Casini-Cdl, divorzio sull'Eurostar - Berlusconi, Fini e Letta lo hanno chiamato era in treno per comunicargli la decisione - Dopo la rottura il leader centrista chiama il cardinale Ruini
ROMA - "Lo sapete come si chiama questa cosa? Una vigliaccata, fatta alle mie spalle". Pier Ferdinando Casini è seduto sulla poltrona dell'Eurostar che lo sta portando a Bologna. Con lui c'è la moglie Azzurra. Gli squilla il telefonino e dall'altra parte c'è Gianni Letta. Accanto a lui ci sono Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Paolo Bonaiuti. Letta attiva il vivavoce e il colloquio, dopo i primi convenevoli, si infiamma in un istante. "Stiamo qui con Silvio e Gianfranco - gli dice l'ex sottosegretario alla presidenza del consiglio - e ti volevamo dire che la lista unica si fa. Pensiamo che debba farne parte pure tu. Non ci sono motivi perché tu non aderisca. Il Pdl è nei fatti e tu sei il benvenuto. Ma sappi che se non ci stai, noi andiamo avanti lo stesso". Qualche secondo di silenzio. Anche nella sala di Palazzo Grazioli sale la tensione. Poi, incredulo, il leader dell'Udc risponde: "Ma come? Io sto qui in treno, voi state lì tutti insieme e mi dite che sta nascendo un nuovo partito. Oltre al fatto che mi sembra un'idea bislacca, vi pare questo il modo di fare? Mi annunciate un'operazione di questo tipo tra una galleria e l'altra? E dovrei pure accettare? No, questa è una vigliaccata. È un complotto bello e buono".
Ecco, la fine della Cdl si consuma proprio così. Sui binari della Roma-Bologna. Con l'ex presidente della Camera che non riesce a nascondere la rabbia e con Berlusconi, algido, che non spende una parola per tentare di ricucire. Nemmeno una sillaba. Eloquenti solo gli sguardi rivolti a "Gianni e Gianfranco". "Io - sbotta il capo dei centristi - fino a ieri non avevo il minimo sentore di questo disegno. E ora venite a dirmi "o dentro o fuori"". Ci prova ancora Fini a convincerlo.
Ma non c'è niente da fare. Tanto che alla fine il presidente di An gli dà persino un consiglio che a Casini non appare disinteressato: "A questo punto ti conviene andare da solo". La stessa frase con cui, un paio d'ore prima, si era conclusa un'altra telefonata sempre tra Fini e Casini. Un breve colloquio nel quale il leader di Via della Scrofa avvertiva che sarebbe andato a Palazzo Grazioli a chiudere l'intesa. "Sì, è vero. A questo punto mi conviene andare da solo", replica seccato il numero uno dell'Udc. E clik, attacca il telefono.
Da quel momento nessun contatto. Il treno nel frattempo arriva Bologna. Il capo centrista cerca di smaltire la botta. Prima di pranzare nello storico ristorante "Diana", la sua prima telefonata è per monsignor Camillo Ruini, vicario di Roma e punto di riferimento della Cei. Dal prelato qualche rassicurazione la ottiene. Il cardinale gli dice che non condivide l'"umiliazione" dell'Udc. Soprattutto gli conferma che la Chiesa considera "insopportabile" che in entrambi gli schieramenti i cattolici diventino irrilevanti. Una preoccupazione così grande che lo stesso ragionamento se l'è sentito fare anche Berlusconi. Che, però, non ne vuol più sapere degli ex Dc. "Se ne vadano per conto loro - sibila con un sorriso ai suoi - e vediamo che combinano. Verranno cancellati. Io, invece, ho sempre avuto ragione. [...] (...ma si può sapere cosa cazzo c'entri Ruini con la "sistemazione" di Casini nel CDX?...)
Certo, forse la partita non è definitivamente chiusa. In agenda non c'è ancora un faccia a faccia tra "Silvio e Pier". Ma dentro Forza Italia è partita una "micro-offensiva" diplomatica. "Si può trovare una soluzione tecnica", dice Bonaiuti. Ma anche a Via del Plebiscito, la preoccupazione principale - in particolare dopo i segnali giunti dal Vicariato - adesso è quella di non passare come i responsabili della frattura. E di far ricadere sui centristi la scelta di correre da soli. Anche se, è la stoccata di Marco Follini, "dopo aver servito gli interessi di Berlusconi nel momento cruciale, per Casini ergersi ora a campione della lotta di liberazione mi sembra una fantasia improbabile. Le giravolte, prima o poi, si pagano".
(di Claudio Tito - Repubblica.it)
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[...] solo la diffidenza spiega il motivo per il quale FI non ha concesso all'Udc quello che invece ha accordato a Umberto Bossi. «La Lega è un partito territoriale», si è giustificato Berlusconi. Ma Casini intravede soprattutto la voglia di umiliare l'Udc con una «estemporanea operazione elettorale». Per questo risponde: «Non ci interessa». E riprende il vecchio sogno di «unire i moderati » in un'area di centro che somiglia ad un «terzo polo». Non è da escludersi che il braccio di ferro finisca per dividere la Cdl. Ma forse è solo cominciata una trattativa, della quale si conoscerà l'esito a giorni. Altrimenti, per l'Udc comincerebbe una campagna elettorale in salita, con l'obbligo di superare il 4 per cento alla Camera e l'8 al Senato. Ma anche il centrodestra potrebbe trovarsi in difficoltà. Oggi appare in vantaggio, e convinto di stravincere sull'ex Unione. Il conflitto che si profila in Sicilia per la carica di presidente della Regione, però, addita i contraccolpi di un braccio di ferro. La candidatura di Gianfranco Miccichè, plenipotenziario berlusconiano, ha provocato la reazione del governatore uscente. Salvatore Cuffaro, «padrone» di gran parte dei voti dell'Udc nell'isola, si è dimesso dopo una condanna in primo grado. Ma annuncia che contrasterà la marcia dell'uomo di FI.
«Farò di tutto per impedire l'elezione di Micciché», ha dichiarato ieri. Si coglie un riflesso dello scontro sul piano nazionale fra Casini e il trio Berlusconi-Fini-Bossi. L'Udc non ha la forza per contrastare il nuovo partito del Cavaliere. Ma vuole far capire che è in grado di metterne in forse la vittoria. Impresa ardua, per Casini, il cui partito deciderà giovedì. Ma avvertendo che «molti parlamentari dell'Udc hanno un'opinione diversa», Berlusconi promette battaglia. Di certo, in assenza di una tregua ancora possibile, tenterà una campagna acquisti a tappeto. Sembra ancora convinto di imporre le proprie condizioni: un epilogo non scontato.
(Massimo Franco - Corriere.it)
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Andata e ritorno: Gli alleati del Cavaliere tra insulti e marce indietro. Lambertow e gli altri, Silvio perdona tutti - Due mesi fa Fini diceva del partito unico: altro che teatrino, siamo alle comiche finali...
«Va abbe' che l'Italia è il Paese del trasformismo ma tutto ha un limite», sbottò Berlusconi all'idea che Dini voltasse gabbana. Gli amici di destra, però, si rilassino: la frase non è di ieri. E il Cavaliere non ce l'aveva, ovvio, con il «Lambertow» che ieri è accorso nel nuovo Pdl passando dopo 12 anni da sinistra a destra, ma con il «Lambertow» che passò da destra a sinistra. Si sa: chi se ne va è un ributtante opportunista, chi arriva un amato figliol prodigo. È la politica, baby. Certo, a sinistra c'è chi dirà che solo una manciata di settimane fa l'ex ministro degli esteri di Prodi, D'Alema e Amato aveva fondato il suo movimento liberaldemocratico spiegando che si collocava «naturalmente nel centrosinistra ». E chi ricorderà come lo stesso Cavaliere avesse a suo tempo marchiato Dini come «il maggiordomo di Scalfaro» che mascherava «il governo dei comunisti», Francesco D'Onofrio come «un ermafrodito» sulla via di diventare «transessuale», Umberto Bossi come un burattino in mano alle sinistre e Gianfranco Fini come «il ventriloquo di D'Alema». Ma perché rinvangare? Bentornato, Lambertow!
La nascita anche a destra di una nuova forza politica per semplificare come il Pd a sinistra un panorama da incubo, con 157 partiti registrati (o 158 con quello di Bruno Tabacci: ma ormai anche gli appassionati hanno perso il conto) ha questo di buono: costringe i cacicchi a decidere. Dentro o fuori. A costo di mettere da parte certe contrapposizioni, certe forzature, certi insulti che mai come ora appaiono curiosi. Prendete Alessandra Mussolini. Accusò Berlusconi di averla «accoltellata nella schiena» e piantò in asso Fini fondando un partitino suo («Ha osato definire il fascismo, cioè mio nonno, male assoluto! ») irridendo agli ex camerati «neo-democristiani che scodinzolano davanti alla porta del Ppe per un lasciapassare nel salotto buono». Ieri, contrordine camerati: «Va reso merito a Berlusconi e Fini dello sforzo per tentare di dare corpo e sostanza a qualcosa che sembrava un sogno irrealizzabile, ora vicino a diventare realtà». E gli scodinzolanti del Ppe? Boh...
Il Cavaliere sorride. L'ha sempre detto, lui, che vorrebbe andare d'accordo con tutti: «Per non litigare mi posso fare concavo o convesso ». E pur avendo denunciato mille volte il ribrezzo per un certo teatrino della politica («Torno a Roma, torno nella cloaca »), ha imparato da un pezzo come gira. Ai tempi in cui il leader della Lega lo chiamava «Berluscaz», Fini confidò: «Silvio odia Umberto con tutto il cuore, io non so odiare quanto odia lui». Deciso a vincere, però, si fece davvero concavo e convesso: «Per tornare con Bossi abbiamo dovuto gettarci dietro le spalle tante frasi spiacevoli. Solo io con lui avevo 18 cause giudiziarie ». E se era riuscito allora a gettarsi alle spalle insulti come «suino Napoleon» o «cornuto delinquente», poteva avere puzze sotto il naso con l'amico Gianfranco? È vero, dovranno ammettere entrambi che il passaggio dalla rissa all'abbraccio è stato svelto. Solo due mesi fa, come ricordava giorni fa Francesco Storace (seguito ieri da Teodoro Buontempo, che ha messo in guardia il Cavaliere dal fidarsi «dei cavalli di Troia che aspettano solo di indebolire la coalizione ») la decisione di Sua Emittenza di salire sul predellino della macchina per tenere il «proclama di San Babila» annunciando la nascita del nuovo partito, era stata accolta dal leader di An con irritazione: «Comportarsi nel modo in cui sta facendo Berlusconi non ha niente a che fare con il teatrino della politica: significa essere alle comiche finali. Da queste mie parole, volutamente molto nette, voglio che sia a tutti chiaro che, almeno per quello che riguarda il presidente di An, non esiste alcuna possibilità che An si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi». E giorno dopo giorno la collera era sembrata montare, fino a fargli dire: «Io sono il presidente di Alleanza nazionale, non una pecora». Traduzione: non entro nel gregge di nessuno.
Va da sé che, plaudito alla pace rapidamente fatta dopo la caduta di Prodi, anche i tifosi dell'idea di una lista comune si sarebbero aspettati che l'annuncio di un accordo venisse dato questa volta insieme. Tutti e due. Alla pari, o quasi. Macché. Il Cavaliere non solo è salito su un secondo predellino, quello della trasmissione Panorama del giorno condotta da Maurizio Belpietro su Canale 5, ma ha dato lui la notizia anche del consenso dell'amico Gianfranco. Al quale non ha lasciato che il compito di assentire: «Condivido la proposta di Berlusconi di dare al popolo del 2 dicembre, al popolo delle libertà un'unica voce in Parlamento... ».
E chi lo guiderà, questo popolo? Un consolato con due consules? Un presidente e un segretario? Un condottiero unico a staffetta? E Fini, dopo essere stato per venti anni il numero uno della destra, che peso avrà dentro questo contenitore più grande? Si vedrà... Il rapporto tra i due, in realtà, è sempre stato piuttosto complesso. Fin da quando Berlusconi, dopo avere sdoganato l'allora segretario missino appoggiandolo prima nella corsa per il Comune di Roma e poi nella fondazione di An, rivendicò l'alleato come una creatura sua: «Si è candeggiato: prima di me era il cavaliere nero sul cavallo nero adesso è il cavaliere bianco sul cavallo bianco».
Un'idea fissa. Ribadita con la sua battuta più famosa: «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano delle zucche e li ho trasformati in principi». E confermata mille volte con gli ammiccamenti sull'erede, l'eredità, il delfino, il successore... Mettetevi al posto di Fini: è dura, a cinquantasei anni, fare ancora la parte del principino che aspetta che il Re un giorno, quando ne avrà voglia, gli posi la corona in testa. E così l'ha detta, fuori dai denti: «Successore designato per via monarchica da Berlusconi? La monarchia è un'istituzione rispettabilissima ma io sono repubblicano dalla nascita».
Ma la politica è la politica. E Gianfranco ha già detto come la pensa: «La politica presuppone che i sentimenti personali non siano al centro dell'azione dei partiti. Sono sfere diverse». Avanti col nuovo partito, dunque. E la successione? All'ennesima domanda sul tema, un giorno rispose canticchiando Lucio Battisti: «Berlusconi non è una stella / che al mattino se ne va...».
(Gian Antonio Stella - Corriere.it)
...il programma della Casa (pardon... del Popolo) delle Libertà è di una semplicità estrema: "Dio, Patria, Famiglia" (vi ricorda qualosa?) con aggiunta di "Scuola Privata". Silvio, facci sognare!
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