STRATEGIA DELLA TENSIONE - Medaglia al disonore - Gli elogi dei giudici al capitano Delfino che indagò sulla strage di Brescia. E che ora è a processo per aver contribuito a organizzarla. Una pagina choc sull'Italia delle trame
di Alfonso Contrera - L'Espresso
A Francesco Delfino, "comandante del nucleo investigativo, dato atto della tenacia nella ricerca della verità, vanno riconosciuti l'intuito di avere individuato l'esatta direzione dell'indagine". È un documento inedito, spuntato dagli scaffali dell'Archivio di Stato di Roma. Porta la data del 23 giugno 1975: un anno prima a Brescia in piazza della Loggia una bomba era esplosa durante una manifestazione antifascista provocando otto morti e 94 feriti. Quell'encomio è firmato da tutti i magistrati che condussero l'istruttoria. Elogiano l'ufficiale dei carabinieri che guidò la prima inchiesta, invocandone formalmente la promozione. Un attestato paradossale: oggi Delfino è stato rinviato a giudizio proprio per quell'eccidio. L'accusa contro di lui non è solo quella di avere depistato le indagini, ma anche di essere stato parte del disegno che ha organizzato il massacro: è imputato di concorso in strage. A chiedere e ottenere il processo sono stati i magistrati bresciani che occupano gli uffici dove 23 anni fa venne stilato l'encomio agiografico. Nel documento del 1975, recuperato da 'L'espresso' nell'archivio centrale di Stato, si loda invece "l'intelligenza, l'acutezza, la prontezza e lo stile con i quali Delfino ha sempre operato a fianco degli inquirenti, quale collaboratore fedele e discreto capace di apprezzare difficili situazioni affrontandole con fermezza d'animo e decisione".
La storia del dopoguerra ci ha abituato al capovolgimento di ruoli, a storie di investigatori che finiscono nei guai per un favore di troppo o di uomini dello Stato che si mettono al servizio di altri poteri. Il caso più clamoroso e discusso resta quello di Bruno Contrada, l'ex poliziotto ed ex ufficiale del Sisde condannato per collusioni con la mafia. La parabola di Delfino però riesce a mostrarsi addirittura più sorprendente.
La leggenda dell'ufficiale più decorato dell'Arma nasce in Sardegna nel 1967, durante l'escalation dei sequestri di persona. Figlio di un famoso maresciallo che dava la caccia ai latitanti in Aspromonte, Delfino si impone per la capacità di risolvere situazioni delicate per la credibilità delle istituzioni: sa gestire informatori e infiltrati, garantisce sempre il risultato operativo. A Brescia diventa un protagonista nazionale, con un filo diretto con Roma che gli affida un ruolo chiave nella lotta al terrorismo rosso e nero in Lombardia. Un pentito di 'ndrangheta dichiarò persino che Delfino aveva un suo uomo tra i rapitori di Aldo Moro, senza però fornire riscontri. Poi negli anni Ottanta un lungo periodo di missioni all'estero per conto dell'intelligence e il ritorno in Italia con i gradi di generale. Nel 1992 un altro colpo sensazionale: è l'uomo chiave nell'arresto che porta alla cattura di Totò Riina.
Non sarebbe mai arrivato a tanto senza il 'successo di Brescia', quella pioggia di encomi che adesso riemergono dall'Archivio di Stato: "Con la prontezza, la fermezza, la capacità, la squisitezza dei modi che sono loro congeniali per costume e per tradizione ma che hanno assunto particolare rilievo per una sensibilità che i delitti oggetto dell'indagine hanno acuito, sì che il dovere si attuasse al di là dei limiti della norma, quale espressione di una sofferta partecipazione umana".
Tutto falso, sostengono ora i magistrati: Delfino sapeva la verità su quelle trame e le aveva anche manovrate, pilotando infiltrati e distribuendo esplosivi. Per questo oggi lo accusano, insieme con ordinovisti come Pino Rauti, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e personaggi minori di quel sottobosco di spie e doppiogiochisti che servivano ad alimentare la strategia della tensione. Il colpo finale, in caso di condanna, al capovolgimento di immagine nasce sempre a Brescia, da una vicenda parallela. Nel 1997 viene rapito l'industriale Giuseppe Soffiantini: Delfino si fa consegnare dalla famiglia 800 milioni di lire per una trattativa personale e illegale. L'alto ufficiale viene arrestato, in cella tenta il suicidio. Cerca di difendersi, giustifica le sue azioni e respinge le accuse. Ma si scopre che il figlio di Soffiantini ha sposato la ragazza che nel '74 era stata arrestata da Delfino per la strage. L'allora fidanzatina di un neofascista dilaniato da una bomba in circostanze misteriose era stata convinta dall'allora capitano a firmare rivelazioni che poi aveva ritrattato. Poi 23 anni dopo le loro strade si incontrano di nuovo. E segnano la fine della leggenda.
...si... proprio quel Pino Rauti nostalgico del fascismo, repubblichino non pentito, suocero del mini-struzzo Alemanno (quello tutto low and order). Non trascurate gli sviluppi di questa faccenda: ne vedremo delle belle... (DdR)
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