Sabato 9 ottobre 2004
Esselunga, torna il vecchio Caprotti: licenziati tre delegati - La forte partecipazione dei lavoratori alle elezioni delle Rsu ha innervosito la dirigenza che riscopre i metodi ben collaudati dal capostipite Bernardo. Protesta dei sindacati
di Giampiero Rossi
MILANO - È più facile che un cammello passi per la cruna di ago, che un delegato sindacale sfugga al mirino del Cavalier Caprotti, padre-padrone dell’Esseleunga. Ci risiamo. La famosa catena della grande distribuzione si ripropone nella sua seconda attività, dopo quella del commercio di generi alimentari e non solo: la caccia al sindacalista. Nel giro di un solo mese, infatti, la direzione del personale ne ha licenziati ben tre, due della Fisascat Cisl e uno della Filcams Cgil. «È il biglietto da visita del nuovo gruppo dirigente», sottolineano i sindacati di categoria, che unitariamente non esitano a chiamare in causa la «vergogna» che dovrebbero provare i grandi capi della catena di supermercati. Che poi, a ben guardare, il gruppo dirigente è nuovo soltanto in parte, perché in sostanza ai piani alti di Esselunga è stato ripristinato il vecchio regime: allontanato dalla stanza dei bottoni l’erede al trono Giuseppe, “reo” di non avere dimostrato una linea abbastanza dura nella gestione delle relazioni sindacali, il capostipite Bernardo Caprotti, sodale di Berlusconi, ha ripreso saldamente in mano il bastone del comando, scegliendo di circondarsi di manager in sintonia con le sue “vedute”. [...]
«Tre licenziamenti in un mese, dopo i rinnovi delle Rsu, che hanno rafforzato la presenza sindacale, sono un chiaro messaggio politico - osserva Renato Losio - e infatti, sebbene siamo riusciti a organizzare la mobilitazione di protesta nella sede interessata, abbiamo trovato lavoratori spaventati. Ed è proprio questo l’obiettivo dell’azienda. Loro il sindacato non lo vogliono. E allora, tanto per cominciare, la Filcams Cgil della Lombardia non si presenterà al tavolo di contrattazione per l'integrativo, Ma la reazione non si limiterà a questo. E intanto Caprotti rilancia lo slogan promozionale interno di Esselunga: colpirne tre per educarne trecento.
1 agosto 2002
L'inchiesta vecchio stile - Esselunga, diritti corti corti - Benvenuti nell’azienda dei padroni padri. Buona con chi tace e acconsente, dura con chi ha grilli per il capo e osa chiedere la tutela dei sindacati.
di Sandro Gilioli
Qualcuno avvisi Berlusconi e Tremonti che il loro modello di liberismo in Italia esiste già. Viene sperimentato, ogni giorno, in un’azienda con 13 mila dipendenti e un solo padrone. Un’azienda dove il sindacato non esiste o quasi e si lavora perfino il primo maggio. Un’azienda dove le moderne teorie sulla motivazione si mescolano al vecchio autoritarismo di fabbrica. Un’azienda «totale», com’è stata definita, perché tende ad abolire l’identità individuale schiacciando tutti sull’obiettivo unico della qualità e del profitto. Un’azienda che licenzia senza problemi i (pochi) dipendenti che denunciano il clima interno. Un’azienda che si propone come punta di diamante del nuovo capitalismo e tuttavia rifugge la Borsa, perché il suo proprietario non intende condividere la gestione, non rilascia interviste e si fa fotografare il meno possibile. In questa azienda probabilmente siete entrati qualche volta anche voi, soprattutto se abitate nel Nord. Si chiama Esselunga, è uno dei colossi della grande distribuzione italiana. Ed è lì, tra i banconi dei formaggi e gli scaffali dello scatolame, che si scopre dove vogliono portarci Berlusconi e Tremonti.
Dietro il modello di neocapitalismo aggressivo incarnato da Esselunga c’è un anziano signore che si chiama Bernardo Caprotti. Nel 1957 aprì, con l’aiuto del miliardario americano Nelson Rockefeller, il primo supermercato italiano: era – ed è ancora – in viale Regina Giovanna, a Milano. Il gruppo si chiamava «Supermarkets italiani Spa», ma poi la esse iniziale (disegnata dal grafico Max Huber con una coda lunghissima) finì per dargli il nome attuale [...]
Il paradosso di Esselunga è che ufficialmente si propone come azienda modello, politicamente corretta e di mentalità aperta. Nel suo sito internet, per esempio, assicura di garantire un «salario equo» a tutti, si vanta di non vendere cibi transgenici e di aver stretto accordi con le associazioni per il commercio equo e solidale. L’ufficio stampa aggiunge che il contratto integrativo è ai massimi livelli salariali e che l’orario di lavoro effettivo è di 36 ore la settimana, contro le 38 di altre catene. Insomma, un quadretto idilliaco. Che tuttavia stride paurosamente con la realtà che sta emergendo da qualche mese, cioè da quando – a poco a poco – alcuni dipendenti ed ex dipendenti hanno iniziato a uscire allo scoperto rovesciando sull’azienda di Caprotti una quantità impressionante di accuse: si parla – nelle lettere a giornali locali e nelle e-mail inviate ai vari siti di chainworkers – di ricatti continui, di mobbing diffuso, di controlli a vista, di lavoratori part-time costretti al tempo pieno, di attività antisindacali e di angherie degli ispettori.
Ma il bubbone è esploso veramente negli ultimi mesi, quando in Lombardia l’azienda ha licenziato e querelato (con richiesta milionaria di danni) due suoi dipendenti – Massimo Brunetti e Cosmi Panza – che su un sito internet avevano definito «mafioso» l’atteggiamento aziendale nei confronti del personale. Questo atto di forza si è rivelato un mezzo boomerang, perché la vertenza ha convinto il sindacato ad aprire finalmente il dossier Esselunga, facendo venire a galla (e non più in forma anonima) decine di denunce sulle condizioni di lavoro, sul clima di paura interno e sulla grande arbitrarietà – al limite del potere assoluto – con cui i capi gestiscono turni e mansioni, domeniche e straordinari, permessi e punizioni. Giovanni Gazzo, il segretario lombardo della Uil-TuCs, usa in proposito un lessico un po’ più duro: parla di «un’azienda dove c’è un rigido sistema di controllo del sacro canone, un sistema dove tutti sono controllori e controllati, un universo totalitario, un regime di fatto, un caso di negazione della libertà e dell’integrità psicofisica della persona, un luogo dove avviene un processo di annientamento dei diritti dei lavoratori e chi non si consegna all’azienda viene inserito nel libro nero». Secondo Gazzo, parlare di mobbing all’Esselunga è riduttivo, perché «il meccanismo repressivo è più grande e riguarda tutti i dipendenti: si tratta di un mobbing strutturale e non occasionale, insito nella cultura organizzativa dell’azienda, che intende la flessibilità come espianto dei diritti, secondo un’ideologia di estremismo imprenditoriale». Gazzo sottolinea che ispettori e capi hanno l’abitudine di «accerchiare i singoli dipendenti in angoli isolati del luogo di lavoro per intimorirli con rimproveri e pressioni». E conclude: «In Esselunga c’è una relazione tra i profitti straordinari e la straordinaria assenza di diritti». (Continua)
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