di Giorgio Bocca - L'Espresso
Ecco come nasce il potere mediatico di Silvio Berlusconi. E quali sono le conseguenze. 'L'espresso' anticipa un capitolo del nuovo libro di Giorgio Bocca, 'È la stampa, Bellezza!'
Cade il Muro di Berlino, si pensa che abbia vinto la democrazia. Invece ha vinto il mercato, che della democrazia non sopporta né i controlli, né le responsabilità. Silvio Berlusconi è il figlio naturale di questo mutamento. L'ho conosciuto nella sua villa di via Rovani a Milano. Avevo scritto sul 'Giorno' di un palazzinaro, sconosciuto all'alta borghesia cittadina, che era riuscito a deviare gli aerei in partenza da Linate dalla loro rotta naturale verso i laghi e le Prealpi, perché sorvolavano un suo quartiere satellite: Milano 2. Per deviarli aveva costruito un ospedale che non doveva essere disturbato dai sorvoli. All'incontro c'era anche il suo vecchio amico Fedele Confalonieri, che mi aveva ripetuto: "Non preoccuparti, fra te e Silvio c'è il feeling". Silvio era più divertito che irritato: "Volevo proprio conoscerla. Uno lavora per anni a fare una nuova città, a costruirla, convinto di aver fatto qualcosa di importante, e un mattino apre il giornale e scopre che un signor Giorgio Bocca dice che metà del lavoro è sbagliato". Più divertito che irritato.
Lo rividi quando mi chiamò a lavorare a Canale 5, la sua televisione, a partire dal 1983. In una delle prime trasmissioni mi fece intervistare Bettino Craxi, che era il suo protettore, colui che riaccendeva i suoi schermi quando glieli oscuravano. Stavo sulla porta dello studio e Craxi mi passò accanto come in un'eclisse di sole, e mentre ero nel cono d'ombra mormorò: "Come va, professore?", con lo stesso tono con cui aveva chiamato Bobbio 'filosofo dei miei stivali". Silvio salì nella cabina di regia per essere sicuro che seguissero le sue disposizioni. La sera, quando l'intervista fu trasmessa, vidi che mi avevano ripreso solo di nuca, dove si annunciava la calvizie.
Ma la misura piena della sua onnipotenza la ebbi quando volle che lo intervistassi sul tema della libertà di stampa, caro a quelli che la temono. Arrivò nello studio accompagnato da una regista che mi fece spostare per cedere a lui la posizione migliore, un tecnico che coprì i riflettori con delle calze di seta perché la luce fosse morbida, e altri attenti a un suo batter di ciglia. Quell'intervista non venne mai trasmessa. Cosa non gli era piaciuto? A un padrone cosa gli piace o cosa non gli piace non glielo si può chiedere. Il tono disinvolto di alcune domande? Qualche ruga sul suo volto? Insomma un muro di gomma, un silenzio insondabile. Telefonai a tutti in azienda, provai anche con la mitica signora Fatma Ruffini, quella dei quiz e delle fiction, ma tutto fu inutile. Ancora oggi, a distanza di anni, le persone che lavoravano a Canale 5 non hanno saputo o voluto rispondermi.
La televisione di Berlusconi, Hollywood in una periferia milanese, stava fra cascine diroccate, campi di erba tisica e l'impianto di cremazione. A poche centinaia di metri c'erano i capannoni abbandonati dell'Innocenti, e l'Idroscalo, il mare dei poveri, e gli orti dei poveretti che abitano nei quartieri dormitorio. Ma dentro Milano 2, sorvegliata dai vigilantes, dentro gli studios delle televisioni, c'era il mondo che non c'è, della ricchezza, della giovinezza eterna, dell'eleganza che fuori non ci sono. Impiegate, segretarie, attricette, truccatrici, nella Milano 2 si muovevano con sicurezza da diva con le loro minigonne. La paga che prendevano non era diversa da quella delle fabbriche e degli uffici, ma a Milano 2 respiravano il profumo della ricchezza. Le stanze del trucco erano il luogo del miraggio collettivo, manicure appena giunte dalla periferia indossavano camici bianchi e vi restituivano l'eterna gioventù con il cerone, la cipria e le matite morbide. In quel paese dei balocchi sentivi arrivare i rumori di fondo della Milano povera, delle case di ringhiera, dei tram sferraglianti, ma negli studios il miraggio era avvolgente. "Dove vai?", "Vado al trucco". E scendevamo nei laboratori sotterranei del montaggio, dove tutti si sentivano come gli alchimisti della nobile città di Praga, che trasformavano il piombo in oro. Poveracci e ignoranti come prima, ma dentro i pascoli infiniti dell'era tecnologica e della pubblicità.
Un comune sentire passava per gli studi e gli uffici di Milano 2, come una Pentecoste della modernità, anche perché il segno che vi lasciava Silvio, efficiente, mirato a un sicuro profitto, rendeva tutti euforici. Tutto era spedito e semplice. Le aziende dove il padrone c'è le riconosci subito dal giro rapido dei soldi: fai un lavoro, passi alla cassa e ti pagano "sull'unghia", come si dice. Gli impiegati clonati di Publitalia, il settore della pubblicità, stavano in un palazzo vicino, uomini tra i venti e i trent'anni, in doppiopetto blu o grigio, proibiti il verde e il marrone, la valigetta ventiquattrore piatta, camminavano per i corridoi appaiati come i carabinieri, niente mani sudate, niente alito cattivo, mai e poi mai che sapesse di aglio, l'odore odiato da Silvio.
Una volta Guglielmo Zucconi e io fummo invitati a una convention, una delle autocelebrazioni del gruppo. Gli uomini dell'organizzazione ci lasciarono in un camerino con l'ordine di servizio: ore 16.30 trucco, ore 17 ristoro, ore 17.30 convocazione sul palco. Puntuali alle 16.30 entrarono nel camerino le truccatrici con il cerone e le ciprie, e oggi che Silvio è presente in tutti i palazzi del potere non so se ridere o piangere di fronte a questo totalitarismo che non ti uccide ma ti trucca, e ti ordina i doppi petti blu o neri, mai marroni o verdi. Zucconi e io preparavamo il telegiornale che veniva rimandato a tempo indeterminato. Era lavorare come per finta, ed essere pagati per fare niente ci dava un lieve stordimento. Era questo il futuro? Alla convention Silvio parlò e recitò per più di un'ora, facendo roteare il filo del microfono portatile come un lazo che ci stava legando.
A Milano 2 c'era un club chiamato Sporting, come nel Principato di Monaco o a Santa Monica. Ci andai a pranzo con Silvio e con Freccero, uno che allora aveva fama di mago del palinsesto. Entrambi indossavano una giacca blu con bottoni d'oro e cravatte regimental. Uno dei due mi disse che dovevo imparare a "forare lo schermo".
Un'altra sera Silvio m'invita a villa Casati ad Arcore. Mi chiede se voglio fare quattro passi nel parco. Camminiamo su un prato di erba soffice come una coperta di cachemire, ci sono aiuole di fiori rossi, gialli e blu, ben curate, c'è una piscina di acqua azzurra, c'è un recinto dove pascolano i caprioli. Andiamo per il parco senza fine, che supera con un sottopassaggio la strada provinciale, e arriva fino al Lambro. A Silvio piace la scultura di Pietro Cascella. Ci sono immani obelischi bianchi in mezzo ai prati, sormontati da ruote di mola. Mi porta nel sacrario della famiglia, in un edificio in granito bianco su cui Cascella ha composto, in apparente disordine, sfere, punte di lancia, compassi, incudini, come nella Selinunte terremotata. Uno scalone di granito bianco scende nelle cappelle del sepolcreto, dove già riposa il padre di Berlusconi. "Non sapevo che fosse permessa la sepoltura fuori dai cimiteri", gli dico. Non risponde, si avvicina alla porta chiusa della cappella, fa un gesto circolare con la mano: "Lì ci sarà il cerchio dell'amicizia: ho già scelto i posti per Confalonieri, per Dell'Utri". Questa sera ceneremo soli lui e io. Sullo spiazzo coperto di ghiaia pulita ci sono i tendoni e le poltrone rosa per la siesta del pomeriggio o l'aperitivo, le luci delle finestre e dei saloni sono un po' technicolor. Silvio è uomo di teatro, lui non parla ai suoi manager, ai suoi dipendenti, recita come i veri attori. Prendere o lasciare. Andiamo nella sala da pranzo, c'è una grande finestra che dà su una enorme aiuola di fiori rossi. Anche il tavolo è enorme, lui da una parte, io dall'altra, fra noi candelieri d'argento e un vaso di margherite gialle e blu. Il discorso arriva su Carlo Caracciolo, il vero nemico di Silvio, che non lo chiama mai per nome, ma sempre 'il Principe'.
"Ma perché ti preoccupi tanto di lui?".
Il volto di Silvio s'incupisce. In quella un cameriere arriva con il telefono e un promemoria. "Scusa", dice Silvio, "ma mi chiamano alle 10.10 dalla Franco Costa dove ci sono i dirigenti e i quadri della Standa in crociera". E spiega: "Improvviserò a braccio. Ne conosci un altro tra gli imprenditori che possano improvvisare a braccio per un'ora, un'ora e mezza senza farsi preparare il discorso da un negro? Ieri ho parlato per un'ora alla presentazione del 'Principe' di Machiavelli".
"E quelli del 'Cuore' ti hanno dedicato un quaderno con una vignetta spiritosa".
"Sì, molto spiritosa, io seduto ascolto il mio segretario che dice 'Berlusconi, adesso che lei è l'editore della Mondadori e dell'Einaudi, bisogna che impari a leggere'. Spiritosa, solo che non la capisco. Mi sono laureato con il massimo dei voti, faccio delle buone letture, dirigo delle grandi aziende".
Squilla il telefono, sono quelli della Standa, Berlusconi dice: "Vi ringrazio tutti, e vi vedo, siete belli, siete abbronzati, siete felici. Ho detto ai miei amici di prepararmi lo smoking per la prossima crociera, non mancherò. So che tra di voi c'è il mio vecchio amico Smaila. Attente belle signore, che lui vi porta allo spogliarello di 'Colpogrosso'. Siete abbronzati, siete belli, e ora quando tornerete avrete un'altra giornata di vacanza pagata". Lo smoking è pronto, alla prossima crociera Silvio non mancherà, e magari accompagnato al piano da Fedele Confalonieri canterà 'La vie en rose', come ai bei tempi in cui andava in tournée. Tutto avrei immaginato allora, meno che avrei ritrovato Silvio capo del governo e padrone dell'informazione.
Mi ha detto Fedele Confalonieri: "Quando Silvio decise di scendere in campo con Forza Italia, la nostra alternativa era di finire in galera come ladri o come mafiosi". Marcello Dell'Utri ricorda: "Che facciamo?", gli chiesi. "Facciamo un partito", disse lui. "Ma come lo facciamo un partito?". "Lo fanno tutti, lo facciamo anche noi"...
(...) Il conflitto d'interessi di Silvio Berlusconi fra politica e azienda è così macroscopico da confondersi con la normalità, ma è la norma, in tutti i paesi i conflitti d'interessi delle mega aziende hanno fatto scempio di ogni etica del capitalismo, la grande finanza è una giungla che divora anche i suoi figli. Il nostro Piccolo Cesare a volte dà nel comico, ma quella su cui galleggia è una forza enorme e dissennata. Ecco perché non ha senso dire che il suo è un 'regime che non c'è'. C'è eccome, come progressiva liquidazione della democrazia, dei suoi diritti, della sua libertà. Ha fatto il giro del mondo una fotografia in cui il capo del nostro governo, in una riunione dei governanti europei, faceva le corna sulla testa di un collega spagnolo. "Per far ridere un bambino", ha detto, "per mettere un po' di allegria nel cerimoniale". Ma non era un gesto casuale, era un gesto da commesso viaggiatore, per essere simpatico, volgare ma popolare. "Mi consenta" è uno degli intercalari preferiti di Silvio, e tutti sanno che vuol dire: "Mi consenta di fare e dire quello che voglio". In tutte le case del nuovo industrialismo si ascoltano le barzellette sessuali, le ripetizioni sessuali che nei film americani sono ossessive, i 'vaffan', i 'fotti tua sorella', come un suono di fondo, come il battito di un cuore violento e ottuso. Ora che è in politica Silvio sembra attirato da un gallismo goliardico, loda le belle gambe delle delegate a un congresso, premia un atleta e sospira: "Ah, tu sei giovane e bello, hai tutte le donne che vuoi", non si vergogna dei suoi vizi, che sono diventati virtù, modelli delle masse...
(...) In fatto di televisione non consente oppositori: "Per me è inconcepibile che la televisione di Stato sia contraria al capo del governo". E ignora l'abc della democrazia, che lo Stato non è la stessa cosa del governo, e che il governo non è al di sopra delle autonomie costituzionali. Il regime in Italia non c'è, ma il capo del governo ignora la Costituzione, può nominare il consiglio di amministrazione della Rai, licenziare i giornalisti sgraditi, aggiungendo, nello stile del "qui lo dico, qui lo nego", che nella sua richiesta non c'era nulla di personale. Nel coro degli assensi si poteva cogliere la voce del ministro Urbani: "Tanto più grandi sono gli interessi privati del presidente del Consiglio, tanto più sono facilmente visibili e controllabili".
Ogni mattina vediamo un mondo più spostato a destra, gli ex fascisti alla presidenza della Camera e nei ministeri, fotografati e intervistati, raggianti. La svolta di quelli che fanno i giornali è stata superiore alle più avvilenti previsioni, spazio sempre maggiore è stato concesso al revisionismo, in pratica alla diffamazione della Resistenza. Direttori e capiredattori, nei quotidiani e nei settimanali, si sono rimandati il pallone della controriforma. Negli anni di Gobetti e di Amendola c'era il rischio di farsi ammazzare dai manganelli fascisti. Adesso le armi del nuovo padrone sono meno rozze e più persuasive: lui ha il controllo della pubblicità, che è lo spirito santo del mercato. E c'è lo Stato, che vuol sempre dire il controllo del 50 per cento della spesa. E alle spalle di tutti, come sempre nelle svolte autoritarie, c'è la necessità storica. In questo caso il capitalismo globale. Forza Italia, il partito di raccolta della restaurazione, non ha ereditato la dottrina sociale della Chiesa. Il 47 per cento degli iscritti non ha un titolo di studio superiore a quello elementare, il 68 per cento si riconosce nella cultura pubblicitaria e consumistica. Non assomiglia neppure al fascismo e al suo socialismo ripudiato ma non cancellato. Si presenta come il partito del fare, della libera impresa, della democrazia, ma dietro c'è la voglia di impadronirsi dello Stato, distruggerlo, di fare a pezzi la giustizia, il sindacato, la scuola, l'informazione: tutto...
(...) La povertà culturale del berlusconismo non dà fastidio alla borghesia dei buoni affari, non disturba un'alleanza di potere così stupefatta di essere maggioritaria e di essersi ritrovata nelle mani la gestione dello Stato, che non perde certo tempo nelle autocritiche e nei distinguo: tutti insieme appassionatamente alla greppia. Nell'età tecnico-industriale, il mito dell'organizzazione incanta la sinistra rivoluzionaria come la restaurazione capitalista. Berlusconi dirige il suo partito come Enrico Mattei dirigeva l'Eni, con le grandi ambizioni del potere, ma anche ispezionando le toilette degli autogrill o la pulizia negli uffici di San Donato. Per Silvio le ambizioni sono immense, ma l'organizzazione indispensabile, va sempre in giro con le cartelle dei memorandum organizzativi, si tratti d'incontrare il presidente Bush o di badare alle fioriere a Genova per il convegno dei G8. Chi lavora con lui deve seguire le sue direttive: il modo di vestire, di presentarsi, di avere l'alito fresco. ...
La politica spettacolo come ricerca del consenso di massa cancella le tradizioni nobili. Lo stile cede la piazza alla falsa cultura popolare. Silvio ha inventato poco, ma ha intuito molto: fra l'altro che l'onda del neoliberismo stava sommergendo il mondo. E ci è salito su in tempi non sospetti, quando lo Stato sociale sembrava ancora di moda. Anche Craxi pensava che il socialismo consistesse nell'imitazione dell'efficienza e del benessere aziendali; liquefattosi quel finto socialismo, Silvio ha intuito che la sua salvezza stava nella conferma del potere dei soldi e nei privilegi che la Resistenza antifascista per breve tempo aveva cancellato. E così è diventato lo sdoganatore del neofascismo e il compagno di strada della Lega. Tutte le volte che l'Italia dei soldi e dei privilegi si è trovata a dover scegliere tra il riformismo democratico e il fascismo, ha preferito il fascismo, che non le fa veramente paura. Silvio, come la maggioranza degli aderenti a Forza Italia, non è stato fascista e del fascismo farebbe volentieri a meno. Ma, in caso di bisogno, meglio un alleato così, neofascista, che i rischi e le incognite dei moti popolari come la Resistenza.
Giorgio Bocca
SOCIAL
Follow @Tafanus