Nel momento in cui ritornano al potere i fascisti di tutte le sfumature di nero, assume per noi particolare rilievo il DOVERE di ricordare e di celebrare il giorno in cui l'Italia, esattamente 63 anni fa, ha ritrovato parte dell'onore perduto cogli anni del fascismo, della guerra, delle leggi razziali, dei campi di sterminio. L'Italia usciva dall'incubo di oltre un ventennio di fascismo, di sopraffazioni, di idiotissima idea di "conquistare il mondo", portata avanti da un maestro elementare dalla mascella volitiva, e da un imbianchino bavarese affetto da tic da paranoico. Nel momento in cui ritorna per la terza volta al potere la mascella, cristallizzata in un perenne sorriso idiota da paresi facciale, e si trascina dietro post-fascisti e neo-fascisti “padani”, ed un certo numero di mafiosi, alcuni dei quali, raffinati bibliofili, hanno già preannunciato l’intenzione di “rivedere la storia della resistenza” (forse per adattarla al nuovo “fascismo dolce”), sentiamo il bisogno di trasmettere alle nuove generazioni una piccola storia “minore” e non ragionata di ciò che è stata la Resistenza, prima che a qualcuno venga in mente di farne un serial TV che tutto confonda ed omologhi. Noi non vogliamo farci confondere. Vogliamo conservare la nostra bellissima diversità, e vogliamo continuare a
RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE!
"I giorni dell' insurrezione" - di Giovanna Boursier e Marco Scavino
Due avvenimenti contrassegnano la vigilia della liberazione: il 6 aprile, la riunione dei segretari dei partiti del Cln che ritornano sulle proposte di un convegno nazionale dei Cln e di una consulta; l'8 il discorso di Togliatti al Consiglio nazionale del Pci, nel quale ripropone una collaborazione con la Dc e completa, ribadendola, la linea politica elaborata a Salerno.
10 aprile. Longo dirama le "direttive n. 16" del Pci dell'Italia occupata, disposizioni per la realizzazione dell'insurrezione generale ormai vicinissima. Tre giorni dopo il generale americano Clark, comandante delle forze alleati in Italia, rimandare ancora. Togliatti, invece, scrive a Longo e, sottolineando la necessità che "l'armata nazionale e il popolo si sollevino in un'unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli alleati...", lo invita ad attuare tutte le misure necessarie per l'insurrezione nelle regioni settentrionali.
16 aprile. A Gargnano sul Lago di Garda, si tiene l'ultima riunione del consiglio dei ministri della Rs. Mussolini comunica di voler trasferire a Milano il suo governo.
18 aprile. Sciopero generale preinsurrezionale. Seconda battaglia di Alba. Mussolini arriva a Milano e, scortato dalle SS e da parte dei suoi ministri, si stabilisce nel palazzo della prefettura.
21 aprile. Viene liberata Bologna, dove i partigiani combattono già da un paio di giorni.
23 aprile. Insorge Genova. Le forze della resistenza attaccano quelle nazifasciste catturando 6 mila tedeschi. Gli anglo-americani attraversano il Po.
24 aprile. Insorge Cuneo. A Dongo le brigate nere compiono ancora un feroce rastrellamento e uccidono 4 partigiani. Un quinto viene catturato e barbaramente trucidato. La registrazione cronologica degli avvenimenti si fa difficile. I piani nazisti prevedevano un ripiegamento ordinato dei reparti verso il Brennero, dopo una sistematica distruzione di ponti, strade, viadotti, centrali elettriche e impianti industriali. L'insurrezione popolare, chiudendo ai tedeschi ogni possibile via di fuga, accelera invece i tempi della resa totale. Crollano, uno dopo l'altro, tutti i centri ancora occupati, e i nazifascisti sfogano il rancore e l'odio per la sconfitta in estremi atti di brutale violenza: nel corso degli ultimi avvenimenti i morti si contano a centinaia e spesso le inermi popolazioni sono ancora vittime di disperate e inutili rappresaglie come a Grugliasco, a Collegno e in diverse località del Friuli. Si conclude così quell'insurrezione nazionale divampata sull'Appennino tosco-emiliano il 20 aprile e che, contemporaneamente all'avanzare degli alleati dalla linea gotica lungo la pianura del Po, pensava il paese non solo liberato ma avviato verso un nuovo governo.
25 aprile. Il Clnai impartisce l'ordine di insurrezione generale. Vengono istituiti comandi regionali e provinciali dei Cln, tribunali di guerra e viene stabilita la pena di morte per i gerarchi fascisti. Si creano consigli di gestione delle aziende. I tedeschi abbandonano Milano dove è proclamato lo sciopero generale. Nella sede arcivescovile della città, per iniziativa del cardinale Schuster, alcuni capi del Clnai (Cadorna, Lombardi, Marazza, Arpesani e Pertini) incontrano Mussolini per chiedergli la resa incondizionata di tutti i fascisti e i militi della Rsi, concedendogli due ore per la risposta. In serata il duce fugge verso Como, si ferma a Menaggio da dove la mattina successiva ripartirà con la colonna di nazisti in fuga.
26 aprile. Genova è libera. A Torino la popolazione insorge insieme alla stragrande maggioranza degli operai, che già presidiano in armi le fabbriche. Viene liberata anche Alba.
27 aprile. I partigiani ottengono la resa del presidio di Cumiana e occupano i sobborghi della città della Fiat: si combatte duramente, ma il giorno dopo la città è completamente libera (gli alleati arriveranno il 3 maggio). Lo stesso giorno, prevenendo i piani di occupazione francese, le formazioni partigiane liberano Aosta. A Musso, vicino a Dongo (Co), i partigiani individuano la colonna su cui si trova Mussolini che cerca di scappare in Svizzera travestito da tedesco. Catturato e processato insieme ad altri gerarchi fascisti. Il 28 aprile è giustiziato insieme all'amante Claretta Petacci, che non voleva abbandonarlo. Il giorno successivo i loro corpi, insieme a quelli di altri fascisti fucilati nella piazza di Dongo, vengono appesi a piazzale Loreto, a Milano, la stessa piazza dove i fascisti, qualche tempo prima, avevano esposto i corpi di 15 prigionieri politici fucilati. A sera i fascisti firmano la resa a Padova, ma i tedeschi non cedono fino alla mattina del 28.
28 aprile. All'alba insorge anche Venezia: i partigiani occupano la stazione e molti edifici pubblici, mentre i tedeschi tengono la zona portuale e Mestre, dove si combatte ancora fino alla mattina successiva, quando la città è completamente libera.
29 aprile. Le truppe alleate e i reparti regolari italiani entrano a Milano. I partigiani occupano Cuneo. Una colonna tedesca comandata dal generale Schlemmer, che si ritira dal cuneese, arrivata a Grugliasco, alla periferia di Torino, assale un piccolo presidio delle Sap: dopo ignobili torture, 59 partigiani e 7 civili vengono fucilati. Nonostante i cambattimenti continuino, al quartier generale alleato di Caserta viene firmato l'armistizio per la resa totale delle truppe tedesche in Italia, che entrerà in vigore alle 14.00 del 2 maggio.
30 aprile. Il Clnai comunica l'esecuzione della condanna a morte di Mussolini, "conclusione necessaria di una fase storica... premessa della rinascita e della ricostruzione". I partigiani della VII Alpini, ottenuta la resa della guarnigione tedesca, entrano a Belluno e a Schio; le formazioni friulane liberano Udine, mentre i partigiani jugoslavi entrano a Trieste e vi istituiscono una loro amministrazione. Suicidio di Hitler.
1 maggio. Tutta l'Italia settentrionale è libera.
2 maggio. Berlino si arrende all'Armata Rossa. Mentre la Germania depone le armi, in tutta Europa si intensificano colloqui e contatti non solo per discutere la situazione politica generale, ma anche per risolvere la questione urgente della smobilitazione dei partigiani, delle provvidenze predisposte a loro favore e del ruolo dei Cln, che dalla liberazione funzionano come organi di governo provvisorio. Il ministro del tesoro Soleri promuove il "prestito della liberazione": con l'emissione di buoni del tesoro a scadenza quinquennale e ad un tasso del 5%. Si raccoglieranno 106 miliardi di lire.
5 maggio. I rappresentanti del Clnai arrivano a Roma di mattina per incontrare Bonomi. Le richieste del Clnai per la formazione del nuovo governo, delineate precedentemente a Milano, si possono riassumere in cinque punti [Piscitelli]: 1. epurazione estesa dal campo politico a quello economico; 2. chiarificazione, in senso democratico, dei rapporti fra i prefetti e i comitati di liberazione regionali e provinciali; 3. impostazione di un'opera di ricostruzione economica sopportata, naturalmente, dall'insieme della popolazione del paese ma, in modo particolare, da coloro che hanno tratto maggiori benefici economici da dieci anni di politica autarchica, nonché dalla collaborazione coi fascisti e coi tedeschi; 4. impostazione in linea di principio - salvo la diversità dei vari punti di vista che dovranno essere armonizzati attraverso la discussione - del problema della riforma agraria; 5. politica estera che rifugga da ogni nazionalismo non solo fascista ma anche prefascista e che significhi collaborazione democratica con tutti i paesi.
7 maggio. Mentre è annunciata la conclusione della guerra in Europa, si svolge una riunione congiunta tra Ccln e Clnai. Valiani conclude che è finito il periodo di transizione Bonomi: "è il momento di ricostruire lo stato o si ritornerà al 1921-22".
8 maggio. La ratifica della resa della Germania a Berlino segna la fine della seconda guerra mondiale in Europa.
In Italia, alla fine del conflitto, il reddito medio pro-capite è inferiore a quello del 1861. Rispetto all'anteguerra la produzione industriale è ridotta del 75% percento, nel nord gli stabilimenti industriali sono distrutti per il 20 percento, nel sud per il 90 percento. La produzione agricola è scesa al 63% rispetto al 1938, cioè al livello del 1890. Tuttavia l'Italia è ancora un paese preminentemente agricolo: i prodotti dei campi costituiscono il 58 percento dell'intero prodotto interno lordo, contro il solo 22 percento dell'industria e il 20 percento del terziario. Anche il settore dei trasporti esce distrutto dal conflitto: sono stati cancellati il 25 percento delle linee ferroviarie e il 90 percento della marina mercantile. (manifesto.it)
Da Alessandro Galante Garrone: "Il mite giacobino", Donzelli 1994
“…scendevamo in bicicletta verso Torino, nelle prime ore di quel mattino: io e mio fratello Carlo. Eravamo partiti dal Canavese: ansiosi, perché ancora non sapevamo come sarebbero andate le cose. E soltanto a Rivarolo - dove ci incrociammo con una fila sempre più fitta di persone che si allontanavano in gran fretta, ciclisti in fuga dalla città - capimmo che l'insurrezione generale era scattata all'ora stabilita. E Torino sarebbe stata liberata. Ma quel che ci diede la certezza del buon inizio fu la vista di un anziano gerarca, notissimo a Torino, il senatore B, che in quella torma di ciclisti pedalava faticosamente in salita, curvo sul manubrio. Ecco, se mi chiedi come fu il mio 25 aprile, ti devo dunque rispondere che cominciò in bicicletta, lungo la strada che dolcemente scendeva da Castellamonte in città. E hai ragione a voler partire da lì. E' giusto che dovendo parlare del "nuovo che avanza", io cominci proprio da quel momento, da quell'altra crisi di regime di cinquant'anni fa; dal nuovo di allora, diventato vecchio prima del previsto.
Per la verità la data fissata per l'insurrezione e la seguente liberazione di Torino e del Piemonte non era il 25, ma il 26 di aprile. L'ordine era stato emanato dal Comando militare regionale piemontese [Cmrp] il 24 aprile secondo la formula prestabilita : "Aldo dice 26 x 1"; cioè le operazioni, per tutte le formazioni partigiane, dovevano cominciare di notte, alla prima ora del 26 aprile.
Le forze militari alleate erano, anche se in movimento, lontane. Nel pomeriggio del 24 ero partito da Torino, con l'ordine d'insurrezione, e all'alba del 26 vi tornavo, per raggiungere al più presto la sede del Comitato di liberazione nazionale, mentre Carlo da Torino avrebbe dovuto proseguire per Cuneo. Arrivati, sempre in bici, alle porte di Torino, verso la barriera di Milano, ci rendemmo conto che una parte della città era già stata liberata. Alle finestre e sui tetti delle prime cascine, fuori porta Milano, sventolavano le bandiere tricolori. C'era già un'aria di festa. Giunti in città la situazione era ancora incerta: si sparava per le strade e dai tetti. Carlo si separò da me per trovare la via più diretta per Cuneo, mentre io cercavo di raggiungere la conceria Fiorio, fissata come sede del Cln durante l'insurrezione…
…da leggere:
"LE LETTERE DEI CONDANNATI A MORTE"
TRE STORIE DI DONNE - La Liberazione - La Resistenza e il 25 aprile, in tre storie di ragazze di allora
...il suo nome di battaglia era - ed è ancora oggi per tutti quelli che la conoscono - Fiamma. Uno dei suoi compiti nella Resistenza era quello di portare ai capi delle organizzazioni fasciste milanesi lettere firmate dai capi partigiani. Lettere minatorie; come quella portata da Fiamma all'Ospedale di Vialba, oggi ospedale Sacco, nella quale il commissario Francisco, della 183esima Brigata, minacciava il direttore generale del sanatorio per il suo rifiuto di prestare cure ai reduci italiani dalla Russia, poiché essi erano ormai per i fascisti "gente che non serviva, inadatta a essere carne per i cannoni".
Quella fu la prima volta che Fiamma si lasciò truccare. Aveva diciannove anni e non si era mai messa il rossetto sulle labbra. Rifiutava di indossare abiti che la relegassero a un qualche ruolo seduttivo delle donne. Ma quella mattina le fecero indossare delle calze nere. Le diedero una bicicletta da donna, poiché lei usava sempre quella di suo fratello e "non sarebbe stato bello arrivare al presidio tedesco, in una piazza, con il sedere per aria". Ci arrivò, invece, sfoderando un sorriso allo stesso modo di un'arma, "salutando in perfetto tedesco i nazisti là fuori". Entrò nell'ufficio facendo "schioccare i piedi sul pavimento al momento del saluto fascista". Consegnò la lettera al segretario precisando che era per il direttore sanitario e che era urgente fargliela avere. Quindi, "sempre con un bel sorriso ricambiato dai presenti", riprese la bicicletta e volò via, verso l'Alfa Romeo, dove era iniziata la sua storia di giovane partigiana milanese.
Era stato infatti in quella fabbrica, adibita all'industria bellica dal regime fascista, che nel 1941 Antonietta Romano era entrata con altre ragazze a lavorare "per la Patria, per il Duce e per il Re", in sostituzione degli uomini chiamati alle armi. Aveva sedici anni e di questo era persuasa, di dover fare il suo dovere per l'Italia fascista. Ma non ci volle molto, fra la traduzione di un telegramma dal tedesco all'italiano e l'intensificarsi degli avvenimenti, perché lei comprendesse che cosa in realtà fosse quella patria la cui idea aveva coltivato nell'aula dell'Istituto tecnico commerciale Pietro Verri, che doveva frequentare in divisa fascista come tutte le sue compagne.
Poi venne l'incontro, all'interno della fabbrica, con una segretaria di direzione già collegata con la Resistenza. E Antonietta scelse il suo nome, Fiamma. Entrò in uno di quei gruppi antifascisti che venivano chiamati "cellula", fece parte dei Comitati di difesa della donna e del Movimento dei cattolici comunisti. La sua tessera di riconoscimento era quella della 111cesima Brigata Garibaldi delle S.A.P., le squadre di azione partigiane.
In fabbrica gli operai venivano costretti a produrre sempre di più. Quando suonava l'allarme essi non potevano neanche allontanarsi per correre nei rifugi a ripararsi dai bombardamenti e dalla paura. Il cibo della mensa aziendale era sempre più ridotto. E la paga era diventata solo un acconto su un salario non più concesso. "Quando le maestranze reclamavano e fermavano il lavoro, quelli che erano considerati agitatori scomparivano, e ai familiari, che piangendo andavano in direzione a chiedere notizie, si rispondeva che erano stati mandati in trincea in prima linea. Solo dopo si seppe che erano stati deportati nei campi di sterminio di Mauthausen e Gusen".
Fiamma vide tutto questo, e fece la sua parte da allora sino alla fine. Si diede al volantinaggio antifascista; raccolse il siero antivipera e indumenti di lana e denaro per i partigiani della montagna; scriveva a quei partigiani "lettere di sostegno morale"; portava ai fascisti "le lettere minatorie fornite dalla cellula Curiel e da altri commissari"; andava "nelle case di ringhiera o nelle mense aziendali della Pirelli e della Falck o dell'Azienda tramviaria, scortata dai gappisti, a parlare e a preparare le persone alla lotta".
Quando, la mattina del 25 aprile 1945, iniziò anche per lei "l'opera di staffetta portaordini", Fiamma ebbe la sua tessera di riconoscimento dal C.N.L., prese ancora una volta la sua bicicletta e andò nelle zone a lei assegnate "a riferire al Comando quali erano i punti in cui ancora si sparava, Quarto Oggiaro, Porta Volta, Porta Garibaldi". Entrò nella sua fabbrica "con il tricolore al braccio". Un uomo la rimproverò perché, le diceva, avrebbe dovuto aspettare gli ordini della responsabile delle donne partigiane dell'Alfa. Non sapeva, quell'uomo, che quella responsabile era proprio lei: Antonietta, nome di battaglia Fiamma.
Fiamma che ancora oggi corre da una scuola all'altra - è in pensione come insegnante di matematica - a parlare della Resistenza; perché, come dice la sua nipotina Veronica in una poesia, "quel grande libro dobbiamo scriverlo nella mente e tramandarlo, per far sì che resti scritto nella nostra storia"...
...Pina Spataro era in quarta ginnasio quando, nel '43, dovette abbandonare con la famiglia la sua città, Reggio Calabria, per sfuggire ai bombardamenti. Rimase tre mesi a Foligno, in Umbria. Continuava a studiare per gli esami di quinta ginnasio. La seguiva un professore antifascista dell'Università di Firenze. "E non è un caso - lei dice- che poi ho preso Filosofia all'università, avevo già letto tutti i dialoghi di Platone".
"I tedeschi andavano e venivano. Dopo l'8 settembre la Germania aveva bisogno di uomini per far funzionare le industrie. Allora vi fu la fuga di moltissimi giovani per nascondersi, per non andare a lavorare in Germania verso l'ignoto ma, semmai, in montagna con i partigiani".
Pina era "obbligata a riflettere". Suo zio era capodeposito delle ferrovie. Pina andava alla stazione. Un giorno vide lei stessa "uno di quei treni". Lei stava mangiando un panino con qualcosa dentro. Qualcuno chiese un po' di cibo da una feritoia. Lei fece per avvicinarsi. Un tedesco la spinse via con il fucile spianato. Un'altra volta si trovò davanti a una pattuglia tedesca. E allora lei, figlia di un socialista, cantò: "Bastone tedesco non doma l'Italia". Pina seguiva attraverso la radio e i giornali le vicende. Poiché neanche a Foligno si era al riparo dai bombardamenti, fu un granaio di campagna di alcuni amici di famiglia il suo nuovo rifugio, dove non smettere di studiare e di pensare.
Dopo la conquista da parte degli Alleati, la via del ritorno al Sud fu fatta da Pina e dai suoi su un camion scoperto, dal quale lei poteva vedere le spaventose immagini della guerra, tremare ancora per i bombardamenti dei tedeschi a Napoli. Da Gioia Tauro fino a Reggio, poi, il viaggio durò tre giorni, e fu fatto su un carretto trascinato da un asino che era un privilegio, "perché quasi tutti andavano a piedi". A Reggio Pina trovò le macerie che aveva lasciato "quando aveva camminato sui cadaveri". Il 25 aprile anche laggiù si esplose nella festa "per la liberazione dall'incubo della guerra; anche se il Sud non potè vivere in diretta la Resistenza del Nord Italia e se la rivolta di Napoli la fecero gli scugnizzi; anche se, a Reggio, molti gerarchi fascisti erano diventati all'improvviso comunisti".
Ma era stata Resistenza, per la ragazza Pina, anche ascoltare nella sua città Radio Londra; anche reagire con queste parole: "Farebbero meglio a farci studiare", quando il duce teneva discorsi al Paese e a scuola si era costretti ad ascoltarli; anche dirle, quelle parole, sotto gli sguardi minacciosi delle figlie dei gerarchi. Ed era stata Resistenza, per Pina, anche quel bando dei giornalai della città durante il fascismo: "Il Tempo! Il Popolo d'Italia! La-Tri-buna!", con quello scandire le sillabe "la-tri", che in calabrese formano la parola ladri. Era stata Resistenza, il cui valore consegnare ai suoi studenti in quarantacinque anni di insegnamento, anche "quel pezzo di pane che non ho potuto dare a un ebreo che me lo chiedeva dalla feritoia di un vagone piombato". Quel pezzo di pane dato poi, in tutti questi anni, con la testimonianza e la memoria...
...su quegli anni ha scritto un libro, Felicia Ziparo Lacava. S'intitola Cantavamo Lili Marlene. Poco prima dell'arrivo degli Alleati suo padre aveva trovato a Serrata, in provincia di Catanzaro, "una caverna per nascondere tutte le ragazze, poiché temevamo lo stupro da parte delle truppe marocchine, di cui ci erano arrivate voci, e anche la ritirata dei tedeschi e la loro reazione". Così i reggini si prepararono a "un'ondata di nemici, americani o tedeschi", e sfollarono tutti "nei paesini o in campagna". I tedeschi si ritirarono invece tagliando i ponti e le ferrovie e "senza dare fastidio ai civili. Non erano SS".
I tedeschi a Reggio Calabria c'erano già prima che l'Italia entrasse in guerra, poiché avevano fatto della città una piazzaforte per il loro esercito verso l'Africa. Felicia abitava in piazza Sant'Agostino, vicino al distretto militare. Rideva al mattino quando vedeva i tedeschi partire dal loro presidio per i rifornimenti in città. La facevano ridere "la loro disciplina, le loro mosse". Lei aveva fiducia che Mussolini non entrasse in guerra. Ma la campagna d'Etiopia aveva già fatto maturare nella sua coscienza e in quella dei suoi concittadini l'antifascismo. Già allora "la popolazione reggina era piombata nella miseria, si era dovuto fare ricorso alle scarpe di cartone, al mercato nero. E poi i fascisti non si rassegnarono e ripresero a illudere il popolo con la campagna di Spagna".
Il padre di Felicia, Alberto, era un funzionario delle ferrovie. Era antifascista ma aveva accettato di indossare la divisa fascista per sfamare la sua famiglia. Si definiva "un milite involontario nella milizia volontaria". L'ingegnere Strologo lavorava con lui a un progetto per la ferrovia in collina, che liberasse la costa dai binari. Una sera avevano lavorato fino a tardi. La mattina dopo Alberto Zipora non vide più il suo compagno ebreo. Era sparito. Lo avevano preso. Quando Alberto lesse Il Manifesto della razza capì; restituì la divisa fascista. "L'indifferenza uccide", disse.
Il marito di Felicia, Vincenzo, era stato mandato in Russia. "Tornò e si mise con i partigiani, un gruppo di reggini nascosti nell'appartamento di un geraca fuggito in Svizzera". Felicia lo dava per morto. In un altro dei paesini dove rimase in attesa della fine della guerra, Cannitello, vide soldati che, dopo l'8 settembre, cercavano di tornare a casa, in Sicilia. Gli sfollati accorrevano a dar loro pezze, stracci per avvolgersi i piedi insanguinati. E quei soldati compravano barche sulla spiaggia. La Sicilia era così vicina che sembrava di poterla toccare con un dito in quel punto dello Stretto. Essi volevano attraversarlo subito. Ma alcuni naufragavano. E di notte Felicia li sentiva gridare aiuto. "Erano grida strazianti, in mezzo alle correnti del mare".
Quando Felicia tornò in città a casa sua "c'erano solo i muri". Era contenta perché il colonnello Poletti delle truppe alleate aveva fatto riaprire l'Università di Messina. Questa era già stata per lei la Liberazione, prima ancora del 25 aprile. Ma bisogna festeggiarlo, il 25 aprile, per ricordare tutti insieme che cosa è stata la guerra. "La guerra che è una cosa feroce che continua per la produzione di armi", dice adesso Felicia...
Lo avrai,
camerata Kesselring,
il monumento che pretendi da noi italiani,
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio;
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità;
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono;
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire,
ma soltanto col silenzio del torturati,
più duro d'ogni macigno.
Soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi,
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio,
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade, se vorrai tornare,
ai nostri posti ci ritroverai:
morti e vivi collo stesso impegno,
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama,
ora e sempre,
RESISTENZA
Piero Calamandrei
Piccola chiosa da moralista fuori dal tempo
Trovo che la strumentalizzazione di date “preziose” quali l’8 Settembre o il 25 Aprile, da parte di un ex comico ormai persino incapace di far ridere, a puri fini di marketing, sia un fatto blasfemo, osceno, che dovrebbe far riflettere non solo le teste d’uovo che l’anno scorso, dopo il primo V-Day, si sono precipitate in tutti i talk-shows per esaltare il grillismo e l’antipolitica (da Veltri a Di Pietro, da Beha a Pardi, daTravaglio a De Magistris, a D’Arcais ed altri), ma anche – ed è la cosa che mi interessa di più – i tanti giovani che per ignoranza della storia, o perché andare in piazza a gridare in coro vaffanculo è più divertente e meno faticoso che fare politica (quella vera, fatta di lotte, sudore e merda), si sono lasciati entusiasticamente inquadrare nelle falangi che gridano vaffanculo ad un cenno del capo-claque, e poi tornano felici a casa, pacificati con la propria coscienza, convinti di aver fatto politica. Tafanus
Grillo, Vaffanculo!
OGGI E SEMPRE RESISTENZA
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L'immagine promozionale del V2-Day è stata fornita da Claudio R.
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