Una morte che racconta una storia di vita, di riscoperta di valori quali "l'accompagnamento consapevole", la filosofia, la fede (Silvia è buddista), una spalla alla quale appoggiarsi. Ho chiesto a Silvia se potevo pubblicare questa "cosa", che non è né la narrazione di un fatto di cronaca, né un racconto, ma è il racconto di una cronaca. Silvia ha detto si, senza esitazioni. Lei ed io siamo convinti che questa storia possa essere d'aiuto ad altri, e con questo spirito la mettiamo a disposizione. Tafanus
"...la storia. Se ritieni che possa essere utile pubblicala, io l’ho scritta anche per quello. La morte è necessaria, pensa se non morisse nessuno che inferno sarebbe, tutti a mangiarsi l’uno con l’altro... già lo facciamo quasi. Ed è la ‘cosa’ più democratica che c’è. Spesso cronologicamente ingiusta, spessissimo intempestiva e incontinente, ma democratica sì, massimamente. E nessuno che voglia sentirne parlare, eppure è davvero l’appuntamento più serio che ci capita. Io dico che converrebbe non farsi prendere in castagna, rispettarla senza temerla e grazie a questo vivere degnamente ogni minuto. .."
"...mi ricordo come ci siamo conosciuti... mi ricordo la proposta di matrimonio da sottoporre o condividere con tua moglie... è vero, la voglia di scherzare si affievolisce, e questo non è più un segnale, ormai è un sintomo. serve curarsi.
un abbraccio e grazie, come sempre..."
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La "prolissa" email di Silvia
antò come va? leggi qua, il perché sono sparita.
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La storia
Papà rientra dal lago il 23 settembre, unico problema, annoso, il ginocchio. Ottobre mogio, fiacca insolita, macchie sulle gambe, il medico lo trova disidratato e denutrito, il 28 ottobre lo accompagno in ospedale. “Speriamo ti tengano un paio di giorni; ti rimettono in sesto, sostituiscono il ginocchio”. Sorridevamo.
3 novembre, un oncologo dice “due, forse tre settimane”. Guardo le sue labbra come da un acquario, imbambolata osservo un muro dalla finestra dell’assistenza domiciliare. A reggermi in piedi Fabio, compagno di tanta bella attività, saldo, forte, la mano discreta e ferma sulle mie spalle. Non lo dico più, ma da sola non ce l’avrei fatta. Grazie per sempre, se non mi sono sciolta sul pavimento lo devo a te, se ho agguantato la forza di trasformare quel sisma in qualcosa di positivo lo devo a te che sapevi già tutto e mi hai ricordato che le sfortune di Kyo’o Gozen si trasformeranno in fortuna. Raccogli tutta la tua fede e prega questo Gohonzon. Allora, che cosa non può essere realizzato? Non so a che prezzo hai ripercorso una strada conosciuta, non l’hai fatto capire e pesare. Grazie per sempre anche di questo. La gioia unisce, il dolore di più.
Le chiavi del gruppo a Luca e Antonio e ho avuto il privilegio lancinante di accompagnare papà alla partenza più vera che c’è. Tanti buddha mi hanno eretto intorno un’impalcatura leggera, elastica, resistente, come quelle indiane di bambù, che ha respirato e sospirato con me, ha dato alla terra ogni lacrima, mi ha protetto ogni notte insonne nell’ansia.
Carcinoma, metastasi, insufficienza renale, trombo della porta, scompenso cardiaco... parolacce! ma nei vecchi le cose vanno lente, si sa; e anche se i medici dicevano che l’età biologica di papà non corrispondeva a quella anagrafica, nell’egoismo di tenermi accanto il mio vecchio re leone quella certezza quasi mi consolava. Invece tutto è precipitato come se quell’uomo – novant’anni gagliardi, inquietato dallo stupore che Clara, amica cara e shakubuku, gli ha visto negli occhi il penultimo giorno – fosse stato un ragazzo.
Novanta! che vuoi di più? ma più ne hai più ne vuoi.
Così papà mi ha insegnato la morte, allenandomi ad accoglierla. È costato sangue, non voglio dimenticare, anche per questo ho scritto tutto, oltre che per il desiderio di essere utile.
Ai non buddisti suona strano sentir dire che sono stati giorni bellissimi, forse tra i migliori della mia vita. La mia colonna che ha problemi a ogni vertebra ha succhiato dal Gohonzon la forza disperata per muovere un uomo di quasi 65 chili che resisteva e si abbandonava senza farlo barcollare né fargli male, io ne ho tratto la certezza che tutto si sarebbe svolto nel modo migliore.
Abbiamo ritrovato tenerezze disperse dall’infanzia: chi si tiene più per mano con mamma o papà da grande? Ho imparato la gioia di vivere ogni minuto come l’ultimo, perché i nostri erano ufficialmente gli ultimi, l’ultima carezza, l’ultima volta che gli ho sollevato la testa per girargli il cuscino troppo caldo, l’ultima che gli ho dato l’acqua con la siringa di lato come si fa coi gattini perché nella cannuccia alla fine soffiava anziché succhiare, l’ultimo bacio ripescato nella memoria a istinto, l’ultima che gli ho messo il cuscinetto fra le ginocchia ossute perché non si piagassero anche quelle. Nella semicoscienza mi ha detto che non era mai stato frugato così tanto in mezzo alle gambe, mi chiamava dottor Mengele… siamo anche riusciti a ridere.
Che felicità si può provare a scambiarsi una carezza in un giorno qualsiasi di buona salute? Fatelo, per favore, non rimandate. Io in questa vita non ne sono stata capace.
Ho elaborato a fatica il veleno greve della malattia di mia madre e la sua scomparsa, liberatoria dopo mesi di travaglio a senso unico e senza uscita. Non praticavo buddismo, questa è la differenza sostanziale, la sola, e della morte non avevo capito niente. Grazie al Gohonzon ho messo a punto il modo di accompagnare papà senza disperarmi nel vederlo diminuire ogni giorno; lui, mani d’acciaio e gambe forti, braccia che potevano remare per ore e voce calda e sicura, era come un bambino dipendente da me quasi completamente. Ho imparato anche a non precipitarmi a ogni ruggito di rabbia: il capobranco non vuole mostrare la sua morte, nemmeno ai figli. Qualche notte mentre a tratti delirava ne ho ascoltato la voce cupa, sembrava una sibilla, i recessi sconosciuti della sua mente mi si aprivano mio malgrado, ho avuto anche paura.
Ho fatto gongyo di fianco al suo letto mettendogli il Gohonzon davanti agli occhi, ho recitato forte mentre scivolava nel torpore. Ho avuto a fianco buddha attenti, premurosi, generosi; fiumi di daimoku e preghiere verso tanti cieli ci hanno sostenuto fino all’ultimo e continuano, con lettere, telefonate, visite, pensieri, pranzi domenicali, sms fino da Trets. Grazie!
La mattina del 12 novembre recitando davanti al Gohonzon ho detto a Fabio “con tutto il cuore vorrei che morisse oggi, non ce la faccio più a vederlo così, non è giusto”, sorridendo ha detto “sai che anch’io mi sento che succede oggi?”. Ivo, grande giovane uomo che ogni giorno ha portato i giornali che papà ha letto quasi fino all’ultimo, era con noi. Infinitamente grazie.
Nel pomeriggio battagliando con le gambe ha detto “aiutami, vedi che sto morendo!” come dimenticare una cosa così grande? Tenendogli la mano ho recitato a voce alta mentre nel mio cuore sgorgava violento e chiaro il desiderio di lasciarlo andare, e gliel’ho detto, parlando piano perché lui quasi sordo, dal giorno prima udiva di nuovo. “Vai adesso papà, non sopporto più di vederti così, ti ho perdonato di questo marasma, ce la farò da sola, credimi, vattene ti prego, fallo per me, te lo chiedo per favore, ho imparato abbastanza, grazie” e recitavo con mira precisa più forte che potevo.
La sera niente fame, stanchezza e inquietudine, l’indomani mi sarei arresa, controvoglia: l’infermiere diceva che non potevo più assisterlo, dovevo portarlo in hospice. Era vero non ce la facevo più ma non mi rassegnavo, con tutta me stessa volevo che l’ultimo respiro lo facesse nella sua camera da letto come era stato per mamma.
E alle 11 e mezza di notte, dopo una fatica grandiosa, si è lasciato andare. Due pianti violenti, addosso a Giuseppe (ex compagno di una vita, da due giorni con noi) che mi ha detto con gli occhi e un sorriso “è andato via, sii serena” e addosso a Fabio arrivato in un baleno. Grazie delle vostre braccia.
Mi piace pensare che papà abbia aspettato che venisse a recitare Dora quella sera, perché è vero quel che Amleto dice all’amico fidato “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia” e Dora si chiamava mia madre. La mattina, in chiusura di gongyo, alla campana per i morti dove fino alla sera prima c’era solo mamma, la mia voce s’è sfilata, Fabio e Ivo con me, Giuseppe di là a sistemare le ultime cose. Grazie di cuore. Ho messo a posto quella casa, casa mia, ora ci vivo. Una nuova casa per l’attività.
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3 novembre, un oncologo dice “due, forse tre settimane”. Guardo le sue labbra come da un acquario, imbambolata osservo un muro dalla finestra dell’assistenza domiciliare. A reggermi in piedi Fabio, compagno di tanta bella attività, saldo, forte, la mano discreta e ferma sulle mie spalle. Non lo dico più, ma da sola non ce l’avrei fatta. Grazie per sempre, se non mi sono sciolta sul pavimento lo devo a te, se ho agguantato la forza di trasformare quel sisma in qualcosa di positivo lo devo a te che sapevi già tutto e mi hai ricordato che le sfortune di Kyo’o Gozen si trasformeranno in fortuna. Raccogli tutta la tua fede e prega questo Gohonzon. Allora, che cosa non può essere realizzato? Non so a che prezzo hai ripercorso una strada conosciuta, non l’hai fatto capire e pesare. Grazie per sempre anche di questo. La gioia unisce, il dolore di più.
Le chiavi del gruppo a Luca e Antonio e ho avuto il privilegio lancinante di accompagnare papà alla partenza più vera che c’è. Tanti buddha mi hanno eretto intorno un’impalcatura leggera, elastica, resistente, come quelle indiane di bambù, che ha respirato e sospirato con me, ha dato alla terra ogni lacrima, mi ha protetto ogni notte insonne nell’ansia.
Carcinoma, metastasi, insufficienza renale, trombo della porta, scompenso cardiaco... parolacce! ma nei vecchi le cose vanno lente, si sa; e anche se i medici dicevano che l’età biologica di papà non corrispondeva a quella anagrafica, nell’egoismo di tenermi accanto il mio vecchio re leone quella certezza quasi mi consolava. Invece tutto è precipitato come se quell’uomo – novant’anni gagliardi, inquietato dallo stupore che Clara, amica cara e shakubuku, gli ha visto negli occhi il penultimo giorno – fosse stato un ragazzo.
Novanta! che vuoi di più? ma più ne hai più ne vuoi.
Così papà mi ha insegnato la morte, allenandomi ad accoglierla. È costato sangue, non voglio dimenticare, anche per questo ho scritto tutto, oltre che per il desiderio di essere utile.
Ai non buddisti suona strano sentir dire che sono stati giorni bellissimi, forse tra i migliori della mia vita. La mia colonna che ha problemi a ogni vertebra ha succhiato dal Gohonzon la forza disperata per muovere un uomo di quasi 65 chili che resisteva e si abbandonava senza farlo barcollare né fargli male, io ne ho tratto la certezza che tutto si sarebbe svolto nel modo migliore.
Abbiamo ritrovato tenerezze disperse dall’infanzia: chi si tiene più per mano con mamma o papà da grande? Ho imparato la gioia di vivere ogni minuto come l’ultimo, perché i nostri erano ufficialmente gli ultimi, l’ultima carezza, l’ultima volta che gli ho sollevato la testa per girargli il cuscino troppo caldo, l’ultima che gli ho dato l’acqua con la siringa di lato come si fa coi gattini perché nella cannuccia alla fine soffiava anziché succhiare, l’ultimo bacio ripescato nella memoria a istinto, l’ultima che gli ho messo il cuscinetto fra le ginocchia ossute perché non si piagassero anche quelle. Nella semicoscienza mi ha detto che non era mai stato frugato così tanto in mezzo alle gambe, mi chiamava dottor Mengele… siamo anche riusciti a ridere.
Che felicità si può provare a scambiarsi una carezza in un giorno qualsiasi di buona salute? Fatelo, per favore, non rimandate. Io in questa vita non ne sono stata capace.
Ho elaborato a fatica il veleno greve della malattia di mia madre e la sua scomparsa, liberatoria dopo mesi di travaglio a senso unico e senza uscita. Non praticavo buddismo, questa è la differenza sostanziale, la sola, e della morte non avevo capito niente. Grazie al Gohonzon ho messo a punto il modo di accompagnare papà senza disperarmi nel vederlo diminuire ogni giorno; lui, mani d’acciaio e gambe forti, braccia che potevano remare per ore e voce calda e sicura, era come un bambino dipendente da me quasi completamente. Ho imparato anche a non precipitarmi a ogni ruggito di rabbia: il capobranco non vuole mostrare la sua morte, nemmeno ai figli. Qualche notte mentre a tratti delirava ne ho ascoltato la voce cupa, sembrava una sibilla, i recessi sconosciuti della sua mente mi si aprivano mio malgrado, ho avuto anche paura.
Ho fatto gongyo di fianco al suo letto mettendogli il Gohonzon davanti agli occhi, ho recitato forte mentre scivolava nel torpore. Ho avuto a fianco buddha attenti, premurosi, generosi; fiumi di daimoku e preghiere verso tanti cieli ci hanno sostenuto fino all’ultimo e continuano, con lettere, telefonate, visite, pensieri, pranzi domenicali, sms fino da Trets. Grazie!
La mattina del 12 novembre recitando davanti al Gohonzon ho detto a Fabio “con tutto il cuore vorrei che morisse oggi, non ce la faccio più a vederlo così, non è giusto”, sorridendo ha detto “sai che anch’io mi sento che succede oggi?”. Ivo, grande giovane uomo che ogni giorno ha portato i giornali che papà ha letto quasi fino all’ultimo, era con noi. Infinitamente grazie.
Nel pomeriggio battagliando con le gambe ha detto “aiutami, vedi che sto morendo!” come dimenticare una cosa così grande? Tenendogli la mano ho recitato a voce alta mentre nel mio cuore sgorgava violento e chiaro il desiderio di lasciarlo andare, e gliel’ho detto, parlando piano perché lui quasi sordo, dal giorno prima udiva di nuovo. “Vai adesso papà, non sopporto più di vederti così, ti ho perdonato di questo marasma, ce la farò da sola, credimi, vattene ti prego, fallo per me, te lo chiedo per favore, ho imparato abbastanza, grazie” e recitavo con mira precisa più forte che potevo.
La sera niente fame, stanchezza e inquietudine, l’indomani mi sarei arresa, controvoglia: l’infermiere diceva che non potevo più assisterlo, dovevo portarlo in hospice. Era vero non ce la facevo più ma non mi rassegnavo, con tutta me stessa volevo che l’ultimo respiro lo facesse nella sua camera da letto come era stato per mamma.
E alle 11 e mezza di notte, dopo una fatica grandiosa, si è lasciato andare. Due pianti violenti, addosso a Giuseppe (ex compagno di una vita, da due giorni con noi) che mi ha detto con gli occhi e un sorriso “è andato via, sii serena” e addosso a Fabio arrivato in un baleno. Grazie delle vostre braccia.
Mi piace pensare che papà abbia aspettato che venisse a recitare Dora quella sera, perché è vero quel che Amleto dice all’amico fidato “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia” e Dora si chiamava mia madre. La mattina, in chiusura di gongyo, alla campana per i morti dove fino alla sera prima c’era solo mamma, la mia voce s’è sfilata, Fabio e Ivo con me, Giuseppe di là a sistemare le ultime cose. Grazie di cuore. Ho messo a posto quella casa, casa mia, ora ci vivo. Una nuova casa per l’attività.
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Da quanto tempo conosco Silvia? Correva l'anno... non lo ricordo più... Erano gli anni del cazzeggio continuo su Repubblica, quando io mi chiamavo "Banane & Mazzette", Charly Brown si chiamava Charly Brown, Marcello si chiamava Diabolik, Bisi si chiamava Vergadiferro (modestamente), Silvia si chiamava Silvia... e poi moltissimi amici coi quali ho fatto molta strada insieme (da Repubblica, alla "Rassegna Stanca", al Tafanus)...
Poi un giorno ho avuto il piacere di conoscerla di persona, presso la sede della casa editrice di cui da anni cura l'Ufficio Stampa. Era esattamente come pensavo che fosse. Ironica, curiosa... Ti passa ai raggi X, ma non col distacco del radiologo alla ricerca della macchiolina. Piuttosto con la curiosità delle persone intelligenti. Silvia si è occupata, malauguratamente, più di parlare degli scritti altrui, che di produrne di propri. Però lo ha fatto. Sempre con quel suo stile da telegrafo morse, dove ogni parola risparmiata sembra una conquista. Credo che Silvia abbia fatto suo il motto di - se non ricordo male - G.B.Shaw: "...chiunque sia in grado di esprimere un concetto in dieci parole, e ne usi trenta, dovrebbe essere incarcerato..."
Di Silvia conservo gelosamente una copia della sua opera prima, [Il mare nel cielo], con una simpatica dedica. Per una volta si è sprecata, e anziché firmarsi "s", si è allargata fino a "Silvia Palombi"
Poi nell'ottobre 2008 ho pubblicato sul Tafanus una sua bellissima [lettera aperta] ad un Roberto Saviano entrato nel mirino della camorra che conserva, oggi più che mai, tutta la sua attualità.
Ora spero che ritrovi in fretta la sua serenità. e che non mi faccia mancare mai troppo a lungo le sue prolisse lettere di non meno di dieci/dodici parole, firmate "s"
Tafanus
Poi un giorno ho avuto il piacere di conoscerla di persona, presso la sede della casa editrice di cui da anni cura l'Ufficio Stampa. Era esattamente come pensavo che fosse. Ironica, curiosa... Ti passa ai raggi X, ma non col distacco del radiologo alla ricerca della macchiolina. Piuttosto con la curiosità delle persone intelligenti. Silvia si è occupata, malauguratamente, più di parlare degli scritti altrui, che di produrne di propri. Però lo ha fatto. Sempre con quel suo stile da telegrafo morse, dove ogni parola risparmiata sembra una conquista. Credo che Silvia abbia fatto suo il motto di - se non ricordo male - G.B.Shaw: "...chiunque sia in grado di esprimere un concetto in dieci parole, e ne usi trenta, dovrebbe essere incarcerato..."
Di Silvia conservo gelosamente una copia della sua opera prima, [Il mare nel cielo], con una simpatica dedica. Per una volta si è sprecata, e anziché firmarsi "s", si è allargata fino a "Silvia Palombi"
Poi nell'ottobre 2008 ho pubblicato sul Tafanus una sua bellissima [lettera aperta] ad un Roberto Saviano entrato nel mirino della camorra che conserva, oggi più che mai, tutta la sua attualità.
Ora spero che ritrovi in fretta la sua serenità. e che non mi faccia mancare mai troppo a lungo le sue prolisse lettere di non meno di dieci/dodici parole, firmate "s"
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