PREMESSA: Oggi, 16 maggio 2009, ricorre il 31° anniversario dell'uccisione dei 5 uomini della scorta di Aldo Moro. Quell'anniversario che ancora troppi giornali e troppe TV ricordano, se lo ricordano, come l'anniversario del rapimento di Aldo Moro. Quello che segue è un estratto di [un articolo dedicato agli uomini della scorta] che il Tafanus ha pubblicato l'anno scorso, nel trentennale della strage. Ricordo la fatica che ho fatto persino per trovare delle foto di questi giovani proletari in divisa. Io continuerò testardamente a ricordare il 16 marzo come il giorno del massacro di questi cinque proletari in divisa, e a loro, e ai loro familiari, continuerò a dedicare il ricordo di questa data. Quattro di loro su cinque erano figli di quel Sud del quale spesso si parla solo in rapporto a fernomeni di criminalità. Criminale è lo Stato che troppo alla svelta si è sbarazzato del loro ingombrante ricordo.
Quelli di Via Fani: gli uomini della scorta
Il 16 marzo 1978 gli uomini della scorta di Moro vengono uccisi da un commando delle Brigate Rosse all’incrocio tra via Fani e via Stresa, a Roma. Questa è la storia di cinque persone, poliziotti e carabinieri che hanno dato la loro vita per proteggere il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro: eroi del quotidiano, dimenticati troppo in fretta che in questa puntata raccontiamo attraverso i ricordi dei loro familiari.
Erano ragazzi semplici, padri affettuosi, mariti presenti, figli e fratelli adorati. Carabinieri e poliziotti con un forte senso di responsabilità nei confronti del servizio e dello Stato, uccisi mentre compivano il loro dovere.
Domenico Ricci era un appuntato dei carabinieri e aveva 42 anni; Giulio Rivera era un agente di polizia di 25 anni, Francesco Zizzi, era un vice brigadiere di polizia e aveva 30 anni; Raffaele Iozzino era un agente di polizia di 25 anni; Oreste Leopardi era un maresciallo dei carabinieri di 52 anni. Per le loro famiglie, dopo 30 anni di silenzio, di dolore e di ricordi, la ferita è ancora aperta non solo perchè hanno perso i loro cari, non solo perchè il tempo non può cancellare il dolore, ma perchè sono stati lasciati soli.
Domenico Ricci
Il carabiniere Domenico ricci,
nasce a San Paolo di Jesi, in provincia di Ancona, nel 1934. Abile motociclista,
entra a far parte della scorta di Moro alla fine degli anni Cinquanta. Diviene
il suo autista di fiducia e non lo lascia fino alla morte. Il 16 marzo 1978 si
trova al posto di guida della Fiat 130 su cui viaggiava il Presidente della DC.
A 42 anni lascia una moglie e due bambini.
La moglie Maria Ricci, racconta: “Lui sapeva del pericolo che correva, era molto preoccupato. Mi diceva sempre - Stai tranquilla, tu pensa ai bambini. Ho saputo della sua uccisione dalla radio e sono svenuta. Quando mi sono ripresa c’era la mia vicina ad assistermi. La casa si è riempita immediatamente di gente: non capivo più niente. Il giorno dei funerali, vedendo i politici, ho avuto solo una grande rabbia perché vedevo quelle persone…era come se non gli interessasse la morte di quei cinque uomini. E poi la disperazione: guardavo i figli, li abbracciavo…non pensavo a me, ma a lui che non li avrebbe più visti e a loro che non avrebbero più visto il padre. […] Quando mio marito parlava del suo lavoro con il Presidente Moro, sembrava avesse vinto un terno a lotto. Infatti aveva dei bellissimi rapporti d'amicizia con tutta la famiglia Moro. Durante questi vent’anni ho provato tanta disperazione, tanta rabbia ed angoscia. Per me è stata una lotta atroce. Ma avevo fatto una promessa a mio marito. Gli giurai che avrei cresciuto i nostri figli come voleva lui.”
Oreste Leonardi
Oreste Leonardi nasce nel 1926 a
Torino. Mentre frequenta il II ginnasio, Oreste rimane orfano del padre che
muore durante la seconda guerra mondiale. Da quel momento decide di terminare
gli studi e di arruolarsi nell’Arma dei Carabinieri. Dopo aver lavorato in
diverse sedi, viene inviato a Viterbo. Lì diviene istruttore alla Scuola
Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo e nel 1963 viene chiamato come
guardia del corpo dell'On. Aldo Moro. Il maresciallo Leonardi era l’ombra di
Moro, la sua guardia del corpo più fedele: quel 16 marzo del 1978, trovandosi
nel sedile anteriore della macchina del Presidente, vicino al posto di guida, è
proprio lui a compiere un tentativo estremo per proteggere Moro con il proprio
corpo. A 52 anni ha lasciato una moglie e due figli.
La moglie, Ileana Leonardi ci racconta: “Quella mattina mio marito si è
alzato, mi ha portato, come sempre, il caffè a letto e prima di uscire ha
aperto l’armadio per prendere le pallottole. Gli ho chiesto perché, e lui mi ha
risposto: “…così, per sicurezza…”. Ad un certo punto mi ha chiamato una mia
cugina e per chiedermi dove fosse Oreste: evidentemente aveva sentito qualcosa
alla radio. All’inizio nessuno sapeva con precisione come fossero andate le
cose. Dopo poco abbiamo saputo che i ragazzi della scorta erano morti tutti.
Non mi hanno fatto muovere da casa fino a quando non ci sono stati i funerali.
Il giorno dei funerali, penso che se lo ricordino tutti, per noi è stato un
incubo tremendo. La mattina dopo mi sono alzata presto e sono andata sola al
cimitero per stare un po’ in pace con mio marito […] quando iniziò a fare la
guardia del corpo dell’On. Moro, era entusiasta. Mio marito era innamorato del
Presidente. Tra di loro nacque un rapporto d’amicizia e di fiducia così forte
che l’On. Moro voleva che Oreste dormisse nella stanza accanto alla sua quando
si recavano all’estero. La nostra disperazione è derivata anche dal fatto che
durante tutti questi anni ci siamo trovati soli. Lo Stato non ci ha messo a
disposizione psicologi, come si usa fare adesso… ”
Francesco Zizzi
Francesco Zizzi, nasce a Fasano,
in provincia di Brindisi, nel 1948. Entrato nella Pubblica Sicurezza nel 1972,
quattro anni dopo vince il concorso per la scuola allievi sottufficiali di
Nettuno. Il 16 marzo del 1978 è il suo primo giorno al servizio della scorta di
Moro. Si trova nell’Alfetta che precede la macchina di Moro, seduto al posto
del passeggero. Muore a trent’anni,
durante il trasporto all'ospedale.
Adriana Zizzi, la sorella di Francesco ci racconta: “Quella mattina ha
sostituito un suo collega; quello era il suo primo giorno di servizio. Provo
tanto orrore nell’immaginare la violenza che ha subito in Via Fani. Ero in casa
quella mattina. La notizia me la diede mio suocero. Non della morte mio
fratello, ma del fatto che avessero rapito l’On. Moro. Mi dispiacque molto, ma
non pensai minimamente che potesse essere capitato qualcosa a mio fratello. Io
non sapevo che faceva parte della scorta di Moro. Francesco è stato trasportato
al Gemelli subito dopo l’attentato a Via Fani ed è morto alle 12.30. Nel tardo
pomeriggio abbiamo raggiunto Roma: la città era deserta, non c’era nessuno per
strada. Andammo al Viminale e qualcuno ci indicò il nome dell’albergo che
dovevamo raggiungere. Arrivati in albergo ancora ignari, abbiamo trovato i
familiari degli altri caduti, tutti in pianto; c’era un clima terribile: lì ho
capito che era morto mio fratello. Mia madre è stata l’ultima ad uscire dalla
camera mortuaria: ha ottenuto di rimanere sola con il figlio […] per lunghi
anni mi sono sentita diversa, come se portassi un marchio. Ancora succede che
le persone mi identifichino come la sorella di Francesco Zizzi. E questa cosa mi
turba, mi turba ancora. Mi da agitazione, inquietudine. In questi anni la
nostra vita è stata cadenzata anniversari, ricorrenze, manifestazioni,
monumenti. Sicuramente queste iniziative ci fanno piacere perché possa rimanere
la memoria di questi poveri caduti, un messaggio educativo per nuove
generazioni. Per noi però, tutto riapre nei nostri cuori una ferita che non si
è mai rimarginata.”
Giulio Rivera
Giulio Rivera, nasce nel 1954 a
Guglionesi, in provincia di Campobasso. Nel 1974 si arruola nella Pubblica
Sicurezza e viene chiamato al servizio della scorta di Aldo Moro. Il 16 marzo
si trova alla guida dell’alfetta che precede la macchina del Presidente. Muore
a 24 anni all'istante, crivellato da otto pallottole.
Ci ha raccontato Carmela Rivera, sorella di Giulio: “Quella mattina ha fatto le cose di sempre: si è alzato, preparato e andato dall’On Moro. Mi telefonò mia cugina e mi disse che avevano rapito Aldo Moro e che avevano annientato la scorta, ma ancora non sapevamo come fosse accaduto e se qualcuno fosse ancora vivo. Nessuno ci disse niente. Partimmo subito per Roma. Lungo la strada, durante il primo posto di blocco ci fermarono e quando seppero che eravamo i Rivera ci fecero le condoglianze. Dalla sua morte, quando ho qualche problema, vado davanti la foto di mio fratello e gli chiedo di risolverlo. Così mi sento più tranquilla. Se solo chiudo gli occhi e lo rivedo in quella bara…non è piacevole. A casa non ho una sua foto in divisa: non riesco a sopportarlo.”
Raffaele Iozzino
Raffaele Iozzino nasce in
provincia di Napoli, a Casola, nel 1953. Nel 1971 si arruola nella Pubblica
Sicurezza, frequenta la scuola di Alessandria e viene successivamente aggregato
al Viminale e quindi comandato alla scorta dell’On. Moro. Il 16 marzo del 1978
si trova nel sedile posteriore dell’Alfetta che precede la macchina del
Presidente. Muore come agente di polizia a solo 25 anni.
Ciro Iozzino, fratello della vittima, ci racconta: “ Quella mattina si accingevano a fare la loro buona giornata di lavoro, assicurando la massima protezione all’On. Moro. Io ero tra i campi ad aiutare mio padre. Avevo la radiolina accesa quando, purtroppo, interruppero le trasmissioni per dare la notizia del sequestro. Capii subito che quel giovedì era di servizio. Durante quei momenti atroci, mio fratello riuscì a scendere dalla macchina, forse non visto da qualcuno di loro e riuscì a sparare dei colpi rotolando per terra. Non servì a niente perché il fuoco incrociato dai tre lati non gli permise di fare altro. Ci mettemmo subito in contatto con i Carabinieri ma nessuno sapeva niente. Solo dopo qualche ora vennero i carabinieri di Cragnano per portarci a Roma. Da quando lo vidi nella camera ardente, ce l’ho sempre davanti agli occhi. Me lo ricordo come se fosse oggi.”
4 marzo 2007: lettera aperta dei familiari delle vittime
Il 27 febbraio 2007 la puntata speciale di Studio Aperto dedicata a “Il ritorno delle brigate rosse” e condotta da Claudio Martelli, ha mandato in onda una lunga intervista a Alberto Franceschini, fondatore storico del gruppo terroristico nel lontano 1970 insieme a Renato Curcio. Lo speciale e stato realizzato proprio in via Fani, nel luogo in cui venne rapito Moro e rimasero uccisi gli uomini della sua scorta.
Il 4 marzo 2007, i familiari delle vittime hanno inviato a diverse testate una lettera aperta per commentare le immagini e le parole ascoltate durante l’intervista. E cosi l’hanno commentata:
“Tale proiezione ci ha
riportato indietro di trent’anni, a quel terribile giorno in cui le nostre vite
si fermarono insieme a quelle dei nostri cari, ci ha inorridito vedere un
terrorista accanto alla lapide che ricorda l’eccidio, ci ha disgustato sentirlo
parlare di Brigate Rosse proprio in quel luogo di “memoria storica” per la
Nazione tutta. Silenziosamente sino ad oggi, in quanto educati dai nostri
caduti nel rispetto delle Istituzioni e nel credo cristiano, abbiamo taciuto
sui vari accadimenti degli ultimi tempi.
Abbiamo silenziosamente osservato
Sergio D'Elia, ex terrorista di Prima linea, essere eletto segretario di
presidenza della Camera dei deputati, abbiamo fissato l'ex terrorista Susanna
Ronconi essere nominata alla Consulta nazionale delle tossicodipenze, abbiamo
assistito l'ex brigatista Barbara Balzerani, nè dissociata nè pentita, ottenere
la libertà condizionata nonostante il parere negativo espresso da noi familiari
al Magistrato di Sorveglianza (parere che data la nostra discrezionalità non è
mai stato dato in pasto alla stampa).
Ed ora, infine, siamo costretti ad assistere all’esaltazione mediatica dell’ex BR Franceschini proprio sul luogo in cui vennero uccisi gli uomini della scorta di Moro (come purtroppo vengono ormai ricordati i cinque agenti, precipitati nel limbo della dimenticanza comune). Abbiamo avuto sempre la massima discrezione, nel rispetto dei valori e delle Istituzioni, assistendo in cristiano silenzio al ritorno, in primo piano, degli ex terroristi. Li abbiamo guardati presentare libri, tenere convegni, salire in cattedra, entrare a far parte delle Istituzioni stesse, assistere, infine, all’ennesima loro “escalation mediatica” in puro stile “al-qaediano” sul proprio ricordo di quegli anni, come se quella stagione avesse avuto per protagonisti, agli occhi dei telespettatori, i soli componenti della lotta armata.”
Con sdegno, rammarico e commozione. I familiari dei morti di via Fani.
P.S.: Le interviste ai familiari delle vittime sono in gran parte tratte da un bel servizio dell'anno scorso de "La Storia siamo noi", di Minoli, al quale vanno il nostro ringraziamento ed il nostro plauso. Tafanus
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