Ricordate? lo diceva Totò nella celebre poesia, 'A Livella. Verissimo, la morte, "dopo", è davvero una livella, specie per chi è impregnato di cultura laica. Ma l'avvicinamento alla morte no, non è una livella. Non è una sorta di equalizzazione delle esistenze. L'avvicinamento alla morte è diverso, molto diverso, da luogo a luogo, da ceto sociale a ceto sociale.
Tutti, almeno negli ultimi giorni o settimane di viaggio, dovrebbero avere uguale diritto all'attenzione. Non è così. Quando un medico notoriamente dotato di grande spirito umanitario, come Umberto Veronesi, ti rimanda a casa "perché non c'è più nulla che possiamo fare", compie una terribile operazione impregnata di logica incontrovertibile: libera un letto per qualcuno per cui ancora si può tentare qualcosa, e rimanda a casa qualcuno per cui, per un ateo che non crede nei miracoli, la parola "fine" è già scritta.
Credetemi, non è uno sfogo personale. Almeno, non è SOLO questo. L'esperienza che sto vivendo mi pone, si, dolorosamente a confronto con un fatto personale. Ma i fatti personali sono transeunti, mentre ciò che resta è il fenomeno complessivo. Il fatto che, fra le tante lotte che la sinistra avrebbe dovuto fare e non ha fatto, c'è anche questa: la colpa di non aver adottato politiche egualitarie ed umanitarie neanche nel modo di accompagnare le persone alla morte.
Quando ti mandano a casa perchè tutto quello che si poteva tentare è stato tentato, a casa spesso ci resti per quei pochi giorni strettamente necessari a cambiare la valigia, e a capire che le cure "palliative", fatte a domicilio, diventano rapidissimamente sempre più difficili, sempre più inutili. Arriva presto il momento in cui t'accorgi che la morfina te la devono fare quando i dolori diventano insopportabili, e che non puoi aspettare sempre i ritmi asincroni del passaggio del medico o dell'infermiere.
A questo punto lo stato dovrebbe farsi carico di assicurare a ricchi e poveri, giovani e vecchi, lo stesso, dignitoso percorso verso il riposo eterno. Signori, benvenuti nel regno delle "terapie palliative": un ossimoro, perché negli hospices si arriva quando le "terapie" si dichiarano impotenti. Meglio sarebbe parlare di "trattamenti" palliativi, che non di terapie.
"...le cure palliative possono essere definite come "il trattamento del paziente affetto da patologie evolutive ed irreversibili, attraverso il controllo dei suoi sintomi e delle alterazioni psicofisiche, più della patologia che ne è la causa". Lo scopo principale delle cure palliative è quello di migliorare anzitutto la qualità di vita [residua] piuttosto che la sopravvivenza, assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’assistenza continua e globale..." (Ventafridda, 1990).
"...la peculiarità della medicina palliativa è il nuovo approccio culturale al problema della morte, considerata non più come l’antagonista da combattere ma accettata a priori come evento inevitabile. Da questa premessa teorica nasce una pratica clinica che pone al centro dell’attenzione non più la malattia, ma il malato nella sua globalità..." (Corli, 1988).
Tutto perfetto, tutto condivisibile. Ma se allora, come si evince dalle definizioni di questi esperti (e come è esperienza comune nostra), in certi casi la scienza si arrende alla morte, e tenta solo di rendere il viaggio meno penoso, ma non per questo più inutilmente lungo, come si concilia questa filosofia con l'accanimento terapeutico, con le Englaro, coi Welby, coi tanti disgraziati che vivono o sono morti come vegetali? Perchè tenere in vita, senza speranze scientifiche, persone, che non hanno più speranze? Perché non abbiamo la possibilità di decidere, contro il parere di Ratzinger e di Ruini, quando e se porre fine anticipatamente, ad uno scomodo, doloroso, lacerante viaggio, che non porta da nessuna parte? Perché non siamo liberi di morire portandoci dietro qualche ricordo bello? Perché siamo costretti non già ad abbreviare e rendere meno scomodo l'ultimo tratto del viaggio, e siamo invece costretti ad allungarlo, e a riempire la nostra ultima valigia di dolore, di rimpianti e di morfina?
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