Avevo poco più di sei anni. Avevo appena iniziato la seconda elementare. Eppure, quella sera la ricordo. Distorta, come in una serie di irreali flash-backs, ma la ricordo...
Eravamo in un paesino della Calabria, nella pre-Sila, sulla statale 18. Ricordo l'accanimento dei grandi nel cercare di carpire qualcosa che non fossero fischi e muggiti dalla nostra Radiomarelli a valvole. Rigorosamente modulazione d'ampiezza. Onde medie per la EIAR, onde corte per Radio Londra, che i grandi ascoltavano con la prudenza dei carbonari.
Ricordo la gioia dei grandi, le lacrime, gli abbracci, quando arrivò quel breve comunicato di pochi secondi. L'annuncio di una sconfitta e di una resa, declamato col tono perentorio (Badoglio quasi peggio di Mussolini) di chi annuncia una grande vittoria. Ma questo lo avrei capito solo anni più tardi.
Di quella sera, all'ora di cena (se si poteva definire cena la sbobba che riuscivamo a mettere insieme), ricordo solo le lacrime di gioia di tutti, e noi bambini che non capivamo. Avevamo solo vagamente afferrato che era finito lo spasso delle sirene, delle fughe nel rifugio antiaereo, dello spettacolo dei duelli aerei durante la notte. Lo spettacolo dei traccianti della contraerea. Il suono sordo delle bombe che facevano a pezzi strade, ponti, ferrovia. Tutto stava per finire, e noi eravamo, beata fanciullezza, molto tristi...
Ricordo mia madre che, con le altre donne del paese, il giorno dopo aveva già iniziato ad attrezzare nella chiesa una sorta di ospedale da campo, dove nei giorni successivi, per la prima volta, bambino, ho iniziato a capire il mistero dell'agonia e della morte, che ha un suo odore acre, insopportabile. Solo dopo, molto tempo dopo, ho capito che in quell'improvvisato ospedale, dove mancava tutto, ed i letti erano costituiti da uno strato di paglia, morivano tedeschi ed italiani, partigiani e fascisti; e le donne del paese accompagnavano tutti, negli ultimi istanti di vita, senza chiedere il passaporto o la tessera di partito.
Poi, da grande, ho iniziato a capire. La vergogna di quell'8 settembre non consisteva in un armistizio che rassomigliava terribilmente ad una resa incondizionata. La vergogna era nel fatto che quel giorno era arrivato troppo tardi. La vergogna era nel fatto che quel giorno fosse arrivato, in assoluto, perchè non avrebbe mai dovuto esserci. Era la fine ingloriosa di una guerra che non avrebbe dovuto mai iniziare. No, quei morti non erano tutti uguali. Chi muore perchè scatena una guerra e la perde, non potrà mai essere assimilato, nella mia etica semplicistica, a chi muore perchè quella guerra non voluta, non cercata, ha subito.
IL PROCLAMA DI BADOGLIO
«Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»
Questa resa chiamata armistizio, letta con voce stentorea da Badoglio, l'ho poi ascoltata mille volte, da adulto, dalle teche RAI. Suona grottesca, come i discorsi di Mussolini, perchè mai viene pronunciata la parola "sconfitta". Vigliacchi ed imbroglioni fino all'ultimo istante.
Nella notte fra l'8 e il 9 Settembre, Re Sciaboletta, Badoglio ed il suo governicchio, erano già in fuga verso Brindisi, dove si sarebbero imbarcati, come ladroni, sulla nave militare "Baionetta".
Omen nomen. Degli "otto milioni di baionette", era rimasta solo questa: non più impiegata per "spezzare le reni" alla perfida Albione e per costruire l'Impero, ma, più modestamente, per salvare le proprie auguste chiappe, lasciando il "valoroso esercito italiano" allo sbando, senza ordini, senza mezzi, senza niente.
Il Giorno dopo, a Roma, soldati italiani non assistiti da nessuno, cercano, presso porta San Paolo, di contrastare i vendicativi soldati tedeschi, incattiviti da sconfitte, fine dei sogni di gloria, tradimento degli italiani.
Il resto è storia fin troppo nota. La Resistenza. La Repubblica Sociale. Piazzale Loreto. La fine ingloriosa di un regime vergognoso, ma anche la fine dell'immagine degli italiani "brava ggente". Non si impiega un ventennio per classificare un regime al tempo stesso comico e tragico come quello di Mussolini, e per iniziare a combatterlo. Gli italiani, prima di essere eroici resistenti, troppo a lungo avevano accettato le pagliacciate tragiche del regime fascista.
Oggi, 8 settembre 2008, ci sono ancora "autorità" dello Stato, come il Primo Cittadino di Roma Alemanno, o come il Generale Ignazzzio La Russa, che mentre Napolitano parla dell'onore ritrovato attraverso la Resistenza, continuano, sia pur tentando di misurare le parole, a difendere l'esperienza fascista e la Republichetta di Salò. Niente di strano, in un paese nel quale il primo ad aprire la porta al "revisionismo morale", prima che storico, è stato tale Luciano Violante, straparlando dei ragazzi di Salò che perseguivano, anche loro, seppure a modo loro, degli ideali.
Ideali sticazzi!
Viva la Resistenza, viva il nostro Umberto. Lui, aveva degli ideali. Ciampi li aveva. Pertini li aveva. Si, lo so. Li aveva anche Pino Rauti. Ma è ora che qualche benpensante alla Sergio Romano esca dal letargo, e spieghi a La Russa, ad Alemanno, a Berlusconi, che erano ideali sbagliati.
Quindi oggi, 1° Anniversario del blasfemo 8 Settembre 2007, giorno nel quale si è strumentalizzata una data sacra e dolorosa della nostra storia, divenga il Vaffanculo-Day di chi ama la libertà.
Vaffanculo Rauti. Vaffanculo Alemanno. Vaffanculo La Russa.
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