Bettio (Lega): con gli immigrati «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino».
Ha usato queste parole il consigliere leghista Giorgio Bettio, intervenuto durante il consiglio comunale per dare il suo appoggio all’ordinanza anti-sbandati sottoscritta da Gobbo e chiedere metodi più duri contro gli stranieri che abitano in città.
A dare il "la" all’invettiva del consigliere, a suo dire, «l’ennesimo sopruso patito da un inquilino dei palazzi dove abitano anche gli immigrati». Bettio accusa, ma non spiega quando e cosa sia avvenuto per scatenare tanta ira. «Non è possibile che gli immigrati vengano a vivere nei nostri condomini e poi comincino a comportarsi come Ras di quartiere o terroristi - dice - dovrebbero rispettare le regole e invece prima fanno finta di non capire poi, se redarguiti, passano alla minacce. Il decreto è troppo tenero».
E lancia la sua proposta: «Gli immigrati che chiedono la residenza, se in possesso dei requisiti, dovrebbero essere messi sotto osservazione per sei mesi». Il piano, annunciato davanti ai volti increduli ma silenziosi dell’opposizione, suona più o meno come una prova d’esame: «Nel momento in cui ottengono la residenza - dice - la commissione dovrebbe assumersi il compito di seguirne gli spostamenti e controllarne il comportamento andando a chiedere informazioni anche ai vicini di casa. Passati questi primi sei mesi - continua Bettio - se gli stranieri si sono comportati bene, allora possono restare, in caso contrario devono essere sottoposti ad altri tre mesi di verifica e poi espulsi».
Poi l’affondo: «Sarebbe giusto fargli capire come ci si comporta usando gli stessi metodi dei nazisti. Per ogni trevigiano a cui recano danno o disturbo, vengono puniti dieci extracomunitari». Dal banco della giunta, Gobbo annuisce e l’opposizione lascia correre: «E’ da anni che viviano il fenomeno dell’immigrazione - dice Sbarra - e la Lega, per propaganda, continua a spacciarlo come emergenza, invece di attivare tempestivamente politiche serie».
Fonte: Repubblica - Tribuna di Treviso
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Cent'anni fa la strage di Monongah: in miniera l'ecatombe degli italiani - Il 6 dicembre 1907 un'esplosione nei cunicoli della Fairmont Coal Company uccise centinaia di persone. Almeno 171 erano immigrati dal nostro Paese
MONONGAH (West Virginia) - Erano le dieci e trenta del mattino del 6 dicembre 1907, quando la miniera di carbone e ardesia di Monongah saltò in aria. In quel momento c'erano dentro quasi mille persone, moltissimi italiani. Sopravvissero in cinque. Fu il più grande disastro minerario d'America. E d'Italia, visto che i nostri emigranti pagarono un prezzo superiore addirittura a Marcinelle. Cento anni dopo, siamo tornati in West Virginia per ritrovare la memoria di una tragedia rimasta senza un perché.
La Storia è passata di qui cento anni fa e ha lasciato il suo segno su un ripido pendio erboso. Il cimitero non ha un recinto, le lapidi sono messe nella terra senza un ordine, sono sparse come fossero state gettate a caso. Nella pancia della collina sono sepolti molti più uomini di quanti non si possa immaginare contando le pietre tombali: in un solo giorno le fu chiesto di accoglierne cinquecento, forse mille. Era il 6 dicembre del 1907. A Monongah, piccolo paesino tra i boschi dei monti Appalachi, abitavano 3.000 persone, vivevano per la miniera della Fairmont Coal Company.
Estraevano carbone e ardesia. Ci lavoravano grandi e piccoli. Ogni uomo regolarmente assunto e con il bottone di ottone, che riportava la sua matricola, appuntato sul petto portava con se almeno due aiutanti, erano adolescenti o bambini, la loro discesa sotto terra non era registrata da nessuna parte. Pochissimi furono riconosciuti. Arrampicandoci sul crinale ne troviamo uno: "Qui è che giace Giuseppe Colarusso, in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10. Suo fratello Michele pose".
Gli adulti guadagnavano 10 centesimi l'ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.
Quel venerdì mattina alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva le gallerie, non si è mai saputo perché e le inchieste non hanno trovato responsabili. L'esplosione fu terribile e si propagò per centinaia di metri dalla galleria otto alla sei. Sopravvissero in cinque, per gli altri non ci fu scampo. Il boato si sentì a trenta chilometri di distanza. Ci vollero molti giorni per recuperare i corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte irriconoscibili.
Venne allestita una camera mortuaria nella sede della banca, un luogo di cui nessuno si fidava tanto che i morti avevano i risparmi arrotolati nella cintura. Quando fu piena si cominciò ad allineare i cadaveri sul corso principale. Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca di qualche segno di riconoscimento. Le scarpe, una giacca, i segni della barba. Alla fine soltanto 362 ebbero un nome e il diritto alla lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il carbone [...]
Fu il più grande disastro minerario della storia americana. E di quella italiana. 171 dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese. Più che a Marcinelle, in Belgio dove nel disastro del 1956 morirono 136 italiani. Ben 87 venivano dal Molise, poi dalla Calabria, dall'Abruzzo e dalla Campania. Ce lo raccontano le lapidi. Scritte in italiano, piene di errori, piene di disperazione: "A riposo di Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel disastro di Monongah nella miniera N 8, nato ha Frosolone di Campobasso lascia sua madre".
Gente povera, semianalfabeta, sfruttata. Solo l'anno precedente erano arrivavati ad Ellis Island, la porta d'ingresso per l'America, più di 300mila emigranti dall'Italia. Dalla baia di New York li portavano qui per soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale americano. La compagnia anticipava i 15 dollari del viaggio, che poi avrebbe trattenuto dalle paghe settimanali.
Erano giovanissimi e vivevano quasi da reclusi come racconta il direttore dei Quaderni sulle Migrazioni, Norberto Lombardi, nel libro "Monongah 1907, una tragedia dimenticata", che il Ministero degli Esteri ha pubblicato questa settimana. I campi di lavoro erano controllati da guardie armate, non si poteva evadere, se non prima di aver pagato tutti i debiti. Anche il cibo si comprava allo spaccio della compagnia mineraria che tratteneva la spesa dallo stipendio. Così erano sempre sotto scorta, tanto che circolava una battuta: "Gli emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale".
Di loro per molto tempo si era persa la memoria. Le lapidi erano ridotte in uno stato pietoso, spezzate, semicoperte dalla terra che con la pioggia smotta ogni inverno verso la strada, ma questa estate sono state recuperate e ripulite: dopo anni di incuria e dimenticanza il governo italiano ha spedito 100mila dollari per i lavori. (...ci voleva un governo di Centro - Sinistra? e in questi anni il mitico Mirko Tremaglia, quello che piange ogni volta che nomina gli "Italiani all'Estero", doc'era?...)
[...]Nel cinquantesimo anniversario hanno aperto una casa di riposo per anziani intitolata a Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Oggi ci vivono 57 vecchi non autosufficenti della zona. La dirige suor Mary, che non ha molto tempo da perdere, sotto il braccio ha un fascio di cartelle cliniche, ma con la mano libera con tre gesti secchi ci indica la statua della santa patrona ("Sotto sono incisi i nomi di tutti i caduti"), il ritratto di un ragazzino minatore ("È originale e mostra che sotto terra andavano anche i bambini") e la targa che ricorda il reverendo. Poi apre la porta del suo ufficio e ci congeda: "Buona fortuna" [...]
Una delle supertiti si chiamava Caterina Davia, perse il marito e due figli, ma i loro corpi non vennero mai trovati. Ogni giorno, per quasi trent'anni, tornò all'ingresso delle gallerie per portare via un sacco di carbone che poi svuotava nel suo giardino. Diede vita ad una collina, "la collina di carbone", che arrivò a sommergerle la casa. Diceva che lo faceva per togliere loro un po' di peso. E per dare un senso alla sua follia.
Mario Calabresi - Repubblica.it
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