Ieri sono stato assente per gran parte della giornata. Avrei voluto scrivere, gridare, contro questa informazione di Minzolini che nasconde le proteste contro la guerra, rivolte a Berlusconi. Avrei voluto scrivere, urlare, contro le immagini del Popolo Italiano che affolla i funerali con le bandiere tricolore - tutte dello stesso modello - distribuite gratis a migliaia da Alemanno (chi paga?), ma vendute per immagini come se fossero il segno di una spontanea partecipazione patriottica. E poi avrei voluto scrivere, urlare, contro la strumentalizzazione che non la mamma, ma i media embedded a Berlusconi, hanno fatto di un bimbo di due anni. un simbolo improprio a sostegno di una politica sbagliata.
Non ho niente contro la madre di Simone, che molto ha sofferto, e molto soffrirà. Un bimbo di due anni non capisce cosa vede scorrere sotto i suoi occhi. La madre avrà, ahimé, tempo e modo di spiegare al piccolo Simone perchè il papà non torna. Avrà modo di prepararlo. Ma detesto con tutte le mie forze chi ha avuto l'ignobile idea di piazzare sulla testa di quel bambino, giocoso e inconsapevole, un berretto da parà. E detesto ancor di più i media che hanno fotografato e diffuso centinaia di foto di questa idiozia, e sposato la tesi del piccolo Simone simbolo e paradigma di questa triste cerimonia. Una perdita collettiva del ben dell'intelletto, della sobrietà, del buon gusto, condiviso da media di destra e di sinistra. Ecco, questo è quanto avrei voluto scrivere ieri, pur se lacerato da mille dubbi e pochissime certezze.
Poi, in mio soccorso, come spesso accade, mi è arrivato questo scritto di don Paolo Farinella, col quale a volte sembra esservi una trasmissione telepatica del pensiero, ed allora mi sono detto che forse il mio disagio non era sbagliato, e che qualora invece fosse sbagliato, sono lieto di sbagliare in compagnia di un uomo-prete che gode della mia incondizionata stima. Trascrivo per intero la lettera dell'amico Paolo Farinella, prete. Tafanus
Non ho niente contro la madre di Simone, che molto ha sofferto, e molto soffrirà. Un bimbo di due anni non capisce cosa vede scorrere sotto i suoi occhi. La madre avrà, ahimé, tempo e modo di spiegare al piccolo Simone perchè il papà non torna. Avrà modo di prepararlo. Ma detesto con tutte le mie forze chi ha avuto l'ignobile idea di piazzare sulla testa di quel bambino, giocoso e inconsapevole, un berretto da parà. E detesto ancor di più i media che hanno fotografato e diffuso centinaia di foto di questa idiozia, e sposato la tesi del piccolo Simone simbolo e paradigma di questa triste cerimonia. Una perdita collettiva del ben dell'intelletto, della sobrietà, del buon gusto, condiviso da media di destra e di sinistra. Ecco, questo è quanto avrei voluto scrivere ieri, pur se lacerato da mille dubbi e pochissime certezze.
Poi, in mio soccorso, come spesso accade, mi è arrivato questo scritto di don Paolo Farinella, col quale a volte sembra esservi una trasmissione telepatica del pensiero, ed allora mi sono detto che forse il mio disagio non era sbagliato, e che qualora invece fosse sbagliato, sono lieto di sbagliare in compagnia di un uomo-prete che gode della mia incondizionata stima. Trascrivo per intero la lettera dell'amico Paolo Farinella, prete. Tafanus
Cari Amici e Amiche,
avevo promesso di fare silenzio, ma non si può non urlare di
fronte ad un bambino con un berretto da parà in capo. Il fondo non è ancora
visibile.
Un bambino, un berretto militare e il simbolo
di Paolo Farinella, prete
Dicevano gli antichi che spesso il nome indica il destino di chi lo porta (Nomen Omen). Questa massima mi è venuta in mente mentre vedevo l’immagine di Simone, due anni, figlio di uno dei sei militari ucciso, in braccio a sua mamma. Stavano lì, in attesa del padre/marito morto. Simone, due anni, ignaro di quello che succedeva attorno a lui, era al suo posto, perché un bambino deve stare in braccio alla mamma. Solo una cosa era fuori luogo e, per me, costituisce il segno della perdita della ragione: il berretto da parà in testa a Simone.
Quella immagine è terribile perché proietta la pazzia degli adulti nel mondo e nell’immaginario dei bambini perché li usa per alimentare la commozione e condizionare il mondo infantile degli adulti. Quel berretto da parà in testa a Simone è un’ipoteca sul suo futuro perché lo trasforma in simbolo che continua la «missione» del padre. Crescendo ne resterà schiacciato e non potrà uscirne perché gli adulti irresponsabili lo hanno caricato di un compito che è la sua condanna.
Appena ne avrà la possibilità, Simone vorrà seguire le orme del padre e diventerà parà anche lui, anche perché avrà un canale privilegiato, una corsia preferenziale, in quanto orfano di un «eroe». Non lo farà per scelta, ma per dovere: per non tradire l’aspettativa del padre (lui immagina) e del mondo che da lui si aspetta l’unica scelta possibile per realizzare l’«incompiuta» paterna. Non è più Simone che deve trovare in sé la «sua» ragione di vita, ma è la morte del padre che gli impone chi e come deve essere.
Il vangelo di Giovanni, mettendo a confronto il Battista e Gesù, fa dire al primo: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30) che è la massima pedagogica che ogni educatore, maestro, genitore, ecc. dovrebbe avere come obiettivo: i figli non devono crescere secondo la nostra immagine, quasi sempre per realizzare le frustrazioni dei genitori. Essi devono vivere da sé per sé proiettati verso un ideale che compia la loro vita e coroni i loro sogni.
Camillo Sbarbaro, poeta genovese, al figlio che compiva diciotto anni scriveva: «ubbidirti a crescere è la mia vanità», quasi un anacoluto concettuale che esprime in modo magistrale l’ansia dell’adulto di essere «in ascolto» esistenziale del figlio per capirne la direzione di volo e per sostenerne la dinamica della «sua» vita.
A Simone, due anni, figlio di un parà ucciso, col berretto militare in testa, per la volontà macabra di una retorica di morte che trasforma in eroismo anche le scelte più indecenti, tutto questo sarà negato. In compenso il mondo avrà un disadattato in più che vivrà per conto terzi. Povero Simone! Ti auguro di ribellarti e di seppellire quel brutto berretto nella tomba con tuo padre. Tu meriti la vita. Null’altro. Caro Simone, da grande, se potrai, perdona gli adulti che lo hanno fatto apposta e corri verso il tuo «domani» che è diverso dallo «ieri» che ti vogliono appioppare.
Paolo Farinella, prete
di Paolo Farinella, prete
Dicevano gli antichi che spesso il nome indica il destino di chi lo porta (Nomen Omen). Questa massima mi è venuta in mente mentre vedevo l’immagine di Simone, due anni, figlio di uno dei sei militari ucciso, in braccio a sua mamma. Stavano lì, in attesa del padre/marito morto. Simone, due anni, ignaro di quello che succedeva attorno a lui, era al suo posto, perché un bambino deve stare in braccio alla mamma. Solo una cosa era fuori luogo e, per me, costituisce il segno della perdita della ragione: il berretto da parà in testa a Simone.
Quella immagine è terribile perché proietta la pazzia degli adulti nel mondo e nell’immaginario dei bambini perché li usa per alimentare la commozione e condizionare il mondo infantile degli adulti. Quel berretto da parà in testa a Simone è un’ipoteca sul suo futuro perché lo trasforma in simbolo che continua la «missione» del padre. Crescendo ne resterà schiacciato e non potrà uscirne perché gli adulti irresponsabili lo hanno caricato di un compito che è la sua condanna.
Appena ne avrà la possibilità, Simone vorrà seguire le orme del padre e diventerà parà anche lui, anche perché avrà un canale privilegiato, una corsia preferenziale, in quanto orfano di un «eroe». Non lo farà per scelta, ma per dovere: per non tradire l’aspettativa del padre (lui immagina) e del mondo che da lui si aspetta l’unica scelta possibile per realizzare l’«incompiuta» paterna. Non è più Simone che deve trovare in sé la «sua» ragione di vita, ma è la morte del padre che gli impone chi e come deve essere.
Il vangelo di Giovanni, mettendo a confronto il Battista e Gesù, fa dire al primo: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30) che è la massima pedagogica che ogni educatore, maestro, genitore, ecc. dovrebbe avere come obiettivo: i figli non devono crescere secondo la nostra immagine, quasi sempre per realizzare le frustrazioni dei genitori. Essi devono vivere da sé per sé proiettati verso un ideale che compia la loro vita e coroni i loro sogni.
Camillo Sbarbaro, poeta genovese, al figlio che compiva diciotto anni scriveva: «ubbidirti a crescere è la mia vanità», quasi un anacoluto concettuale che esprime in modo magistrale l’ansia dell’adulto di essere «in ascolto» esistenziale del figlio per capirne la direzione di volo e per sostenerne la dinamica della «sua» vita.
A Simone, due anni, figlio di un parà ucciso, col berretto militare in testa, per la volontà macabra di una retorica di morte che trasforma in eroismo anche le scelte più indecenti, tutto questo sarà negato. In compenso il mondo avrà un disadattato in più che vivrà per conto terzi. Povero Simone! Ti auguro di ribellarti e di seppellire quel brutto berretto nella tomba con tuo padre. Tu meriti la vita. Null’altro. Caro Simone, da grande, se potrai, perdona gli adulti che lo hanno fatto apposta e corri verso il tuo «domani» che è diverso dallo «ieri» che ti vogliono appioppare.
Paolo Farinella, prete
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