aver mentito "per spirito di corpo", perché lui durante il raid era presente, aggiungendo però di aver fermato degli agenti che non ha riconosciuto perché non facevano parte del suo reparto. È un po' la tesi di tutti. Che si può riassumere così: i colpevoli ci sono, sono altri, ma non sappiamo chi. Chi era presente, del resto, ha capito subito di averla fatta grossa. Al di là di ogni evidenza, ai giornalisti è stato detto immediatamente che le decine di barelle che uscivano dalla scuola erano dovute al fatto che gli occupanti "presentavano ferite pregresse".
Poi quando si è trattato di redarre i verbali sull'accaduto è stato attestato falsamente che i no global della Diaz si erano asserragliati nella scuola, avevano fatto resistenza accogliendo gli agenti con un fitto lancio di oggetti e di pietre. Una bugia bella e buona cui se ne sarebbero aggiunte molte altre per giustificare 93 arresti in flagranza poi non convalidati. Un esempio su tutti. Quando i magistrati cercano di capire come mai nessuno degli zaini sequestrati abbia un padrone, la polizia sostiene che le sacche sono state lanciate qua e là dagli occupanti. Ma la verità è un'altra. I bagagli sono stati svuotati alla rinfusa senza verbalizzare niente. Si cercava qualcosa per provare la presenza di black bloc, ma dalle borse erano usciti solo coltellini svizzeri e qualche indumento scuro. Insomma, anche se le tute nere fossero davvero state lì, procedendo in quel modo era impossibile provarlo. Unico indizio concreto, mostrato il giorno dopo ai giornalisti, le due famose molotov. Peccato che, come ha testimoniato un funzionario di polizia ed è stato confermato da due imputati per questo accusati di calunnia e falso, fossero state trovate per strada nel pomeriggio. Quella sera, come mostra un filmato dell'emittente genovese Primocanale (vedi foto di pag. 51), il sacchetto azzurro con le bottiglie viene osservato da un po' tutti i più alti funzionari in grado presenti alla Diaz, che sembrano discutere animatamente tra loro. Ma nessuno di essi ammetterà di aver saputo che le molotov arrivavano da fuori.
In questo quadro diventano quasi naturali le reticenze e le inverosimiglianze di buona parte dei poliziotti ascoltati come testimoni al processo e la decisione degli imputati di avvalersi (Canterini e Fournier a parte) della facoltà di non rispondere. Un atteggiamento quasi generalizzato che tocca il suo apice con la deposizione di Colucci, l'ex questore di Genova. Lui è solo un teste. Deve parlare per forza. Balbetta, fa marcia indietro. Dice che a ordinargli di telefonare al portavoce del capo della polizia per chiedergli di andare alla Diaz quella notte, non fu De Gennaro, come aveva già sostenuto in istruttoria, ma fu una sua iniziativa (De Gennaro allora aveva ribattuto: "Colucci ricorda male"). Poi sostiene che a coordinare il blitz era stato Lorenzo Murgolo, il capo della Digos di Bologna, da quattro anni passato al Sismi. Dunque, aggiunge confusione alla confusione. E per la procura non lo fa per caso. Al telefono con uno dei colleghi sotto inchiesta Colucci, parla infatti, "del capo" e di "un'altra versione" da raccontare. L'ennesima.
La notte dei lunghi manganelli
Ecco le testimonianze di alcune persone maltrattate dalle forze dell'ordine nella scuola Diaz di Genova.
Sara Gallo Bartesaghi: "Mi sono rifugiata in un bagnetto rannicchiandomi. A un certo punto è stata spalancata una porta, una persona in divisa ha acceso la luce e mi ha tirato una manganellata sulla testa. Siamo stati fatti uscire dal bagnetto, un agente mi ha preso sotto braccio accompagnandomi. Costui disse agli altri agenti di lasciarmi stare. Ciononostante gli altri agenti mi colpirono con manganellate alle gambe, alla spalla sinistra e al braccio sinistro e mi sputarono in faccia".
Katherine Hager Morgan: "Ho visto che un gruppo di persone si era inginocchiata a terra con le mani alzate e ho capito che era entrata la polizia. I poliziotti che ho visto saranno stati circa dieci, ho potuto vedere solo un gruppo di persone che veniva colpito con calci e manganellate. Subito dopo un poliziotto mi ha raggiunta e mi ha dato un calcio alla testa facendomi cadere a terra dalla parte opposta. Subito dopo sono sopraggiunti altri poliziotti, uno o più, ed hanno cominciato a colpirmi".
Lorenzo Pancioli Guadagnucci (giornalista del "Quotidiano", giornale vicino al centro-destra - NdR): "Si vedevano questi agenti che continuavano a picchiare alcune delle persone che erano ancora nella palestra, che erano sedute insomma nei dintorni, nei paraggi, che io riuscivo a vedere e comunque anche per me non è finita perché poi è venuto un altro agente con la camicia bianca e ha cominciato a colpirmi dietro, quindi io ho cambiato posizione e ho cercato di ripararmi la testa da dietro. con il manganello sempre e quindi mi ha dato una nuova razione di colpi".
Merichel Ronald Gies: "Ero quasi in fondo al corridoio e alzando un poco la testa potevo vedere bene chi arrivava. Sono apparsi all'inizio due o tre poliziotti che hanno cominciato a colpire con manganelli la prima persona che si trovava distesa e via via hanno proseguito colpendo fino a me. Colpivano soprattutto alla testa con i manganelli e usavano anche calci. Sapendo cosa mi aspettava, ho cercato di proteggermi il capo riparandomi con le braccia. Mentre mi colpivano ho sentito che lo facevano con accanimento pronunciando insulti del tipo 'bastardo'".
Simon Schmiederer: "Potei osservare come (Melanie Jonasch) ricevette dai poliziotti che passavano diversi colpi di manganello in testa e come fu colpita anche da calci sul corpo. Durante questo tempo, penso che Melanie già non fosse più completamente cosciente, lei tentò di alzarsi lentamente. Nel momento in cui i poliziotti in divisa lo notarono, due di loro la colpirono fino a farla crollare totalmente. Potei vedere poi che teneva gli occhi spalancati ma distorti e come il corpo fosse scosso da contrazioni spastiche. I poliziotti continuarono a colpirla con calci e a causa di uno di questi calci la sua testa venne sbattuta contro un armadio che era in corridoio".
Federico Primosig: "Non ho opposto alcun tipo di resistenza ed ero seduto per terra insieme alle altre due persone, sono stato immediatamente aggredito a manganellate e a calci; quindi sono stato trascinato all'esterno dell'aula dove sono stato nuovamente picchiato, scaraventato per terra dove hanno continuato a picchiarmi, poi sono stato trascinato sulla rampa delle scale e letteralmente scaraventato di sotto; sono arrivato rotolando al piano di sotto e qui mi hanno accolto altri poliziotti (erano tanti) che mi hanno nuovamente fatto oggetto di manganellate e calci; sono stato trascinato lungo il corridoio e a ogni sosta nuovamente picchiato e sottoposto a insulti del tipo: ' Frocio, comunista, avete voluto scherzare con la polizia adesso vi facciamo vedere noi, vi ammazziamo'".
Processati e promossi
Antonio Sansonetti
Sono 28 gli uomini delle forze dell'ordine rinviati a giudizio per il blitz alla scuola Diaz, nei giorni del G8 a Genova. Fra loro agenti, funzionari, ed anche importanti dirigenti della Polizia di Stato. Primo fra tutti, Francesco Gratteri, capo nazionale dell'Anticrimine dal dicembre scorso, dopo essere stato questore di Bari e numero uno del nucleo Antiterrorismo. Giovanni Luperi, già insieme a Gratteri alla direzione dell'Antiterrorismo, dal luglio 2005 è consigliere ministeriale e dirigente generale di Pubblica Sicurezza. Gilberto Caldarozzi, direttore del Servizio centrale operativo (Sco), è stato promosso a dirigente superiore per 'meriti straordinari' grazie al ruolo rivestito in una delle maggiori operazioni di polizia degli ultimi anni: l'arresto di Bernardo Provenzano. Il questore Vincenzo Canterini è in Romania per l'Interpol, a dare la caccia ai trafficanti di organi e di esseri umani. Michelangelo Fournier è vicequestore a Roma; esperto di ordine pubblico, ha ricevuto elogi da sinistra per la calma mantenuta dalle forze dell'ordine durante la recente manifestazione anti-Bush. Numero due della questura di Torino, dopo esserlo stato ad Alessandria, è Spartaco Mortola. Fabio Ciccimarra è vicequestore a Latina. Nando Dominici è vicequestore vicario a Brescia. Filippo Ferri, figlio dell'ex ministro Enrico, è capo della Mobile di Firenze. Alla guida della Mobile di L'Aquila c'è invece Salvatore Gava. Alfredo Fabbrocini è commissario capo a Bari.
Gli altri imputati sono Fabrizio Basili, Michele Burgio, Angelo Cenni, Renzo Cerchi, Vincenzo Compagnone, Davide Di Novi, Carlo Di Sarro, Luigi Fazio, Fabrizio Ledoti, Carlo Lucaroni, Massimo Mazzoni, Massimo Nucera, Maurizio Panzieri, Pietro Stranieri, Pietro Troiani, Ciro Tucci ed Emiliano Zaccaria.
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