Molti hanno sentito accenni volanti di questa indignata reazione della scrittrice albanese Elvira Dones all'ultima (?) battuta sessista e cretina del nostro presidente-pappagallo latino. Pochi hanno avuto l'opportunità di leggerne il testo intero, bellissimo e terribile. Riceviamo questa lettera aperta al premier Silvio Berlusconi, in merito alla battuta del Cavaliere sulle “belle ragazze albanesi”. In visita a Tirana, durante l’incontro con Berisha, il premier aveva attaccato gli scafisti e aveva chiesto più vigilanza all’Albania. Poi aveva aggiunto: “Faremo eccezioni solo per chi porta belle ragazze”.. Nella foto: Elvira Dones - Tafanus
Egregio Signor Presidente del Consiglio,
le scrivo su un giornale che lei non legge, eppure qualche parola gliela devo, perché venerdì il suo disinvolto senso dello humor ha toccato persone a me molto care: “le belle ragazze albanesi”. Mentre il premier del mio paese d’origine, Sali Berisha, confermava l’impegno del suo esecutivo nella lotta agli scafisti, lei ha puntualizzato che “per chi porta belle ragazze possiamo fare un’eccezione.”
Io quelle “belle ragazze” le ho incontrate, ne ho incontrate a decine, di notte e di giorno, di nascosto dai loro magnaccia, le ho seguite da Garbagnate Milanese fino in Sicilia. Mi hanno raccontato sprazzi delle loro vite violate, strozzate, devastate. A “Stella” i suoi padroni avevano inciso sullo stomaco una parola: puttana. Era una bella ragazza con un difetto: rapita in Albania e trasportata in Italia, si rifiutava di andare sul marciapiede. Dopo un mese di stupri collettivi ad opera di magnaccia albanesi e soci italiani, le toccò piegarsi. Conobbe i marciapiedi del Piemonte, del Lazio, della Liguria, e chissà quanti altri. E’ solo allora – tre anni più tardi – che le incisero la sua professione sulla pancia: così, per gioco o per sfizio.
Ai tempi era una bella ragazza, sì. Oggi è solo un rifiuto della società, non si innamorerà mai più, non diventerà mai madre e nonna. Quel "puttana" sulla pancia le ha cancellato ogni barlume di speranza e di fiducia nell’uomo, il massacro dei clienti e dei protettori le ha distrutto l’utero.
Sulle “belle ragazze” scrissi un romanzo, pubblicato in Italia con il titolo "Sole bruciato". Anni più tardi girai un documentario per la tivù svizzera: andai in cerca di un’altra bella ragazza, si chiamava Brunilda. Suo padre mi aveva pregato in lacrime di indagare su di lei. Era un padre come tanti altri padri albanesi ai quali erano scomparse le figlie, rapite, mutilate, appese a testa in giù in macellerie dismesse se osavano ribellarsi. Era un padre come lei, Presidente, solo meno fortunato. E ancora oggi il padre di Brunilda non accetta che sua figlia sia morta per sempre, affogata in mare o giustiziata in qualche angolo di periferia. Lui continua a sperare, sogna il miracolo. E’ una storia lunga, Presidente… Ma se sapessi di poter contare sulla sua attenzione, le invierei una copia del mio libro, o le spedirei il documentario, o farei volentieri due chiacchiere con lei. Ma l’avviso, signor Presidente: alle battute rispondo, non le ingoio.
In nome di ogni Stella, Bianca, Brunilda e delle loro famiglie queste poche righe gliele dovevo. In questi vent’anni di difficile transizione l’Albania s’è inflitta molte sofferenze e molte ferite con le sue stesse mani, ma nel popolo albanese cresce anche la voglia di poter finalmente camminare a spalle dritte e testa alta. L’Albania non ha più pazienza né comprensione per le umiliazioni gratuite. Credo che se lei la smettesse di considerare i drammi umani come materiale per battutacce da bar a tarda ora, non avrebbe che da guadagnarci.
Questa "battuta" mi sembra sia passata sottotono in questi giorni in cui infuria la polemica Bertolaso, ma si lega profondamente al pensiero e alle azioni di uomini come Berlusconi e company: pensieri e azioni in cui il rispetto per le donne é messo sotto i piedi ogni giorno, azioni che non sono meno criminali di quelle compiute da coloro che sfruttano le ragazze albanesi, sono solo camuffate sotto gesti galanti o regali costosi. Mi vergogno profondamente e chiedo scusa anch'io a tutte le donne albanesi
Elvira Dones
Egregio Signor Presidente del Consiglio,
le scrivo su un giornale che lei non legge, eppure qualche parola gliela devo, perché venerdì il suo disinvolto senso dello humor ha toccato persone a me molto care: “le belle ragazze albanesi”. Mentre il premier del mio paese d’origine, Sali Berisha, confermava l’impegno del suo esecutivo nella lotta agli scafisti, lei ha puntualizzato che “per chi porta belle ragazze possiamo fare un’eccezione.”
Io quelle “belle ragazze” le ho incontrate, ne ho incontrate a decine, di notte e di giorno, di nascosto dai loro magnaccia, le ho seguite da Garbagnate Milanese fino in Sicilia. Mi hanno raccontato sprazzi delle loro vite violate, strozzate, devastate. A “Stella” i suoi padroni avevano inciso sullo stomaco una parola: puttana. Era una bella ragazza con un difetto: rapita in Albania e trasportata in Italia, si rifiutava di andare sul marciapiede. Dopo un mese di stupri collettivi ad opera di magnaccia albanesi e soci italiani, le toccò piegarsi. Conobbe i marciapiedi del Piemonte, del Lazio, della Liguria, e chissà quanti altri. E’ solo allora – tre anni più tardi – che le incisero la sua professione sulla pancia: così, per gioco o per sfizio.
Ai tempi era una bella ragazza, sì. Oggi è solo un rifiuto della società, non si innamorerà mai più, non diventerà mai madre e nonna. Quel "puttana" sulla pancia le ha cancellato ogni barlume di speranza e di fiducia nell’uomo, il massacro dei clienti e dei protettori le ha distrutto l’utero.
Sulle “belle ragazze” scrissi un romanzo, pubblicato in Italia con il titolo "Sole bruciato". Anni più tardi girai un documentario per la tivù svizzera: andai in cerca di un’altra bella ragazza, si chiamava Brunilda. Suo padre mi aveva pregato in lacrime di indagare su di lei. Era un padre come tanti altri padri albanesi ai quali erano scomparse le figlie, rapite, mutilate, appese a testa in giù in macellerie dismesse se osavano ribellarsi. Era un padre come lei, Presidente, solo meno fortunato. E ancora oggi il padre di Brunilda non accetta che sua figlia sia morta per sempre, affogata in mare o giustiziata in qualche angolo di periferia. Lui continua a sperare, sogna il miracolo. E’ una storia lunga, Presidente… Ma se sapessi di poter contare sulla sua attenzione, le invierei una copia del mio libro, o le spedirei il documentario, o farei volentieri due chiacchiere con lei. Ma l’avviso, signor Presidente: alle battute rispondo, non le ingoio.
In nome di ogni Stella, Bianca, Brunilda e delle loro famiglie queste poche righe gliele dovevo. In questi vent’anni di difficile transizione l’Albania s’è inflitta molte sofferenze e molte ferite con le sue stesse mani, ma nel popolo albanese cresce anche la voglia di poter finalmente camminare a spalle dritte e testa alta. L’Albania non ha più pazienza né comprensione per le umiliazioni gratuite. Credo che se lei la smettesse di considerare i drammi umani come materiale per battutacce da bar a tarda ora, non avrebbe che da guadagnarci.
Questa "battuta" mi sembra sia passata sottotono in questi giorni in cui infuria la polemica Bertolaso, ma si lega profondamente al pensiero e alle azioni di uomini come Berlusconi e company: pensieri e azioni in cui il rispetto per le donne é messo sotto i piedi ogni giorno, azioni che non sono meno criminali di quelle compiute da coloro che sfruttano le ragazze albanesi, sono solo camuffate sotto gesti galanti o regali costosi. Mi vergogno profondamente e chiedo scusa anch'io a tutte le donne albanesi
Elvira Dones
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"...sopporto con pazienza, devo solo aspettare che il mio corpo arrivi a casa. Voglio vedere per l’ultima volta mamma e per la prima volta la tomba di Aurora. Dopodiché, me ne andrò, una volta e per sempre. È lunedì. Il lunedì è sempre stato il mio giorno fortunato. Oggi è lunedì. Lunedì, 5 marzo 1997.
Riesco a vedere il mio corpo fatto a fette come un melone e contemporaneamente l’uomo che lo ha ridotto così. Piange, ma sta attento a non farsi scoprire, a non uscire dalla colonna dietro cui si è nascosto. È una cosa alquanto strana vedere te stessa dentro una bara. Sapere che non potrai più toccare nessuno, né bere una tazza di caffè o pettinarti. Fa un certo effetto anche vedere chi ha pugnalato il tuo corpo e non potere apparirgli davanti in veste di fantasma, facendolo urlare di spavento come in una tragedia, in una allucinante corsa senza fine.
Lui sta soffrendo. Certo, soffre, ma non abbastanza da costituirsi alla polizia. Tanto sa bene che l’indagine si chiuderà in fretta. Per un po’ di tempo cercheranno l’ennesimo assassino dell’ennesima prostituta, dopodiché tutto sarà archiviato. Non vale proprio la pena di sprecare denaro pubblico per una puttana venuta da Laggiù. Selvaggi, ci tocca pure sopportarli. Non potevano capitarci vicini migliori invece di questi disperati, loro e la loro terra desolata? Ma i vicini, esattamente come i parenti, non li puoi scegliere: se ti è toccato in sorte un parente debosciato sei finito, devi tenertelo per tutta la vita. E quando ti capita un vicino miserabile hai due vie d’uscita: o lo riduci in schiavitù o cambi casa. Ma gli stati non cambiano casa: possono però cambiare le cose – i costumi e le usanze, le strategie e gli eserciti, i governanti e gli alleati. Se lo desiderano, perfino i nomi, ma la casa no.
Quanto a tener sotto controllo quella gente disperata, be’, purtroppo questo è per il momento impossibile. Il mio dossier si riempirà di polvere, chiuso dentro qualche scaffale. Lì ci sono le mie fotografie di quando facevo la puttana, con quel trucco osceno che odiavo con tutta me stessa. E anche quelle del mio corpo squartato come una bestia da macello.
Un tipo della Criminale scattava foto canticchiando una canzonetta di successo. Mi fotografava il collo da pochi centimetri. Stava accucciato, con le gambe appoggiate sulle costole. Piegato in due, scattava e canticchiava. Mentre è tutto impegnato nell’operazione, gli squilla il cellulare.
Ehi, ciao… No, ora non posso… È urgente? Senti, ne parliamo stasera, ora sono preso… Ma no, niente di che, hanno ammazzato una puttana… Come dici? No, proprio massacrata, non puoi avere idea… L’hanno ridotta uno spezzatino…
Do veramente quest’impressione? Io non sono una puttana, non lo sono mai stata. Fortuna che tenevo in tasca un foglio con il mio nome e cognome. E fortuna che la polizia l’ha trovato. Almeno potranno risalire alla mia identità e avvertire i miei genitori.
Vabbè, occhei, ma però, anche tu… Eddài, nun t’arrabbià, su… Ne parliamo stasera… E vabbè… Occhei, ti porto a cena… Senti, nun t’spettà chissacché, vabbè? Eh, sto un po’ a corto… Eh, sì, una pizza… Occhei… Vabbè… Sì, ciao, un bacio… Anch’io… Sì, scusa, ciao.
Eccheppalle!, sbottò il fotografo. Che strazio, ’sta donna. Spense il cellulare e continuò a scattare finché non gli dissero che bastava.
Papà si asciuga il sudore. Piange tanto da far gemere il legno del traghetto. Perdonami, papà. Non ti meritavi un colpo simile. Fortuna che i cadaveri non arrossiscono, altrimenti non sarei riuscita nemmeno a guardarti negli occhi. Non volevo tornare viva, come avrei potuto ingannarvi? …"
Dal romanzo "Sole bruciato", di Elvira Dones. Feltrinelli, 2001
N.B.:La versone italiana è esaurita. Esiste la possibilità di acquistare la versione in francese attraverso Amazon France
"...sopporto con pazienza, devo solo aspettare che il mio corpo arrivi a casa. Voglio vedere per l’ultima volta mamma e per la prima volta la tomba di Aurora. Dopodiché, me ne andrò, una volta e per sempre. È lunedì. Il lunedì è sempre stato il mio giorno fortunato. Oggi è lunedì. Lunedì, 5 marzo 1997.
Riesco a vedere il mio corpo fatto a fette come un melone e contemporaneamente l’uomo che lo ha ridotto così. Piange, ma sta attento a non farsi scoprire, a non uscire dalla colonna dietro cui si è nascosto. È una cosa alquanto strana vedere te stessa dentro una bara. Sapere che non potrai più toccare nessuno, né bere una tazza di caffè o pettinarti. Fa un certo effetto anche vedere chi ha pugnalato il tuo corpo e non potere apparirgli davanti in veste di fantasma, facendolo urlare di spavento come in una tragedia, in una allucinante corsa senza fine.
Lui sta soffrendo. Certo, soffre, ma non abbastanza da costituirsi alla polizia. Tanto sa bene che l’indagine si chiuderà in fretta. Per un po’ di tempo cercheranno l’ennesimo assassino dell’ennesima prostituta, dopodiché tutto sarà archiviato. Non vale proprio la pena di sprecare denaro pubblico per una puttana venuta da Laggiù. Selvaggi, ci tocca pure sopportarli. Non potevano capitarci vicini migliori invece di questi disperati, loro e la loro terra desolata? Ma i vicini, esattamente come i parenti, non li puoi scegliere: se ti è toccato in sorte un parente debosciato sei finito, devi tenertelo per tutta la vita. E quando ti capita un vicino miserabile hai due vie d’uscita: o lo riduci in schiavitù o cambi casa. Ma gli stati non cambiano casa: possono però cambiare le cose – i costumi e le usanze, le strategie e gli eserciti, i governanti e gli alleati. Se lo desiderano, perfino i nomi, ma la casa no.
Quanto a tener sotto controllo quella gente disperata, be’, purtroppo questo è per il momento impossibile. Il mio dossier si riempirà di polvere, chiuso dentro qualche scaffale. Lì ci sono le mie fotografie di quando facevo la puttana, con quel trucco osceno che odiavo con tutta me stessa. E anche quelle del mio corpo squartato come una bestia da macello.
Un tipo della Criminale scattava foto canticchiando una canzonetta di successo. Mi fotografava il collo da pochi centimetri. Stava accucciato, con le gambe appoggiate sulle costole. Piegato in due, scattava e canticchiava. Mentre è tutto impegnato nell’operazione, gli squilla il cellulare.
Ehi, ciao… No, ora non posso… È urgente? Senti, ne parliamo stasera, ora sono preso… Ma no, niente di che, hanno ammazzato una puttana… Come dici? No, proprio massacrata, non puoi avere idea… L’hanno ridotta uno spezzatino…
Do veramente quest’impressione? Io non sono una puttana, non lo sono mai stata. Fortuna che tenevo in tasca un foglio con il mio nome e cognome. E fortuna che la polizia l’ha trovato. Almeno potranno risalire alla mia identità e avvertire i miei genitori.
Vabbè, occhei, ma però, anche tu… Eddài, nun t’arrabbià, su… Ne parliamo stasera… E vabbè… Occhei, ti porto a cena… Senti, nun t’spettà chissacché, vabbè? Eh, sto un po’ a corto… Eh, sì, una pizza… Occhei… Vabbè… Sì, ciao, un bacio… Anch’io… Sì, scusa, ciao.
Eccheppalle!, sbottò il fotografo. Che strazio, ’sta donna. Spense il cellulare e continuò a scattare finché non gli dissero che bastava.
Papà si asciuga il sudore. Piange tanto da far gemere il legno del traghetto. Perdonami, papà. Non ti meritavi un colpo simile. Fortuna che i cadaveri non arrossiscono, altrimenti non sarei riuscita nemmeno a guardarti negli occhi. Non volevo tornare viva, come avrei potuto ingannarvi? …"
Dal romanzo "Sole bruciato", di Elvira Dones. Feltrinelli, 2001
N.B.:La versone italiana è esaurita. Esiste la possibilità di acquistare la versione in francese attraverso Amazon France
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