«Il silenzio del potere» - Pietro Ingrao si interroga sul rapporto tra il lavoro, la vita, la morte.
.
Pietro Ingrao è un compagno della vecchia scuola, uno abituato a ragionare sui fatti, a scavare dentro le notizie, non si lascia andare con facilità. Se ti dice «sono proprio incazzato», se usa un termine per lui inusuale, più normale nel linguaggio di un ragazzo che di un comunista serio e attento a ogni messaggio, sempre attraversato dal dubbio, vuol dire che è proprio incazzato. Ma si ricompone subito: «Sono turbato per queste morti, è un sentimento elementare il mio. Siamo ancora qui, a parlare del problema di sempre, di questi eventi tragici che si ripetono». Quale sia «il problema», l'indomani della strage di Torino, è ovvio. E Ingrao spiega così il suo turbamento: «E' l'intreccio tra il lavoro e la morte, e le forme della morte, la sua atrocità». Vuole sapere tutto Pietro, ogni particolare sulla dinamica che ha trasformato dieci lavoratori in torce umane: le macchine surriscaldate, tirate fino a scoppiare; gli uomini superspremuti, sfruttati fino a morire bruciati. La scintilla, l'olio che brucia e il tubo spezzato che spara fuoco addosso ai lavoratori, alle macchine, all'intero reparto. Uccisi - già due mentre discutiamo con Pietro Ingrao, che salgono a tre subito dopo - da un tubo trasformato in un lanciafiamme. Come in guerra, una guerra antica come il lavoro e insieme modernissima. «Qui e ora, nell'Occidente sviluppato, non nello Shanxi» dove i minatori scavano e muoiono come topi per un'esplosione di grisù, «non in un angolo dell'Africa. A Torino, città d'avanguardia, la capitale dell'industria».
Andiamo per ordine. Pietro vuole parlare del «prezzo del lavoro». Trova «offensivo», prima ancora che intollerabile, che la direzione della ThyssenKrupp abbia chiesto ai suoi operai di riprendere il lavoro nei reparti attigui a quello bruciato, solo 24 ore dopo il disastro. Ma c'è una cosa, in particolare, che fa soffrire un uomo che oltre a essere stato un dirigente politico comunista, ha ricoperto una delle più alte cariche dello Stato, come presidente della Camera: «Non c'è stato uno scatto nel paese, nelle istituzioni non ho sentito un allarme per questi eventi che si ripetono. Sento rabbia per questo mancato allarme da parte di chi comanda, di chi tiene il potere. Ma cosa deve ancora succedere perché su questo tema antico del rapporto uomo-fatica, un potere costituito si turbi, si preoccupi, si domandi "che dobbiamo fare"»? Insiste, Pietro, sulla dinamica dei fatti, e si chiede come sia possibile che un giovane di 36 anni possa lavorare 12 ore consecutive «in quell'inferno», in una fabbrica che sta per chiudere ma i cui padroni pretendono di togliere anche l'ultima goccia di sangue ai loro dipendenti prima di trasferire in Germania la produzione. Ma è ancora la risposta «ordinaria» delle istituzioni, del potere, a farlo soffrire: «Non mi sarei sorpreso, né scandalizzato, se le due assemblee politiche di questo paese, Camera e Senato, avessero di colpo troncato il loro lavoro per aprire il dibattito sull'evento torinese, non foss'altro per parlare da lontano a coloro che stavano morendo o rischiavano ancora la morte». Sembra passato un secolo da quando il «compagno presidente» della Camera andava a discutere con il consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza, un luogo dove si alimentò un approccio nuovo e straordinario, figlio del lavoro di Maccacaro, al rapporto tra uomo, lavoro e salute. Quella visita rappresentò forse il punto più alto del rapporto tra movimento operaio e istituzioni in Italia. «E' vero, mi ricordo, lo puoi scrivere», e si schernisce quando gli chiedo perché non l'abbia ricordato nel suo libro di memorie.
Il potere, e i poteri, non rispondono con forme e contenuti all'altezza della gravità del problema. I grandi giornali ieri aprivano con la «sicurezza», ma quella del governo che guarda ai rumeni come un pericolo e non guarda ai lavoratori come vittime. E il giornale della Confindustria che dedica all'esplosione della ThyssenKrupp un semplice richiamo di prima (...bravo, Montezemolo, poteva fare meglio: la prossima volta, tolga persino questo fastidioso "richiamo" in prima; non contribuisca a creare dei sensi di colpa nei suoi associati. Quoque tu!... NdR). Ingrao si chiede da cosa sgorghi «questo rumoroso silenzio», e perché «il cupo evento» non venga raccolto «dalla massa vivente del paese, in primis dalla sua rappresentanza politico-sociale». Un «evento materialmente rovinoso che sta lì a ricordarci amaramente cos'è ancora, all'inizio del terzo millennio, l'atto lavorativo - la condizione del soggetto lavorativo. E' un triste segnale di come ancora oggi sia terribile, incerta, precaria, questa esperienza umana elementare che è il lavorare. Da millenni l'essere umano è stato fuso con l'atto lavorativo, da secoli dura questo problema. Che la tragedia delle morti e degli infortuni sul lavoro riesploda irrisolta nell'anno 2007 spaventa uno come me, in età così avanzata - ho scavalcato i novant'anni. Ero poco più che adolescente quando ho cominciato a capire la centralità di questo problema». Il dubbio, l'interrogarsi inquieto di Ingrao che neanche la rabbia per i morti di Torino riesce a interrompere: «Dai primordi, dal formarsi dell'aggregazione familiare, la vita umana si intreccia con il problema del lavoro, del modo in cui un essere umano vi si raffronta. E' un nodo ineludibile, spesso in età ancora acerba. E insieme c'è un tema che si è sviluppato nei secoli e ancora brucia: come tutelare chi lavora, come lavorare, come produrre senza ferire e uccidere?».
Pietro Ingrao teme che «tra pochi giorni l'evento cupo di Torino si dissolverà, impallidirà, senza diventare un fatto emblematico e rivelatore». Le lacrime - quelle del potere, non quelle dei compagni e dei familiari dei caduti nella guerra del lavoro - durano un giorno. Da domani si tornerà a parlare di flessibilità, del dio mercato. «Insieme alle lacrime sento il bisogno di porre e pormi una domanda: cosa è stato? cosa è accaduto? E soprattutto, di fonte al ripetersi implacabile di questa storia tragica, come risponde questo paese?».
Questo nostro dialogo con Pietro, per sua volontà, non ha la forma classica (e forse un po' fredda) dell'intervista. Vuole che sia un confronto, Ingrao, vuole sentirsi libero di essere lui stesso a porre domande. Perché le risposte vanno cercate insieme. Nella politica, nella cultura, nella società.
Loris Campetti
Leggere le parole del 92enne Pietro Ingrao, e non trovarci un minimo di autocompiacimento per essere un'icona vivente di ciò che intendiamo per "rappresentanza politica delle classi lavoratrici" (come suona bene!): mettere queste parole a confronto col tronfio operaismo parolaio di certi indignati speciali in SPE; vedere come Pietro parli una volta ogni mille anni, ma ogni volta lasciando un segno profondo nelle nostre coscienze. Ecco, tutto questo, ci fa disperare sulle qualità e le prospettive della "più o meno" sinistra attuale, sul suo tronfio e vacuo presenzialismo, tutto "sala trucco" e nulla o quasi autoanalisi sui compiti, i doveri, le aspettative dei cittadini su una sinistra di governo...
...e ora non linciatemi... ma sono indignato per il fatto che sui giornali trovino mediamente più spazio i c.d. "morti del sabato sera" che non quelli del "lunedì mattina". I morti sono tutti morti, e tutti meritano il nostro dolore, ma non meritano tutti nella stessa misura il nostro rispetto. Fra un ragazzotto che si incolla come una decalcomania contro un pilone di cemento, con la macchina di papà, dopo una notte brava in discoteca (alle cui modalità nessuno lo ha condannato, se non la voglia di "seguire gli schemi di gruppo"), e la morte di gente che riesce a campare la vita solo accettando il ricatto delle 12 ore di lavoro in un ambiente a rischio, dove quattro estintori su cinque non funzionano, noi abbiamo i nostri criteri di scelta. Che anche Montezemolo cominci a riflettere su chi meriti le otto colonne e chi il "richiamo" in prima. Il ritrovamento della "moralità diffusa" nell'etica collettiva dovrebbe partire dai compartamenti delle c.d. "classi dirigenti". O no?
Tafanus
SOCIAL
Follow @Tafanus