Viaggio tra i profughi stretti tra i janjaweed arabi e i ribelli africani. In vista dei colloqui di pace in Libia, a fine mese, il conflitto riesplode
dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI - Repubblica.it
NYALA (Darfur del Sud) - Anche oggi, puntuale, Arbaba è al suo posto. Con il primo raggio di sole si è accovacciata nella sabbia già bollente. Immobile, nascosta sotto un velo di cotone rosso, non toccherà acqua e cibo fino alla notte. Ha ceduto. La tessera di famiglia per gli aiuti umanitari è nelle mani dello sceicco. Aspetta sale, zucchero, olio, lenticchie e farina: 2100 chilocalorie al giorno. Il dieci per cento viene trattenuto dai signori dei campi degli sfollati. I miserabili dell'Africa, per morire, devono pagare. Arbaba è un granello indistinguibile nel deserto del Darfur. Si perde tra le migliaia di corpi che premono contro i centri di distribuzione. Un ritardo dei convogli da Port Sudan, le piogge che trasformano in paludi le dune, e la fame riacquista il profumo insostenibile dell'ossessione di una capra arrostita.
Questa non è una normale guerra civile. In quattro anni, otto villaggi su dieci sono stati bruciati. Distrutte le sorgenti, inceneriti i campi. Tre persone su quattro hanno abbandonato le proprie capanne. Due milioni e mezzo di contadini, in fuga, sono ridotti a fantasmi ubriachi. I morti restano un segreto osceno: 200 mila per gli osservatori internazionali, 400 mila per gli Usa, 9 mila per il regime di Khartum. Come se non facesse grande differenza.
Le donne delle tribù africane vengono sistematicamente stuprate dalle milizie arabe, armate dal governo islamico. La pulizia etnica, oltre alla fedeltà, garantisce ricchezza e potere ai clan del presidente Omar Hassan el-Bashir[...]
Baraccopoli e campi profughi riflettono l'infinita tragedia di una terra ridotta ad una prigione vasta quanto l'Europa. L'orrore non è circoscritto ai grandi campi di Al Fashir, El Geneina e Nyala. Inizia dalle periferie di Khartum, evitate dai riflettori ed espulse dalla commozione a termine del mondo. Maio e Jabarona, sepolte di sabbia e rifiuti, rinchiudono tre milioni di spettri. Il 70 per cento sono bambini. Qui nessuno invecchia. L'odore di fogna e di marcio stordisce. Per quaranta chilometri si affonda fra tende di stracci e ripari di fango e cartoni. Manca tutto. Uno stuolo di ragazzini vende acqua marrone, pompata da bidoni in bilico sul dorso degli asini. Un corda lega le caviglie di uomini e animali, perché nessuno scappi, chissà dove. Basta una febbre a fare strage. Solo i medici volontari di Emergency, nel nuovo centro cardiochirurgico di Gino Strada, si ostinano a ricordare che ogni vita ha il medesimo valore. Di notte, l'alcol riduce i disperati in assassini.
L'agonia di chi muore è coperta dal ritmo del rap. Di giorno gli stessi signori del terrore, per 50 dollari, impongono agli estranei protezione dalle loro vittime. Sotto il fondo si muovono infine gli impresentabili, coloro che fanno schifo anche agli sfollati. Khamisa, fuggita dal Nord Darfur, guida le giovani a quattro zampe. Stuprate e torturate dagli arabi a cavallo, hanno le articolazioni spezzate e calcificate. Brandelli di plastica proteggono loro le ginocchia e i palmi delle mani. Ogni giorno si trascinano nelle discariche e tra gli escrementi che riempiono i vicoli. Masticano ossa, succhiano bucce e leccano l'acqua dalle pozzanghere.
Sono state bellissime. Ora avanzano ondeggiando come branchi di caimani, mordendo i polpacci dei rivali: ciechi, orfani, lebbrosi, malati in genere, pazzi in preda al delirio. Nessuno le sposta, quando cedono con la bocca nella polvere. Il governo è impegnato a incassare i dollari cinesi, arabi e malesiani. Si accumulano, in Svizzera, i capitali dell'élite corrotta dal petrolio. Il potere ignora i condannati. Meglio una massa di moribondi sradicati nel deserto attorno alla capitale, che un popolo in grado di reclamare giustizia e di votare, rientrando nelle regioni di origine. "La guerra - sorride un banchiere libanese - non è un problema. Lì cadono le bombe, qui sorgono i grattacieli e si firmano i contratti" [...]
L'esercito scatena l'ultima offensiva per conquistare il controllo del territorio, estremo patrimonio politico della dittatura. Le bande tribali, nel nome di ideali democratici, assaltano, rapinano e uccidono. I caschi verdi dell'Unione Africana, 7 mila in un deserto senza strade, esteso quanto la Francia, non riescono più a difendere nemmeno se stessi. Offensive su larga scala, battaglie e agguati, sono quotidiani. I rapporti top secret raccontano di una trentina di morti al giorno, di centinaia di feriti e dispersi. "A chi da anni vive solo di guerra - spiega un ufficiale - chiedere di fermarsi alla vigilia di un negoziato di pace, è come chiedere ad un campione di nuoto di svuotare la piscina prima della finale olimpica".
Nella regione ci sono più kalashnikov che persone. Le meravigliose notti, rischiarate solo da fuochi e da stelle, sono lacerate da spari e raffiche di mortaio. Si fa strage per controllare una pista, incendiare un villaggio, razziare una caserma, un magazzino. O per rubare una jeep, una radio, un telefono. Anche solo per procurarsi zucchero, inquinare un pozzo, cacciare qualche donna africana per concepire figli arabi. O per farsi pagare il sangue. Come questa notte, tra Nyala e la base di Haskanita, teatro della più sanguinosa strage di caschi verdi. Un mese fa l'esercito avrebbe ucciso 170 civili, donne e bambini. Anche alcuni darfuriani, tra i carnefici. Una fazione dell'Armata di liberazione del Sudan, guidata da Minni Minnawi, in un'imboscata ne ha ammazzati otto, mutilandone i cadaveri. Tutti contro tutti, spesso adolescenti, in un conflitto senza buoni, dove "i nostri" non arrivano mai[...]
Il comandante Esmaeel, nel suo covo ad est di Nyala, chiama così alla rivolta anche tutto il Sud, la regione del Nilo Blu e il Kordofan. "La nazione più vasta e ricca dell'Africa - dice - è un lager in fiamme e alla fame. Il regime sa di essere atteso da un tribunale penale internazionale. Non farà concessioni. Fissa prematuramente la pace per rinviarla all'infinito. È questione di tempo, ma sarà spazzato via dalla rivoluzione della povera gente". È come se si fossero invitati gli ebrei deportati ad Auschwitz a rovesciare Hitler.
Nei campi del Darfur, un popolo allo stremo lotta per la sopravvivenza quotidiana. Ad Al Fashir le donne lasciano le baracche per chiedere ai passanti di cambiare banconote da dieci dollari. Prostituirsi con i militari dell'Ua può costare la vita, ma senza legna per cucinare sono i neonati a morire [...]
Il posto dove Arbaba si era coricata all'alba, è vuoto. La sua razione mensile è lì. Si è allontanata senza toccarla. Si riconoscono le orme dei suoi passi leggeri, neri sulla sabbia gialla accesa dal tramonto ossidato. Piuttosto di pagare i mercanti della sofferenza, preferisce ascoltare la fame con i suoi quattro bambini. Un irrilevante, anonimo tributo alla dignità del Sudan. E forse, questa volta, ha deciso che non tornerà.
(6 ottobre 2007)
...quanti non torneranno? quante decideranno di non essere trasformate in tronchi striscianti, dopo aver subito inenarrabili umiliazioni e sofferenze? chi vorrà o potrà condannarle se saliranno su un barcone, che forse non arriverà mai da nessuna parte?...se Dio esiste, perchè non lancia uno sguardo anche da quelle parti?...
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