La stampa di oggi è ovviamente piena di commenti sull'uccisione di Benazir Bhutto. Uno di quelli che mi hanno colpito di più è quello di Dacia Maraini, apparso sul "Messaggero e su altre testate del gruppo:
UNA donna determinata, intelligente, colta. Sembrava invincibile. Era stata spesso nel mirino degli intolleranti, ma era riuscita sempre a mantenere salda la sua fede nella politica e nel miglioramento del suo Paese. Durante l’ultimo attentato, del 18 ottobre del 2007, erano morti in 138 e c’erano stati 600 feriti, ma lei era rimasta illesa. Qualcuno diceva: una mano divina le si è posata sulla testa. Ma non faceva i conti con chi è disposto a fare carneficina di se stesso pur di colpire l’avversario. In questo caso l’avversaria, la bella e solare Benazir Bhutto, figlia di un primo ministro e primo ministro lei stessa per ben due volte. Leader del Partito del Popolo Pakistano (PPP).
Tragico destino il suo: è stata la prima donna a essere eletta capo di governo in un paese mussulmano, la prima donna a dirigere l’opposizione, esprimendo una grande volontà di cambiamento. I suoi estimatori hanno continuato a votarla nonostante le intimidazioni. Segno che il Pakistan è diviso e le ragioni dei fanatici non sono condivise. Ma il fatto che fosse donna ha certamente esasperato l’intolleranza. I zelanti di un dio misogino e vendicativo non vogliono saperne di donne emancipate e appassionate al proprio compito.
Se si è disposti a uccidere decine di innocenti per fare fuori una donna eletta democraticamente, non c’è che dire, si tratta di un messaggio a tutto il mondo: «State attenti, Dio non vuole che le donne escano dai loro ruoli tradizionali! Siamo pronti a tutto pur di difendere questa legge! Lo ribadiremo, a costo di farci saltare tutti per aria».
Non credo che bisogna essere pakistani moderati per provare un moto di orrore e di rigetto verso la logica delirante dell’assassinio politico-religioso. Non sappiamo ancora chi sia stato. Ma ci vuole poco a immaginarlo. Chi è che manda avanti i kamikaze colpendo prima di tutto tanta gente che non c’entra niente? Chi è che dimostra totale disprezzo della vita umana, totale mancanza di pietà per coloro che vengono colpiti, fra cui molti bambini? Solo il fanatismo religioso arriva a tanto. Solo i fondamentalisti possono compiere stragi con tanta disinvoltura. Quel Dio che insegna l’odio anziché l’amore alla fine li compenserà, accogliendoli in un paradisiaco giardino di delizie. Dove le donne non possono governare, né comandare. Si troveranno serviti e riveriti da uno stuolo di giovanissime serve e schiave pronte a soddisfare i loro desideri di giovani eroi suicidi. Il suicidio è già una cosa triste, ma l’idea di portare con sé, nella morte cruenta più gente possibile, insomma di fare strage per colpire una sola persona, è aberrante e difficile da capire.
Tutto questo cesserà solo quando i veri religiosi, i veri fedeli, coloro che credono che Dio non sia un dittatore assolutista e sanguinario pronto a colpire, ma colui che conosce e insegna l’accoglienza e l’amore verso l’altro, capiranno che l’odio è stupido e porta solo altro odio. La speranza è nei mussulmani innamorati di un Dio generoso e pronto al perdono, che non predica l’eccidio ma la comprensione. Speriamo in loro.
Dacia Maraini
Quest'ultimo periodo della Maraini si potrebbe tranquilamente applicare a tanti integralisti nostrani: quelli così generosi e pronti al perdono nei confronti dei preti pedofili, ma guai a toccare uno spermatozoo o una cellula staminale.
Il giudizio sulla Bhutto non è omogeneo, neanche a sinistra, neanche da parte delle donne. Oggi sul manifesto Luciana Sgrena parla dei "lati oscuri" della vita politica della Bhutto. L'articolo non è disponibile online, ma sembra che la Sgrena faccia riferimento sia agli appoggi chiesti ed ottenuti dalla Bhutto fra gruppi integralisti islamici per vincere le elezioni che la portarono per la prima volta alla premiership, sia il successivo rapporto particolare con Bush a fini di lotta a quell'integralismo del quale si era prima giovata.
Noi riteniamo questi peccati (se di peccati si tratta), molto veniali, se confrontati al contesto socio-politico nel quale la Bhutto si è mossa, e soprattutto se confrontati al coraggio ed alla testardaggine dimostrati da questa donna, la cui morte era largamente annunciata (il padre condannato a morte, il fratello del padre morto in circostanze "misteriose" a Parigi, il precedente attentato che ha accolto il rientro della Bhutto in Pakistan, e che invece di Benazir ha ammazzato oltre 150 persone, e ne ha ferite 600. Era gente che faceva sul serio, e la Bhutto non poteva non saperlo.
Non so se, come pensa il clan dei Bhutto, l'attentato che "finalmete" è riuscito sia stato orchestrato da Musharraf. Questi ha molto da guadagnare dalla morte della Bhutto, la quale, in vista delle elezioni dell'8 gennaio, lo sovrastava in tutti i sondaggi. L'altro candidato in lizza, Sharif, era stato bloccato con l'accusa di corruzione. La morte ella Bhutto, e i disordini che stanno devastando il Pakistan, sono un'ottima ragione per rinviare delle elezioni che Musharraf si accingeva perdere.
La considerazione opposta è che la logica che porta ad indicare Musharraf come maggior beneficiario della morte della Bhutto era fin troppo prevedibile, e rischia di creare a Musharraf più problemi di quanto non possa risolverne. Però, alla luce dei fatti di ieri, appare sospetta la accondiscendenza di Musharraf a lasciare il comando delle Forze Armate per poter concorrere alle elezioni senza avere la censura della Corte Costituzionale. Forse aveva già in serbo l'arma segreta, e cioè l'eliminazione dei concorrenti: Sharif per via giudiziaria, Bhutto con sistemi più rapidi, ma anche di più controversa lettura. Staremo a vedere, ma il futuro appare sempre più buio. Tafanus
P.S.: riporto in calce un interessantissimo articolo scritto da Benazir Bhutto in ottobre, e che fornisce un quadro molto dettagliato ed incisivo del coraggio, dell'impegno, della statura di questa donna. L'articolo è stato ripreso da Repubblica.it
"Conosco i nomi dei miei assassini"
di BENAZIR BHUTTO
La settimana scorsa sono sopravvissuta a un tentato omicidio, ma 140 uomini e donne tra i miei sostenitori e della mia scorta non ce l'hanno fatta. L'attentato del 18 ottobre ha messo in evidenza la critica situazione con la quale siamo alle prese oggi in Pakistan, oggi che cerchiamo di fare campagna elettorale per elezioni libere, oneste e trasparenti sotto la minaccia del terrorismo. Quanto è accaduto dimostra la sfida logistica, strategica e morale che incombe su tutti noi. Come possiamo fare campagna elettorale presso la cittadinanza sotto la minaccia costante e concreta di essere assassinati? Con l'eventualità di un massacro di innocenti?
L'attentato nei miei confronti non è giunto inaspettato. Da informazioni attendibili ero stata avvisata di essere presa di mira da elementi che vogliono ostacolare il processo democratico. Più specificatamente ero stata informata che Baitul Masood, un afgano a capo delle forze Taliban nel nord del Waziristan, Hamza bin Laden, un arabo, e un militante della Moschea Rossa erano stati mandati in missione con il compito di uccidermi. Ho anche temuto che fossero strumenti nelle mani dei loro stessi simpatizzanti, infiltratisi nella sicurezza e nell'amministrazione del mio Paese, gli stessi che ora temono che il ritorno della democrazia possa far deviare i loro piani.
Abbiamo cercato di prendere tutte le precauzioni del caso. Abbiamo chiesto i permessi per importare un automezzo corazzato a prova di proiettile. Abbiamo chiesto di ottenere gli strumenti tecnologici con i quali individuare e disattivare gli ordigni esplosivi improvvisati spesso collocati sul ciglio della strada. Avevamo chiesto che mi fosse assicurato il livello di sicurezza al quale ho diritto nella mia qualità di ex primo ministro.
Adesso, dopo il massacro, appare quantomeno sospetto il fatto che i lampioni delle strade circostanti il luogo esatto dell'attentato - Shahra e Fisal - fossero stati spenti, così da consentire agli attentatori suicidi di avvicinarsi quanto più possibile al mio automezzo. Provo grandissimo sconcerto all'idea che le indagini sull'attentato siano state affidate al vice ispettore generale Manzoor Mughal, presente quando mio marito alcuni anni fa stava quasi per perdere la vita per le torture subite.
Naturalmente, conoscevo i rischi che avrei corso. Già due volte in passato ero stata presa di mira dagli assassini di al Qaeda, tra i quali il famigerato Ramzi Yousef. Conoscendo il modus operandi di questi terroristi, so che tornare a colpire il medesimo bersaglio è per loro prassi naturale (si pensi al World Trade Center), e che dunque sicuramente stavo correndo un pericolo maggiore.
Alcuni esponenti del governo pachistano hanno criticato il mio ritorno in Pakistan, il mio progetto di far visita al mausoleo della tomba del fondatore del mio Paese, Mohammed Ali Jinnah. Mi sono trovata davanti a un dilemma: ero stata in esilio per otto anni, lunghi e dolorosi. Il Pakistan è un Paese nel quale la politica è qualcosa di molto radicato, che si pratica in massa, con un contatto faccia a faccia, persona a persona. Qui non siamo in California o a New York, dove i candidati fanno campagna elettorale pagando i media o spedendo messaggi e posta abilmente indirizzata. Qui quelle tecnologie non soltanto sono logisticamente impossibili, ma altresì incompatibili con la nostra cultura politica.
Il popolo pachistano - a qualsiasi partito esso appartenga - ha voglia, si aspetta di vedere e ascoltare i leader del proprio partito, e di essere parte integrante del discorso politico. I pachistani partecipano ai comizi e ai raduni politici, vogliono ascoltare direttamente e senza intermediari i loro leader parlare con megafoni e altoparlanti. In condizioni normali tutto ciò è impegnativo. Con una minaccia terroristica che incombe è straordinariamente difficile. Mio dovere è far sì che non sia impossibile.
Ci stiamo consultando con strateghi politici su questo problema. Vogliamo essere sensibili nei confronti della cultura politica della nostra nazione, offrire alla popolazione l'opportunità di prendere parte al processo democratico dopo otto lunghi anni di dittatura, ed educare cento milioni di elettori pachistani sulle problematiche all'ordine del giorno.
Non vogliamo, tuttavia, essere imprudenti. Non vogliamo mettere in pericolo senza motivo e senza necessità la nostra leadership e certamente non vogliamo rischiare un eventuale massacro dei miei sostenitori. Se non faremo campagna elettorale, saranno i terroristi ad aver vinto e la democrazia farà un ulteriore passo indietro. Se faremo campagna elettorale rischiamo di essere vittime di violenza. È un enorme problema insolubile.
Attualmente stiamo concentrandoci su tecniche per così dire ibride, che combinino il contatto individuale e di massa con l'elettorato con il rispetto di rigide misure di sicurezza. Laddove c'è chi ha il telefono, potremo provare a contattarlo con un messaggio preregistrato, che descriva le mie posizioni al riguardo di alcune questioni e inviti la cittadinanza a recarsi alle urne.
Nelle aree rurali stiamo prendendo in considerazione l'idea di trasmettere miei messaggi a intervalli regolari dagli impianti stereo installati nei centri dei villaggi. Invece di attraversare il Paese con i tradizionali mezzi di trasporto tipici della politica pachistana, stiamo prendendo in esame la possibilità di "caravan virtuali" o di "comizi virtuali", nel corso dei quali potrei rivolgermi a un pubblico numeroso di tutte le quattro province del Paese affrontando i temi più importanti della campagna.
Stiamo infine anche studiando la fattibilità di una nuova educazione dell'elettorato, di nuove tecniche che inducano a recarsi alle urne e che al contempo riducano al minimo la mia vulnerabilità e le occasioni per un attentato terroristico soprattutto nelle prossime cruciali settimane che ci separano dalle elezioni del nostro Parlamento.
Non dobbiamo permettere che la sacralità del processo politico sia sconfitta dai terroristi. In Pakistan occorre ripristinare la democrazia e l'equilibrio delle posizioni moderate, e il modo per farlo è tramite elezioni libere e oneste che instaurino un governo legittimo su mandato popolare, con leader scelti dal popolo. Le intimidazioni da parte di assassini codardi non dovranno far deragliare il cammino del Pakistan verso la democrazia.
copyrightbenazirbhutto2007 - (traduzione di Anna Bissanti) - (28 dicembre 2007)
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