Per l’ennesima volta, ieri, il papa è tornato a parlare di “Penitenza”. Lo ha fatto durante l’omelia tenuta nella cappella Paolina. Ha detto: “Noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola "penitenza", ma adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parla dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario far penitenza”.
Non me ne vogliate e, credetemi, non voglio cercare sempre e a tutti i costi, come si suol dire, “il pelo nell’uovo”. Ma c’è qualcosa che non va.
Ci sono scandali a ripetizione e diffusi, scandali gravi e occultati che stanno minando la credibilità di una chiesa ormai incapace di parlare agli uomini e alle donne di questo tormentato terzo millennio e noi cosa si fa? Ricorriamo al solito armamentario lessicale, tutto clericale, che dice tutto e niente: “peccato e penitenza; penitenza e peccato”. Questi termini, ormai usati ed abusati, li trovo banali, vuoti, sciatti, incapaci a veicolare la sofferenze e la rabbia e la volontà di dare una sterzata ad un andazzo comunque da interrompere. Non so se a voi capita la stessa cosa. Ma sentirmi parlare di peccato e di penitenza di fronte ai mali di ogni sorta e di ogni genere è come un voler chiamare “Tizia” o “Caio” le singole donne e i singoli uomini che un minimo di decenza vorrebbe venissero chiamati con il loro nomi e cognomi propri. Un vizio tutto clericale. Una mania tutta pretigna: quella di ricoprire in un grigiore uniforme e indistinto le varie e diverse differenze. Hai fatto l’amore usando il preservativo? “E’ peccato! Fai penitenza!”. Hai ucciso una persona? “E’ peccato! Fai penitenza!”. Hai rubato un cioccolatino? “E’ peccato! Fai penitenza!”. Hai evaso miliardi? “E’ ugualmente peccato e fai lo stesso penitenza!”.
Per non parlare poi di questo ricorso ossessivo alla colpa senza interrogarsi sulle responsabilità. E’ troppo comodo, è immoralmente devastante; perché la colpa ci tranquillizza mentre la responsabilità ci interroga.
"Cercare la colpa è molto più facile, e più rassicurante che non interrogarci su responsabilità che possono anche coinvolgerci, metterci in gioco. La colpa permette di incontrare il colpevole,o presunto tale. E in questo modo ci permette di liberare la nostra coscienza. Liberarla da quei sottili vincoli che ci uniscono gli uni agli altri. La responsabilità invece è un itinerario molto più complesso, perché ci obbliga a ragionare, a stare nei termini della corresponsabilità". E’ la bellissima e profonda riflessione che ha fatto Giancarlo Caselli in una delle sue conferenze in giro per l’Italia non molto tempo fa.
"Quando una parola viene utilizzata molte volte in molteplici contesti, si espone al rischio di genericità e di ambiguità" ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini in un “dialogo sulla Solidarietà”.
Ivan Illich, nel meeting di San Rossore che ha preceduto il G8, alla fine del novecento, ha messo in guardia contro le parole che inquinano, le "parole di plastica" che sterilizzano ed occultano i fenomeni che vorrebbero descrivere. Ebbene “Peccato” e “Penitenza” sono di queste parole, che mi infastidiscono quando le ascolto e che io non uso ormai da tempo.
Aldo Antonelli
Non me ne vogliate e, credetemi, non voglio cercare sempre e a tutti i costi, come si suol dire, “il pelo nell’uovo”. Ma c’è qualcosa che non va.
Ci sono scandali a ripetizione e diffusi, scandali gravi e occultati che stanno minando la credibilità di una chiesa ormai incapace di parlare agli uomini e alle donne di questo tormentato terzo millennio e noi cosa si fa? Ricorriamo al solito armamentario lessicale, tutto clericale, che dice tutto e niente: “peccato e penitenza; penitenza e peccato”. Questi termini, ormai usati ed abusati, li trovo banali, vuoti, sciatti, incapaci a veicolare la sofferenze e la rabbia e la volontà di dare una sterzata ad un andazzo comunque da interrompere. Non so se a voi capita la stessa cosa. Ma sentirmi parlare di peccato e di penitenza di fronte ai mali di ogni sorta e di ogni genere è come un voler chiamare “Tizia” o “Caio” le singole donne e i singoli uomini che un minimo di decenza vorrebbe venissero chiamati con il loro nomi e cognomi propri. Un vizio tutto clericale. Una mania tutta pretigna: quella di ricoprire in un grigiore uniforme e indistinto le varie e diverse differenze. Hai fatto l’amore usando il preservativo? “E’ peccato! Fai penitenza!”. Hai ucciso una persona? “E’ peccato! Fai penitenza!”. Hai rubato un cioccolatino? “E’ peccato! Fai penitenza!”. Hai evaso miliardi? “E’ ugualmente peccato e fai lo stesso penitenza!”.
Per non parlare poi di questo ricorso ossessivo alla colpa senza interrogarsi sulle responsabilità. E’ troppo comodo, è immoralmente devastante; perché la colpa ci tranquillizza mentre la responsabilità ci interroga.
"Cercare la colpa è molto più facile, e più rassicurante che non interrogarci su responsabilità che possono anche coinvolgerci, metterci in gioco. La colpa permette di incontrare il colpevole,o presunto tale. E in questo modo ci permette di liberare la nostra coscienza. Liberarla da quei sottili vincoli che ci uniscono gli uni agli altri. La responsabilità invece è un itinerario molto più complesso, perché ci obbliga a ragionare, a stare nei termini della corresponsabilità". E’ la bellissima e profonda riflessione che ha fatto Giancarlo Caselli in una delle sue conferenze in giro per l’Italia non molto tempo fa.
"Quando una parola viene utilizzata molte volte in molteplici contesti, si espone al rischio di genericità e di ambiguità" ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini in un “dialogo sulla Solidarietà”.
Ivan Illich, nel meeting di San Rossore che ha preceduto il G8, alla fine del novecento, ha messo in guardia contro le parole che inquinano, le "parole di plastica" che sterilizzano ed occultano i fenomeni che vorrebbero descrivere. Ebbene “Peccato” e “Penitenza” sono di queste parole, che mi infastidiscono quando le ascolto e che io non uso ormai da tempo.
Aldo Antonelli
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