Nel post dedicato al tafazzismo della sinistra, capace di nominare De Gennaro supercommissario (dopo aver nominato Pollari n° 2 di Giuliano Amato), avevo scritto queste poche righe ad Haidi Giuliani:
Siamo nati Tafazzi, moriremo Tafazzi. A volte ho una irrefrenabile tentazione di prendere Prodi per il bavero, e di chiedergli: ..."PERCHE'???"... Perchè nel momento in cui Prodi ha avuto la geniale idea di nominare De Gennaro Commissario Straordinario in Campania, i fatti per i quali oggi viene chiesto il rinvio a giudizio erano tutti già noti e chiari, e contenuti nell'avviso di garanzia. Non avremmo avuto una figura insospettabile da proporre per quell'alto incarico? Ora la Destra, in campagna elettorale, potrà comodamente rovesciarci addosso non solo milioni di tonnellate di spazzatura (pronta a dimenticare le proprie corresponsabilità), ma anche la nomina di un presunto bandito come commissario ad acta. Grazie, Prodi.
Nel frattempo io continuerò a chiedere all'amica Haidi Giuliani PERCHE' non farà parte del nuovo Parlamento, lei che, praticamente da sola, ha continuato a battersi per la costituzione di una commissione d'inchiesta su Genova, Cile. Commissione che sarebbe stata l'unico strumento atto a definire almeno delle condanne morali, visto che le condanne giudiziarie saranno vanificate dall'arrivo della prescrizione.
Cara Haidi, ci DEVI una risposta. Non ti sei voluta ricandidare? e in tal caso perchè? Oppure non ti hanno voluto ricandidare, e in tal caso CHI?
Con la consueta gentilezza, la risposta della ormai ex senatrice Haidi Giuliani, mi è arrivata a stretto giro di posta:
Caro Antonio,
non credo che si sentirà la mia mancanza in Parlamento e tuttavia vorrei toglierti qualsiasi dubbio: sono felice di tornare a casa. Se non abbiamo ottenuto una seria Commissione di inchiesta sul G8 genovese con questo governo certamente non l'avremo con il prossimo, qualunque sarà! Quanto alle difficoltà che ho incontrato, non riesco a riassumerle in poche parole perciò allego un pezzetto che ho scritto per una pubblicazione appena uscita a cura del coordinamento delle parlamentari di Rifondazione Comunista.
Un caro saluto, Haidi
Differenza in gioco: Qualche considerazione sulla mia esperienza
Per raccontare l’esperienza trascorsa, in questi miei quattordici mesi di attività parlamentare, devo fare un passo indietro. Perché io vengo ‘dal basso’ che più basso non si può: attività di partito interrotta trent’anni fa, nessuna aspirazione a cariche pubbliche, le uniche assemblee a cui ho partecipato attivamente, quelle scolastiche da insegnante. Infatti, quando mi è stata proposta la candidatura ho risposto “no, grazie, non sono adatta”. “Non sei adatta o non sei adattabile?” mi ha chiesto un giorno un ragazzo durante un dibattito. Ci ho pensato su a lungo e alla fine ho accettato. E’ vero, non sono ‘adattabile’, al punto da apparire perfino scortese con i miei stessi compagni e le compagne di banco. Non mi sono adattata all’ambiente, al lusso, allo spreco, ai rapporti amichevoli con persone che non stimo, al principio per cui “in fin dei conti siamo tutti colleghi”. Ma questo non basta per portare una nota di vero cambiamento all’interno di una istituzione.
Ho accettato la candidatura anche perché la proposta mi è stata offerta in modo davvero allettante: entrare in Senato il giorno stesso in cui, cinque anni prima, Carlo Giuliani veniva ucciso dallo Stato; portare il suo cognome, tramite me, nei pubblici elenchi, negli uffici, in aula; seguire da vicino l’iter di una commissione di inchiesta su Genova. La prima cosa non è riuscita: sono subentrata alcuni mesi più tardi; la seconda sì. E grazie al gruppo di Rifondazione il nome di Carlo è ancora sulla porta della sala che gli è stata dedicata. Quanto alla commissione, prevista dal programma di Governo, presentata solo alla Camera con la motivazione che al Senato non avremmo ottenuto i voti necessari, è miseramente fallita per la contrarietà attiva di pezzi della stessa maggioranza che hanno votato con l’opposizione (e, occorre dirlo, per lo scarso interesse di altri). A dimostrazione che l’abitudine a firmare un patto per stracciarlo subito dopo è profondamente radicata in certa classe politica.
La premessa è necessaria per spiegare la mia attività che oggi posso riassumere brevemente così: una grande, grandissima fatica personale e un fallimento totale. Infatti, non solo non sono riuscita a raggiungere i minimi obiettivi per cui ero arrivata in Senato, ma ho partecipato al fallimento della stessa Unione, del suo programma, dei progetti in cui tanta parte delle persone, dei movimenti e della sinistra, avevano posto la loro fiducia, il loro voto. Qualche esempio? Ho ascoltato in aula un bellissimo discorso del ministro D’Alema che rivendicava orgogliosamente discontinuità rispetto alle scelte del precedente governo ma le spese militari non sono diminuite, anzi. E, sempre in aula, ho vissuto la sofferenza di un voto dato per dovere, ho sperimentato quanto costa rispettare i patti. Perché noi i patti li abbiamo rispettati ma non siamo riusciti ad ottenere altrettanto dalle altre parti, bisogna riconoscere che la cortesia non ci è stata ricambiata in nessun modo.
Nonostante la mia impreparazione, in commissione Affari Costituzionali abbiamo cercato di intervenire sul decreto sicurezza, ma il risultato finale ha confermato l’impostazione repressiva e punitiva del testo iniziale. In commissione, inoltre, abbiamo lavorato più che altro ad arginare le proposte dell’opposizione tese a rendere più difficili le condizioni di ingresso e di permanenza delle persone migranti o indagare nelle loro famiglie con un’inchiesta sulla violenza contro le donne, come se questo dramma riguardasse solo le immigrate e non le donne tutte e, voglio sottolineare, tutte le bambine e i bambini, che non hanno a loro difesa gli strumenti sociali, culturali e psicologici necessari.
No, non è stata tutta negativa la mia esperienza in Senato, ma qui non si tratta di scrivere un diario bensì di trarre le somme ed elencare i risultati ottenuti, ed io francamente non ne ho. Ho ottenuto alcuni risultati per quanto riguarda le attività collaterali: in questo anno, grazie al tesserino, ho potuto entrare in luoghi di detenzione, ho partecipato alla costruzione dell’ osservatorio carceri, occupandomi particolarmente di quelle liguri, ho potuto sostenere economicamente diverse situazioni. Ma nessun risultato positivo, concreto, per quanto riguarda l’attività parlamentare vera e propria. Che cosa mi è rimasto nella penna? Direi moltissimo. Da una domandina al ministro Amato (che, dopo la sua relazione, non è mai più tornato in commissione) all’ennesima proposta per una legge sulla tortura; dall’intervento che avrei dovuto leggere il giorno che Mastella si è dimesso ad un ddl per limitare il volume e la tipologia degli imballaggi per le varie merci… Insomma, la fine prematura, anche se molto annunciata, di questa legislatura è arrivata mentre io avevo appena cominciato ad imparare. Poiché non sono abituata a piangermi addosso, vorrei mettere a disposizione la mia esperienza, approfittando di questo spazio per riflettere sulle difficoltà che ho incontrato.
Quando si sostiene, giustamente, che è necessario rinnovare le istituzioni e la classe politica è necessario anche evitare da un lato la scarsa efficienza delle persone elette e dall’altro la disperazione di chi, come me, si è trovata ad affrontare una fatica così importante senza gli arnesi necessari. Perché, se è vero che occorrono rinnovamento e idee nuove per costruire una bella casa, è altrettanto vero che senza attrezzi e strumenti ed esperienza non si può costruire niente. E’ una questione delicata, vorrei provare a spiegarla meglio. Se il non essere esperti; il non conoscere i meccanismi, a volte i riti; il non essere disinvolti nell’uso delle consuetudini, non sempre esemplari: se tutto ciò dovesse continuare a rappresentare un discrimine per l’esercizio dell’attività politica a livello istituzionale, allora non ci sarebbe alternativa al professionismo delle persone che fanno politica. La conseguenza sarebbe proprio l’impossibilità di quanto viene invocato a gran voce da più parti: il necessario rinnovamento. E questa impossibilità finirebbe per riguardare anche quelle forze per le quali è del tutto improprio e offensivo parlare di “casta”. Io credo al contrario che, oltre ad essere assolutamente necessario, il rinnovamento sia possibile. Perché è possibile avvalersi della esperienza e degli strumenti che già esistono; al più si tratta di utilizzare meglio il patrimonio di conoscenze e di capacità che in tanti anni si è accumulato nelle singole persone e nelle strutture dell’organizzazione, un patrimonio che forse non è sfruttato nel modo migliore. Ho potuto verificarlo personalmente, nel contatto quotidiano con le compagne e i compagni del gruppo e anche con alcune persone di sicura dignità morale e culturale della maggioranza appena trascorsa. Detesto la parola sfruttamento, in tutte le sue implicazioni, ma in questo caso per me ha il legittimo significato di uso intelligente delle risorse.
In questi anni della mia seconda vita, quella cominciata il 20 luglio del 2001, ho avuto numerosissime occasioni che mi hanno permesso di conoscere tante persone impegnate nelle diverse forme che la politica assume nei quartieri, nei luoghi di lavoro, in quelli culturali, nelle scelte di campo valoriali, nelle espressioni attive e concrete della solidarietà verso i deboli, verso gli ultimi; e mi hanno convinto che c’è davvero un grande patrimonio che abbiamo il dovere di utilizzare. O meglio, dobbiamo riuscire a fare in modo che siano queste persone a poter utilizzare il patrimonio di conoscenze e di capacità di cui parlavo prima: riuscire a rovesciare la piramide. Altrimenti il meccanismo che porta a selezionare una “casta” non si interromperà mai. E non riusciremo mai ad organizzare una partecipazione vasta e radicata di controllo della ‘cosa comune’. Un esempio lampante di quanto sto cercando di dire riguarda proprio le donne, presenti e molto attive in tutte le strutture di base ma ancora poco presenti nei luoghi dove si decide davvero.
E ancora: in questi mesi di esperienza in Senato ho potuto rendermi conto che le strutture politiche, amministrative e burocratiche, che traducono nei confronti dei cittadini le istituzioni, sono terreno fertile per azioni persino sfacciate di nepotismo e clientelismo. Non ne sono esenti neppure le strutture, proprie o collaterali, delle formazioni politiche. Altri paesi europei hanno affrontato e risolto da tempo questo problema. Con una netta separazione della direzione politica dalla gestione, cioè con una pubblica amministrazione gelosa della propria autonomia e allo stesso tempo rigorosamente rispettosa delle decisioni e degli indirizzi che competono alle scelte politiche. O con regole che hanno reso possibile o addirittura necessario il rinnovamento. Tutto ciò da noi non è mai stato fatto. E il non averlo fatto, neppure come scelta autonoma di una forza di partito, ha favorito la crescita della delusione, della sfiducia, dell’allontanamento dalla politica. La stessa drammatica riduzione della base organizzata delle forze politiche (di tutte) si è pericolosamente intrecciata con la perdita di rappresentatività, componente certo non trascurabile della crisi di fiducia e di credibilità. E che permette, in ultima analisi, anche il formarsi delle clientele, delle rendite di posizione e delle tentazioni leaderistiche.
Di rinnovamento si fa un gran parlare da molte parti, a cominciare dalla nostra, ma in questa direzione mi pare siano stati fatti pochi passi. Spero davvero che le grandi difficoltà dell’oggi e del domani, gli scenari, come si suole dire, che si delineano, non arrestino questo cammino.
Haidi Gaggio Giuliani
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