Il premier ha deciso di modificare le parole dell'inno: si passa dal singolo al collettivo: dal "Meno male che Silvio c'è", al "Meno male che noi ci siamo"
(di Filippo Ceccarelli - Repubblica)
CON il suggello della più autorevole ufficiosità, Libero ha ieri annunciato in prima pagina che "Berlusconi cambia musica", nel senso che dall'alto del suo potere ha stabilito di mutare in realtà, più che la musica, le parole del celeberrimo "Meno male che Silvio c'è", definito "l'inno" del Pdl, anche se su questo non si ricorda un pronunciamento formale - ma pazienza: i movimenti carismatici vivono più di effervescenza creativa che di regole pattuite e messe ai voti.
Interessante, anche da quest'ultimo punto di vista, è la motivazione fornita sulla necessità di sostituire il versetto "Meno male che Silvio c'è" con un non meglio identificato "Meno male che noi ci siamo, o qualcosa del genere", giacché in ogni caso, attraverso il nuovo refrain, il presidentissimo intende passare "dal singolo al collettivo, dal solista alla squadra, dal primo violino all'orchestra".
E può essere. Ma può anche essere - non sono decisioni che si certificano dal notaio - che Berlusconi, anzi Silvio, abbia scelto di sciogliersi nel "noi", così facendo un passettino indietro nella salmodia del Pdl per ripulire in un certo senso quella canzone dalle scorie super-private, mega-personali e perfino pericolosamente intime di cui si è caricata negli ultimi sei mesi a Palazzo Grazioli e dintorni.
Per dire: proprio così, "Meno male che Silvio c'è", secondo l'establishment berlusconiano, si sarebbero intitolati i club di graziose ragazze che parteciparono alle simpatiche festicciole di cui si è tanto parlato a livello planetario. La stessa Patrizia D'Addario nelle sue fresche memorie, "Gradisca, presidente" (Aliberti) racconta che dopo la proiezione protocollare di alcuni lunghi e noiosi filmati su G8 e Bush, una mano caritatevole offrì alle gentili ospiti la visione "di un documentario in cui si canta 'Meno male che Silvio c'è', e tutti nella stanza cominciano a cantare con le braccia alzate e fanno la ola" (lei no, e anche per questo si fa notare da Silvio, tiè).
Con tutta probabilità si tratta di quel fantastico video elettorale che compare anche in Videocracy e nel quale, trascinati dall'onda emotiva della canzone composta da Andrea Vantini nel 2002 con il titolo "A Silvio" e riaggiustata nel 2008 nella versione che sta per cambiare, comunque si possono ammirare alcuni rappresentanti della società civile, un gelataio, un maestro, delle mamme, dei tassinari, degli addetti a un call-center, oltre a una serie di giovani anche abbastanza scatenati tra cui spicca pure di profilo la bella portavoce del club napoletano "Silvio ci manchi", che scendono la gradinata del colosseo quadrato dell'Eur e a gran voce invocano il nome battesimale del leader. Che però non si vede mai: ed è questa la fantastica trovata del clip, dovendo quel mito vivere di potentissima assenza e di salvifica attesa.
Però, non molto tempo dopo la vittoria, quello stesso inno creò inconfessabili problemi al congresso fondativo del Pdl perché diversi esponenti di An, in particolare quelli più riottosi dinnanzi all'evidente "cesarismo" del nuovo partito, erano sì disposti ad abbandonare l'anonima marcetta usa-e-getta che li aveva accompagnati da Fiuggi in poi, ma strenuamente resistevano dall'adottare quel Magnificat che in verità suonava ormai molto più imperiale che cesaristico. Inutile dire che alla Fiera di Roma la questione venne risolta in maniera che più berlusconiana non si poteva. Ossia spettacolare: musica senza parole; in pratica ogni volta che il Cavaliere entrava in sala partiva lo stacchetto, e in questo modo, con la politica della musica compiuta, "Meno male che Silvio c'è" si autopromosse a inno del Pdl.
Da questo punto di vista la deliberazione annunciata ieri da Libero, quella specie di sorprendente rinuncia dell'ego e di generosa accettazione di una dimensione più collettiva dell'agire politico, può perfino intendersi come un messaggio di buona volontà nei confronti di Fini.
E tuttavia il fatto che, come al solito, Berlusconi abbia fatto tutto da solo, prima ventilando l'ipotesi in collegamento telefonico con Verona il 20 dicembre, e poi rendendola operativa a mezzo stampa nove giorni dopo, conferma oltre all'indispensabile ambiguità del potere anche la conseguente spensieratezza nel cantarsela e nel suonarsela in beata solitudine. Leader convalescente, compositore e paroliere fai da te, pure inventivo e benigno agli occhi del suo popolo nell'imminente stagione dell'amore - sempre che resista al clima natalizio che l'ideologia pubblicitaria ha fruttuosamente identificato.
Si vedrà. Nel frattempo l'ipotizzato slittamento dall'"io" al "noi", dalla santificazione intimistica del sovrano al riconoscimento di una pluralità di soggetti, farebbe addirittura pensare a un ritorno alle origini, per l'esattezza al primo inno di Forza Italia che volava intensamente sulle ali della prima persona plurale, "siamo", "entriamo", "alziamoci", "stringiamoci". Vuole la leggenda berlusconiana che anche di quel remoto brano il Cavaliere avesse creato parole e musica. Ma di recente si è scoperto che quest'ultima è del maestro Renato Serio: "Fui pagato una tantum, meno che se avessi fatto il jingle di uno spot, senza sapere che sarebbe servito a Forza Italia" ha spiegato con un certo rimpianto. Per gli inni politici infatti non si pagano i diritti d'autore. Stai a vedere che anche l'ennesimo "Meno male" si rivelerà una piccola astuzia a orologeria, sia pure senza gelatai e farfalline che fanno la ola.
(di Filippo Ceccarelli - Repubblica)
CON il suggello della più autorevole ufficiosità, Libero ha ieri annunciato in prima pagina che "Berlusconi cambia musica", nel senso che dall'alto del suo potere ha stabilito di mutare in realtà, più che la musica, le parole del celeberrimo "Meno male che Silvio c'è", definito "l'inno" del Pdl, anche se su questo non si ricorda un pronunciamento formale - ma pazienza: i movimenti carismatici vivono più di effervescenza creativa che di regole pattuite e messe ai voti.
Interessante, anche da quest'ultimo punto di vista, è la motivazione fornita sulla necessità di sostituire il versetto "Meno male che Silvio c'è" con un non meglio identificato "Meno male che noi ci siamo, o qualcosa del genere", giacché in ogni caso, attraverso il nuovo refrain, il presidentissimo intende passare "dal singolo al collettivo, dal solista alla squadra, dal primo violino all'orchestra".
E può essere. Ma può anche essere - non sono decisioni che si certificano dal notaio - che Berlusconi, anzi Silvio, abbia scelto di sciogliersi nel "noi", così facendo un passettino indietro nella salmodia del Pdl per ripulire in un certo senso quella canzone dalle scorie super-private, mega-personali e perfino pericolosamente intime di cui si è caricata negli ultimi sei mesi a Palazzo Grazioli e dintorni.
Per dire: proprio così, "Meno male che Silvio c'è", secondo l'establishment berlusconiano, si sarebbero intitolati i club di graziose ragazze che parteciparono alle simpatiche festicciole di cui si è tanto parlato a livello planetario. La stessa Patrizia D'Addario nelle sue fresche memorie, "Gradisca, presidente" (Aliberti) racconta che dopo la proiezione protocollare di alcuni lunghi e noiosi filmati su G8 e Bush, una mano caritatevole offrì alle gentili ospiti la visione "di un documentario in cui si canta 'Meno male che Silvio c'è', e tutti nella stanza cominciano a cantare con le braccia alzate e fanno la ola" (lei no, e anche per questo si fa notare da Silvio, tiè).
Però, non molto tempo dopo la vittoria, quello stesso inno creò inconfessabili problemi al congresso fondativo del Pdl perché diversi esponenti di An, in particolare quelli più riottosi dinnanzi all'evidente "cesarismo" del nuovo partito, erano sì disposti ad abbandonare l'anonima marcetta usa-e-getta che li aveva accompagnati da Fiuggi in poi, ma strenuamente resistevano dall'adottare quel Magnificat che in verità suonava ormai molto più imperiale che cesaristico. Inutile dire che alla Fiera di Roma la questione venne risolta in maniera che più berlusconiana non si poteva. Ossia spettacolare: musica senza parole; in pratica ogni volta che il Cavaliere entrava in sala partiva lo stacchetto, e in questo modo, con la politica della musica compiuta, "Meno male che Silvio c'è" si autopromosse a inno del Pdl.
E tuttavia il fatto che, come al solito, Berlusconi abbia fatto tutto da solo, prima ventilando l'ipotesi in collegamento telefonico con Verona il 20 dicembre, e poi rendendola operativa a mezzo stampa nove giorni dopo, conferma oltre all'indispensabile ambiguità del potere anche la conseguente spensieratezza nel cantarsela e nel suonarsela in beata solitudine. Leader convalescente, compositore e paroliere fai da te, pure inventivo e benigno agli occhi del suo popolo nell'imminente stagione dell'amore - sempre che resista al clima natalizio che l'ideologia pubblicitaria ha fruttuosamente identificato.
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...mi scuso per questa monnezza, ma volevo proprio regalarvi qualcosa che vi impedisse la sia pur minima tentazione di rimpiangere l'anno che muore (spero fra atroci sofferenze). La speranza è che non ci può essere un 2010 schifoso come il 2009. Quindi, in alto i cuori. Meno male che un giorno persino Silvio non ci sarà più... Tafanus
...mi scuso per questa monnezza, ma volevo proprio regalarvi qualcosa che vi impedisse la sia pur minima tentazione di rimpiangere l'anno che muore (spero fra atroci sofferenze). La speranza è che non ci può essere un 2010 schifoso come il 2009. Quindi, in alto i cuori. Meno male che un giorno persino Silvio non ci sarà più... Tafanus
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