Passano e ripassano in tv le vergognose immagini del bivacco di manipoli in Senato, che hanno ispirato comici, commentatori e cittadini disgustati. Basta andare per strada, in tram o in qualunque luogo pubblico, per sentire l’effetto che fa vedersi rappresentati da quei ceffi. Ma c’è un ma.
Nel giusto disprezzo che hanno suscitato l’aggressione all’unico Udeur che non si è ribaltonato e i brindisi e la mortadella spalmata sulla faccia, bisogna distinguere. Quei ceffi non sono il Parlamento: sono i ceffi della destra, eletti col sistema delle liste bloccate dai loro caporioni Fini, Berlusconi e Bossi. I quali ora vorrebbero pure giovarsi dello schifo provocato per rivolgerlo contro le istituzioni, di cui si fanno perennemente beffa.
La loro antipolitica, infatti, è andare da Napolitano, come ha fatto Mastella, con quel Barbato che ha usato il Parlamento come sputacchiera. Per non parlare di chi, ancora dentro il Quirinale, minaccia di chiamare la piazza a fare la rivoluzione. Ma i corazzieri con le loro alabarde, che ci stanno a fare?
Pubblicato il: 29.01.08
Oggi il Cavaliere non va da Facta
FEDERICO ORLANDO
Oggi il capo dell’opposizione e candidato premier (come lui si autodefinisce, abusando di un titolo che in Italia non esiste) salirà al Quirinale, dove non troverà ad attenderlo un altro Vittorio Emanuele III e il suo ministro Facta, prono a far coprire sui muri i manifesti dello stato d’assedio. Ha fatto benissimo Marco Pannella a ricordarglielo. Al Colle Berlusconi salirà con la pistola scarica di un ukase che non funziona: elezioni ad aprile o marcia su Roma. È vero che – ha pure aggiunto Pannella – ha già fatto le prove del golpe cileno senza uniformi, con lo sciopero dei camionisti, per i quali aspettiamo di conoscere dall’autorità giudiziaria le responsabilità penali individuali. Ma al Colle troverà la costituzione «in carne e ossa». E anche se per lui l’unica Carta che conta è la carta moneta, qualche consigliere gli avrà spiegato che il presidente della repubblica non ha alle spalle un governo caduto, ma la costituzione vera: quella ricordata domenica da Eugenio Scalfari che non si fa seppellire dalla brutta copia fasulla, che chiamano “costituzione di fatto” e che serve quando fa comodo e a chi fa comodo. Al Quirinale c’è una sola costituzione, quella di cui Napolitano ha celebrato i sessant’anni in parlamento, e di cui egli è, insieme alla corte costituzionale, al parlamento, alla magistratura, alle forze armate e ai pubblici dipendenti, fedele e supremo difensore.
Berlusconi vuole che Napolitano, ascoltati tutti i partiti (tranne i radicali, che non sono andati al Colle, per ricordare l’illegittimità di un Senato che ha preferito il regolamento alla volontà popolare convalidando otto senatori non eletti e rifiutando l’ingresso agli eletti), sciolga le camere, così da costringere il governo Prodi a indire elezioni entro tre mesi. Questa pretesa di Berlusconi e del suo blocco (il ritornante blocco moderato- clerico-fascista-sfascista, già visto all’opera nella distruzione delle finanze e del corpo sociale per cinque anni) diffonde odore di bruciato.
Farebbe comodo all’unto del signore (anche questo titolo è un’autodefinizione: finora, infatti, nessun papa glie l’ha conferito) andare alle elezioni avendo come antagonista un trompe-l’oeil, il governo battuto al Senato, e così coprire con una cortina fumogena il nuovo Partito democratico nato in Italia e il suo giovane leader. Comodo ripetere il faccia a faccia di dodici anni fa (1996), come nulla fosse successo nel frattempo. Comodo ma, a differenza dell’occupazione dell’etere, non praticabile. È per questo che il capo dello stato, defensor constitutionis, ha messo da tempo le mani avanti, quando ha detto alla classe politica: mai più alle elezioni con questa legge elettorale, concepita fraudolentemente per non consentire un governo che governi. Primo obbiettivo, invece, del capo dello stato come dell’ultimo cittadino che si rispetti.
Per servire questo obbiettivo e dare all’Italia una legge elettorale non fraudolenta, e visto che non si vuole aspettare il referendum, l’uscita di sicurezza c’è, come ricordava Scalfari, e la conosciamo da quando anche noi abbiamo leggiucchiato un po’ di diritto costituzionale: incaricare un’altissima personalità delle istituzioni di formare un governo col solo obbiettivo di fare la riforma elettorale in pochi mesi e farci votare a giugno. Se avrà la fiducia delle camere, come noi auguriamo a Marini o ad Amato e alle forze politiche nazionali che vorranno sostenerne lo sforzo, andremo alle elezioni con la nuova legge concordata. Se non avrà la fiducia, sarà comunque il governo Marini o Amato a indire le elezioni. E sarà rimosso il trompe-l’oeil di comodo, che altererebbe la competizione elettorale falsificando l’immagine di uno dei due maggiori protagonisti. E il Partito democratico, unica realtà nuova in Italia dall’avvento della cosiddetta seconda repubblica nel 1994, potrà combattere senza trappole mediatiche e dare al paese, se i suoi malpancisti glie lo consentiranno invece di tirare troppo la corda, la speranza in un neokennedismo possibile, piuttosto che la scopiazzatura baget-bozziana del sarkozismo.
Se questo è il quadro istituzionale legale, che nella crisi assegna l’ultima parola al capo dello stato, non abbia troppa fretta l’ambasciatore Romano d’intrupparsi ancora una volta nel caravanserraglio del vincitore, aggiungendo, alla fatua minaccia della marcia su Roma, lo spettro del governo Tambroni. A parte che governi del presidente ci furono prima di Tambroni (Pella, nominato dal liberale Einaudi) e dopo (Ciampi, nominato dal democristiano Scalfaro), il primo salvò il centrismo, il secondo il bilancio nazionale e le condizioni per andare in Europa; a parte queste quisquilie, dicevo, il governo Tambroni fu la classica miscela esplosiva di culture visceralmente antiliberali e addirittura di matrice fascista, almeno per quanto riguarda quel presidente del consiglio.
Il quale aveva già dimostrato il suo animus di ex capomanipolo della milizia decretando (1957) la chiusura dei bordelli il XX settembre, data sacra alla memoria liberale del risorgimento per la liberazione di Roma; e sciogliendo alla vigilia delle elezioni del 1958, su richiesta di Fanfani in caccia di voti, il consiglio comunale di Napoli (Lauro), anche allora discusso, ma certo non il solo. Ne sanno niente Romano e il Corriere di queste cose? Come si osa paragonare Tambroni a Marini o Amato, e l’eventuale appoggio parlamentare a questi ultimi con quello assicurato dai soli repubblichini di Michelini all’ex camerata capomanipolo? Per favore, almeno i grandi giornali non mischino le carte per opportunismo, perché non tutti siamo nati ieri, come forse alcuni dei loro capintesta pensano di una parte dei lettori.
È capitato varie volte agli italiani di dover difendere da soli le proprie ragioni, non potendo contare sui politici. L’ultima fu nel 1992-93 con Mani pulite, la penultima nel 1943-45 al termine dell’avventura iniziatasi con la marcia su Roma. A qualcuno piacerebbe che l’esigenza si ripresentasse?
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