Dunque, nel 1994 il Partito di Plastica vince le elezioni. Il problema del conflitto d’interessi (che doveva essere risolto nei fatidici primi 100 giorni) viene regolarmente accantonato. Vince con due coalizioni distinte, anzi opposte: una al Nord con la Lega razzista e separatista, una al sud coi fascisti razzisti ma nazionalisti.
In campagna, i fascisti avevano giurato: “mai con la Lega”. I leghisti, più colti, avevano scolpito: “mai con la porcilaia fascista". E tuttavia, appena vinte le elezioni, ovviamente si sono messi allegramente insieme (ah… la forza di poltrone e strapuntini… quelli che “Roma Ladrona” si accomodano nell’auto blu, e vanno al Gilda insieme alla porcilaia fascista). La “gioiosa macchina da guerra” è sconfitta. Oltre a Mediaset, in un battibaleno il nano conquista militarmente anche la RAI, di cui a sinistra lascia solo RaiTre (ma non tutta, perché i TG Regionali – una “force de frappe” di 600 giornalisti” – viene consegnata a Vigorelli, un giornalista talmente obiettivo, che entra a Saxa Rubra trionfante, avvolto nella bandiera di Forza Italia).
Però, per fortuna, i fascisti ed i leghisti provengono da un periodo di astinenza troppo lungo, e l’ingordigia li fotte. A sei mesi dalla conquista del palazzo d’inverno, vanno in crisi. D’Alema complotta con Bossi e Buttiglione, ed il Cipria 1° cade, sostituito da quello che doveva essere un governo tecnico guidato dalla “risorsa del Paese”, Lambertow Dini. Ma Lambertow, come gli negli anni successivi si capirà bene, è essenzialmente una risorsa per se stesso. Anziché restare al governo per il tempo strettamente necessario a risolvere i problemi del conflitto d’interessi e le altre urgenze, e portare il paese alle urne, si abbarbica alla poltrona, e riusce a restarci abbarbicato fino al 1996. Grande errore quello di D’Alema: QUELLA destra non doveva essere fatta cadere; doveva essere costretta a governare per 5 anni. Dovevamo dare il tempo a Berlusconi di far capire agli italiani chi fosse veramente. Dovevamo dar tempo alla teoria montanelliana: “solo Berlusconi può salvare gli italiani da Berlusconi, consentendo loro di sviluppare gli anticorpi”. Purtroppo sei mesi non sono bastati. Avremmo dovuto lasciarli implodere, o quantomeno avremmo dovuto lasciare a loro il privilegio di fare le finanziarie “lacrime e sangue” che nella successiva legislatura (Prodi – D’Alema – Amato) abbiamo dovuto fare noi per riportare il paese entro i parametri di Maastricht, ed a raggiungere il salvifico ingresso nell’area dell’euro, senza il quale oggi saremmo, indubbiamente, la più avanzata economia del Nord-Africa.
Nel ’94, in seguito alla sconfitta della “gioiosa macchina da guerra”, Occhetto lascia la segreteria del PDS, che passa a D’Alema, in barba al desiderio del “popolo dei fax”, che aveva invece espresso la preferenza per Veltroni. La terrà fino al ’98, quando diventerà Presidente del Consiglio.
Dunque nel 1996 l’Ulivo, guidato da Romano Prodi, alleato a Rifondazione attraverso accordi di desistenza reciproca, vince le elezioni. La gioia durerà poco. Il virus dell’autolesionismo è sempre in agguato. Rifondazione Comunista, nel 1998, sfiducia Prodi, reo di non aver sposato il progetto delle “35 ore”. Il progetto, nel paese occidentale che arranca in termini di produttività negli ultimi posti in Europa, è folle, tanto che è in via di abbandono persino nella Francia che lo aveva sposato. Ma tant’è, Bertinotti è un uomo del prendere o lasciare, e fa cadere il governo Prodi. Dal voto di sfiducia si dissociano Cossutta, Diliberto ed altri, che daranno vita all’ennesima scissione a sinistra (una delle poche, nella lunga storia di scissioni, che forse abbia avuto un senso). Fonderanno il PdCI – segretario Diliberto – che porterà via a RC circa metà dei parlamentari e degli elettori. Alla Presidenza del Consiglio andrà D’Alema, con due diversi governi, dal 1998 al 2000, anno nel quale si dimetterà per aver perso 7 a 8 le elezioni regionali. In effetti, io credo che D’Alema si sia dimesso perché stufo si sentirsi accusare velatamente di aver favorito la crisi del governo Prodi, e di sentirsi dire che era un presidente non legittimato dal voto popolare (anche se l’Italia non aveva mai smesso di essere una Repubblica Parlamentare, e non era ancora diventata, se non nei desideri e nei volantini della destra, una repubblica presidenziale). Nel 2000 a D’Alema subentra Giuliano Amato fino al 2001, anno delle nuove elezioni.
Sia il governo Prodi che quelli di D’Alema e Amato sono stati costretti a fare finanziarie “lacrime e sangue”, sotto la regia di Ciampi, al fine di entrare nell’Europa che conta. L’ingresso nell’area euro ha fatto crollare di oltre 400 punti base il costo del servizio del debito pubblico. Stiamo parlando di oltre 100.000 miliardi di lire all’anno di risparmi strutturali. Senza questi risultati ottenuti, pur fra liti e scissioni, dai governi 1996-2001, l’Italia sarebbe piombata nel terzo mondo. Non siamo stati capaci di dirlo. O non abbiamo avuto i media per dirlo. O non abbiamo avuto la capacità comunicativa necessaria per convincere la gente. Fatto sta che l’euro, la grande conquista dei governi di centro-sinistra, è stato venduto dalla destra come l’origine di tutti i mali. Come sia stata trattata la materia “euro” dal governo di centro-destra che vincerà le elezioni del 2001 è cosa nota. Mai per un attimo si sono stancati di sottolineare i sacrifici richiesti agli italiani. Ma mai per una volta si è parlato, nelle TV militarizzate, dei risparmi che l’ingresso nell’area euro aveva fatto fare all’Italia, il paese più indebitato del mondo occidentale.
Sulla vittoria berlusconiana del 2001, lasciamo la parola a parti significative dell’editoriale di Ezio Mauro del 15 Maggio 2001 su "Repubblica":
SILVIO Berlusconi ha vinto le elezioni. Diciamo subito che si tratta di una vittoria piena e legittima, avvenuta dopo una campagna aspra ma pienamente regolare, e conquistata in una giornata (e una nottata) elettorale dominata da un caos tecnico nei seggi che è stato scandaloso. E' un vero e proprio "cambio", qualcosa di più di un' alternanza tra destra e sinistra alla guida di una grande democrazia occidentale, com'è avvenuto e avviene in tutt'Europa. Viene sconfitta una classe dirigente che nell'insieme governa il Paese dal 1995, che ha risanato l'economia e che soprattutto ha portato l'Italia nell'Euro, lavorando in stretto rapporto con quel riformismo europeo (la socialdemocrazia tedesca, il socialismo francese, il laburismo inglese) che sembrava fino ad oggi la cultura politica continentale più adatta per coniugare rigore e sviluppo, crescita ed equità.
Torna al potere per la seconda volta la destra berlusconiana, che nel '94 tenne la guida del Paese per sette mesi appena. Berlusconi, che ha costruito se stesso nella mitologia del comando e nella leggenda dell'invulnerabilità, ha in realtà il merito di aver attraversato il deserto dell'opposizione per cinque anni. E l'ha saputo fare irrobustendo giorno dopo giorno il suo partito (dalla plastica all'acciaio e rafforzando intanto la presa totale sulla sua coalizione, fino a presentarsi ai suoi elettori come leader unico e indiscusso. Per lui, per la sua cultura e per la disperazione politica imprigionata nella lunga opposizione, la data di oggi non è soltanto quella della conquista di una maggioranza di governo, come avviene normalmente nelle alternanze occidentali: è la data della presa del potere, l'anno-zero, l'avvio di un'epoca "rivoluzionaria". Ecco perché siamo davanti a un "cambio", e non ad un semplice passaggio di consegne tra una sinistra uscente e una destra subentrante. Il "cambio", o almeno il cambiamento, è con ogni evidenza ciò che volevano gli italiani.
Più che nei suoi programmi, nei progetti o nelle proposte di governo, Berlusconi rappresenta antropologicamente, biograficamente, addirittura biologicamente un'altra Italia, che vuole impetuosamente "fare", ma chiede di fare da sé, escludendo insieme lo Stato e il senso dello Stato, pur di pagare meno tasse e soprattutto pur di non avere più regole. Ecco, se cercassimo una definizione di fondo del fenomeno venuto alla luce con il voto, dovremmo parlare di un Paese "sregolato", tumultuosamente vitale ma privo di un baricentro civico, senza più una comune identità civile, pronto a lasciarsi comandare pur di non farsi carico di responsabilità collettive, impegni condivisi, parametri comuni.
Un Paese di individui che chiedono di crescere, certamente, ma ognuno per sé e secondo i suoi comodi, delegando al primo tra tutti - ma uguale tra i tanti - di pensare allo Stato, mettendolo in riga: e dunque modernizzandolo, snellendolo, sveltendolo, ma perché poi una volta fatto snello, moderno e più svelto, possa farsi da parte, e non intralciare il cammino di chi ha da fare. Questo spirito dei tempi, mezzo imprenditoriale (negli istinti), mezzo privatistico (nella cultura) non so bene se sia stato da Berlusconi interpretato a perfezione, oppure suscitato e coltivato con cura. Fatto sta che il leader della destra ne è oggi l'interprete e il padrone, il domatore e l'impresario […]
Ha avuto il voto, che gli basta per governare - e in democrazia potremmo fermarci qui, perché è ciò che conta. C'è un vincitore alle elezioni, ed è un vincitore chiaro e netto, con tutto lo spazio elettorale per governare. Ma il moderno populista non ha avuto il plebiscito che cercava. Anzi. Se guardiamo da vicino il voto per il Senato, ci accorgiamo che la Casa delle libertà ha conquistato ieri circa due milioni di voti in meno di quanti ne raccolsero il Polo e la Lega nel 1996 (che allora correvano separati), mentre l'Ulivo più Rifondazione comunista (che cinque anni fa erano collegati) hanno totalizzato oggi seicentomila voti in più del '96: e ciò che più conta, mezzo milione di voti più della destra berlusconiana. Se ne deduce che se l'Ulivo e Rifondazione fossero stati uniti contro la destra, avrebbero raccolto al Senato il 43,7 per cento dei voti, contro il 42,5 della Casa delle libertà.
La responsabilità politica di Bertinotti, che con l'inseguimento folle, egoista e inutile dei suoi due senatori ha regalato il Senato e dunque la presidenza del Consiglio a Berlusconi, è di tutta evidenza. Dev'essere per questo che il leader di Rifondazione ieri si è presentato nel suo salotto abituale e preferito, "Porta a Porta", in uno stato di evidente sovreccitazione, anche motoria, e ha attaccato "Repubblica" in anticipo, accusandola - proprio lui - di "stalinismo". Spente le telecamere, e in attesa di una nuova comparsata da Vespa, il leader può calmarsi, visto che è riuscito ad avverare il suo triplice sogno: Berlusconi al potere incarnando il fantasma della destra, Bertinotti in piazza con le bandiere rosse perdenti ma alte, e il riformismo - il vero nemico di Fausto - sconfitto e battuto, con la sinistra di governo all'opposizione.
E tuttavia, persino Bertinotti dovrà riflettere sul voto, insieme con tutta la sinistra e addirittura col Cavaliere. C'è mezzo Paese (nel voto per il Senato è la netta maggioranza, se a Ulivo e Rifondazione si somma il 3,4 di Di Pietro) che non accetta di consegnarsi a Berlusconi. Per la sciagurata incapacità politica dei suoi rappresentanti, questo mezzo Paese o poco più non ha saputo raccogliere le sue differenze in uno schieramento plurale, capace di opporsi con successo al Cavaliere. Ma da qui bisognerà per forza di cose ripartire. Salvo che nella sinistra non prevalga l'istinto fratricida e il cupio dissolvi che l'ha governata e posseduta con successo per cinque anni, vanificando nell'opinione pubblica i buoni risultati ottenuti dai governi Prodi, D'Alema, Amato […]
Io penso che la creazione di una solida "seconda gamba" dell'Ulivo sia un risultato positivo, perché la sinistra da sola non può vincere. Nello stesso tempo, senza la sinistra il centro non vince. Credo anche che la sinistra debba ricostruire se stessa, perché i Ds hanno ottenuto un risultato molto deludente con il loro 16,6 per cento, frutto di un logoramento costante dell'elettorato ex comunista, ma anche della straordinaria e spettacolare mancanza di una leadership visibile in questa campagna elettorale, con Veltroni impegnato nella battaglia per il Campidoglio, D'Alema rinchiuso a Gallipoli nella lotta per difendere il suo seggio, Fassino impegnato a giocare tutte le sue carte per l'Ulivo (non per il partito) a sostegno leale di Rutelli […]
(Continua)
SOCIAL
Follow @Tafanus