Lo strappo dell'ex leader di AN, la presa di distanza di Tremonti. Per il governo Berlusconi il percorso si fa più difficile. Mentre si riaprono i giochi al centro degli schieramenti
Si incontrano nel fine settimana, appuntamento nella Casina Pio IV, nel cuore dei giardini vaticani, scenario ideale per colloqui riservati, nei dintorni di una peschiera ricca di trote e di tartarughe acquatiche dove, si narra, nel corso dei secoli usavano darsi appuntamento i vertici ecclesiastici per discutere delle questioni più delicate, al riparo da uditi indiscreti, ben protetti dal rumore delle acque. La piccola politica di casa nostra passa di qui, dove si pianificano le grandi strategie mondiali. Perché è una felice coincidenza che tra gli invitati al convegno organizzato dal Vaticano su "Crisis in a global economy", ospiti del cardinale Tarcisio Bertone, ci siano anche due italiani di peso, due illustri ex allievi del Massimo, il liceo dei gesuiti della capitale, l'ex presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo e il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Affiancati dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, dal fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi e da uno dei capi dell'Udc Rocco Buttiglione. Un parterre internazionale, con premi Nobel, nomi noti dell'economia e della finanza mondiale per discutere della grande crisi. Il convitato di pietra nelle manovre del Palazzo, in questa primavera sospesa.
La crisi economica, il rischio di fare la fine della Grecia e il gruppo misto. Il fantasma delle elezioni anticipate e la contromossa, la solita da agitare in questi momenti: il governo tecnico. Con una maggioranza da cercare in Parlamento: chi ci sta ci sta. Con la guida da affidare a personaggi indipendenti e autorevoli, come alcuni di quelli convocati in Vaticano nel fine settimana. Un'eventualità piuttosto remota, se non fosse che a evocarla è stato lo storico Alessandro Campi, direttore della fondazione di Gianfranco Fini Fare Futuro, nei giorni in cui la rottura tra Berlusconi e Fini ha toccato punte di melodramma e la Lega ha minacciato elezioni anticipate. E se non fosse che a Palazzo Chigi, a Montecitorio, nelle segreterie dei partiti ma anche al Qurinale nessuno scommette più un centesimo sulla scadenza naturale della legislatura. A neppure un mese dalle elezioni regionali che avevano consegnato al tandem Berlusconi-Bossi le chiavi per riscrivere la Costituzione con due priorità dichiarate, il federalismo e il presidenzialismo, e la giustizia sullo sfondo.
Tutto da rifare. Con i due ex amici, la coppia Silvio-Gianfranco finita a male parole, che vorrebbero scaricare uno sull'altro il costo della separazione. "Andare alle elezioni anticipate con questa situazione economica sarebbe irresponsabile, rischiamo di esporre l'Italia al crac Grecia. E sarebbe il fallimento di Berlusconi", ripete il presidente della Camera. "Ma senza riforme è meglio tornare alle urne", replicano i pasdaran berlusconiani, non molto convinti, in verità. La minaccia appare un'arma spuntata: anche perché il partito del non voto ha trovato una settimana fa un leader a sorpresa proprio mentre infuriava lo scontro tra i due fondatori, nel cuore della direzione del Pdl.
"Siamo ancora dentro la crisi", ha scandito il ministro dell'Economia Giulio Tremonti alla riunione dove si è consumato lo strappo tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Per limitare i danni dell'intervento del presidente della Camera la regia del partitone azzurro aveva previsto che tutti i ministri del governo Berlusconi parlassero prima di Fini per magnificare l'operato del Cavaliere e dei suoi fedeli. Da oscar l'interpretazione di Franco Frattini, ministro degli Esteri fantasma, trasformato in chierichetto del berlusconismo: "Obama ha fatto quello che gli abbiamo detto di fare noi", si vanta: "Ho difeso il papa in mondovisione". Successi planetari passati inosservati. Quando tocca a lui Tremonti gela subito gli entusiasmi della platea e infila un discorso controcorrente: "Se non abbiamo fatto la fine della Grecia è merito del governo, ma non dobbiamo stare sulle onde corte dei fatti quotidiani". Toni soft su Fini, appena una citazione di don Sturzo contro le correnti, con la benevolenza dei notabili democristiani di rango. E qualche verità sferzante per l'orgoglio del Pdl: "Attenzione. Nel Nord non abbiamo vinto noi. Ha vinto la Lega e ha perso la sinistra".
Parole stranamente in sintonia con quelle pronunciate dal presidente della Camera nel discorso che ha fatto imbestialire il premier. A palazzo Grazioli non hanno per nulla apprezzato lo smarcamento di Tremonti. E studiano con attenzione le sue mosse: per esempio il ruolo assunto nel risiko delle fondazioni bancarie da Massimo Ponzellini, presidente della Banca popolare di Milano, uomo di cerniera tra Tremonti e la Lega. Partite che si giocano in un'ottica fin da ora post-berlusconiana.
Strategie da aggiornare, rapidamente. Lo dimostra l'impasse di Pier Ferdinando Casini, di solito onnipresente sui media e sparito dai talk show televisivi da quattro settimane. Incertezza sulla direzione da prendere: puntare sul terzo polo con l'Api di Francesco Rutelli, mantenere un rapporto privilegiato con il Pd di Pier Luigi Bersani, consegnarsi al Cavaliere come nuovo alleato fedele al posto dell'ingrato Fini. Strada sconsigliata dalla brutta figura incassata nel Lazio, dove l'Udc si è schierato con il Pdl e dove gli aspiranti assessori centristi della giunta Polverini sono stati scaricati senza troppi patemi. "Il tempo delle furbizie e dei due forni è finito anche per Casini. Lo scossone nel Pdl provocato da Fini costringe tutti a cambiare passo, a cominciare da noi dell'opposizione", avverte Bruno Tabacci, ieri nell'Udc, oggi nell'Api rutelliano, sostenitore interessato del tentativo di emancipazione dell'ex leader di An dal Cavaliere. "Fini vuole ripristinare l'articolo 67 della Costituzione, che prevede il divieto di mandato per i parlamentari. Ritorno alla libertà d'azione per i singoli deputati e senatori, senza cedimenti alle segreterie di partito".
Mica facile: le liste bloccate del Porcellum limitano al minimo gli spostamenti da una formazione all'altra. Alla Camera gli iscritti al gruppo misto, i senza partito, sono 31: tra loro, otto sono dell'Api di Rutelli, quattro dell'Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, i tre liberaldemocratici (gli ex di Lamberto Dini), più altre formazioni minori e alcuni cani sciolti incontrollabili tipo Paolo Guzzanti. Indispensabili per fare maggioranza in caso di crisi del governo Berlusconi, terrorizzati dal pericolo elezioni, nessuno li prenderebbe in carico per ricandidarli. Più incerti i numeri della componente finiana nel Pdl che tra una riunione e l'altra ha perso qualche pezzo per strada: all'ultimo incontro nella sala Tatarella a Montecitorio erano 45, tra deputati e senatori, troppo pochi per sperare di essere decisivi per le sorti della legislatura. Anche se, sperano i fedelissimi di Fini, in caso di crisi provocata dalla Lega o pilotata da Palazzo Chigi, i numeri dei dissidenti riprenderebbero a salire, per paura delle elezioni anticipate. E farebbero proselitismo anche tra gli ex forzisti arrivati al terzo incarico da parlamentari che non saranno ricandidati.
Un pallottoliere solo virtuale, per ora. "Conto lo 0,1 per cento", scherza Fini, consapevole che se si sposta sul terreno dei numeri la sfida con Berlusconi è persa in partenza. Meglio, molto meglio allontanarsi dall'asfittico Transatlantico, sempre più deserto, e dimostrare che la partita si gioca su altri campi. Quello televisivo: a nessun leader che non sia il Cavaliere è stato permesso un tour de force sulle reti Rai in tre tappe, Annunziata-Floris-Vespa, ogni sera un'esternazione finiana, e per fortuna che il presidente della Camera non si è affacciato negli studi di Michele Santoro, almeno per ora. E sul campo dei rapporti che contano: vedi l'incontro tra Fini e Montezemolo alla presentazione del rapporto della Luiss sulla classe dirigente. Luca e Gianfranco hanno già discusso del tema sei mesi fa alla prima uscita dell'associazione montezemoliana Italia Futura. Sarà mister Ferrari il nuovo partner con cui Fini si rifarà una vita dopo il divorzio dal Cavaliere?
Di certo bisogna trovare subito una via d'uscita. Perché il governo tecnico per ora è solo una suggestione, una metafora. Ma i due litiganti del Pdl hanno ben presenti i concretissimi termini della questione. Berlusconi sa molto bene che nei prossimi tre anni difficilmente potrà aspirare al Quirinale, e la Lega incassare un federalismo hard, con Fini che si mette di traverso. E Fini è consapevole che il duello avviato si potrà concludere solo con la sua estromissione dalle liste del Pdl e dunque dal Parlamento, impossibile pensare in queste condizioni a una sua ricandidatura in una lista che porta il nome di Berlusconi. Uno dei due andrà eliminato. Silvio deve cercarsi un altro Parlamento, Gianfranco un altro partito. Se Montezemolo aiuta.
(di Marco Damilano - l'Espresso)
La crisi economica, il rischio di fare la fine della Grecia e il gruppo misto. Il fantasma delle elezioni anticipate e la contromossa, la solita da agitare in questi momenti: il governo tecnico. Con una maggioranza da cercare in Parlamento: chi ci sta ci sta. Con la guida da affidare a personaggi indipendenti e autorevoli, come alcuni di quelli convocati in Vaticano nel fine settimana. Un'eventualità piuttosto remota, se non fosse che a evocarla è stato lo storico Alessandro Campi, direttore della fondazione di Gianfranco Fini Fare Futuro, nei giorni in cui la rottura tra Berlusconi e Fini ha toccato punte di melodramma e la Lega ha minacciato elezioni anticipate. E se non fosse che a Palazzo Chigi, a Montecitorio, nelle segreterie dei partiti ma anche al Qurinale nessuno scommette più un centesimo sulla scadenza naturale della legislatura. A neppure un mese dalle elezioni regionali che avevano consegnato al tandem Berlusconi-Bossi le chiavi per riscrivere la Costituzione con due priorità dichiarate, il federalismo e il presidenzialismo, e la giustizia sullo sfondo.
Tutto da rifare. Con i due ex amici, la coppia Silvio-Gianfranco finita a male parole, che vorrebbero scaricare uno sull'altro il costo della separazione. "Andare alle elezioni anticipate con questa situazione economica sarebbe irresponsabile, rischiamo di esporre l'Italia al crac Grecia. E sarebbe il fallimento di Berlusconi", ripete il presidente della Camera. "Ma senza riforme è meglio tornare alle urne", replicano i pasdaran berlusconiani, non molto convinti, in verità. La minaccia appare un'arma spuntata: anche perché il partito del non voto ha trovato una settimana fa un leader a sorpresa proprio mentre infuriava lo scontro tra i due fondatori, nel cuore della direzione del Pdl.
"Siamo ancora dentro la crisi", ha scandito il ministro dell'Economia Giulio Tremonti alla riunione dove si è consumato lo strappo tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Per limitare i danni dell'intervento del presidente della Camera la regia del partitone azzurro aveva previsto che tutti i ministri del governo Berlusconi parlassero prima di Fini per magnificare l'operato del Cavaliere e dei suoi fedeli. Da oscar l'interpretazione di Franco Frattini, ministro degli Esteri fantasma, trasformato in chierichetto del berlusconismo: "Obama ha fatto quello che gli abbiamo detto di fare noi", si vanta: "Ho difeso il papa in mondovisione". Successi planetari passati inosservati. Quando tocca a lui Tremonti gela subito gli entusiasmi della platea e infila un discorso controcorrente: "Se non abbiamo fatto la fine della Grecia è merito del governo, ma non dobbiamo stare sulle onde corte dei fatti quotidiani". Toni soft su Fini, appena una citazione di don Sturzo contro le correnti, con la benevolenza dei notabili democristiani di rango. E qualche verità sferzante per l'orgoglio del Pdl: "Attenzione. Nel Nord non abbiamo vinto noi. Ha vinto la Lega e ha perso la sinistra".
Parole stranamente in sintonia con quelle pronunciate dal presidente della Camera nel discorso che ha fatto imbestialire il premier. A palazzo Grazioli non hanno per nulla apprezzato lo smarcamento di Tremonti. E studiano con attenzione le sue mosse: per esempio il ruolo assunto nel risiko delle fondazioni bancarie da Massimo Ponzellini, presidente della Banca popolare di Milano, uomo di cerniera tra Tremonti e la Lega. Partite che si giocano in un'ottica fin da ora post-berlusconiana.
Strategie da aggiornare, rapidamente. Lo dimostra l'impasse di Pier Ferdinando Casini, di solito onnipresente sui media e sparito dai talk show televisivi da quattro settimane. Incertezza sulla direzione da prendere: puntare sul terzo polo con l'Api di Francesco Rutelli, mantenere un rapporto privilegiato con il Pd di Pier Luigi Bersani, consegnarsi al Cavaliere come nuovo alleato fedele al posto dell'ingrato Fini. Strada sconsigliata dalla brutta figura incassata nel Lazio, dove l'Udc si è schierato con il Pdl e dove gli aspiranti assessori centristi della giunta Polverini sono stati scaricati senza troppi patemi. "Il tempo delle furbizie e dei due forni è finito anche per Casini. Lo scossone nel Pdl provocato da Fini costringe tutti a cambiare passo, a cominciare da noi dell'opposizione", avverte Bruno Tabacci, ieri nell'Udc, oggi nell'Api rutelliano, sostenitore interessato del tentativo di emancipazione dell'ex leader di An dal Cavaliere. "Fini vuole ripristinare l'articolo 67 della Costituzione, che prevede il divieto di mandato per i parlamentari. Ritorno alla libertà d'azione per i singoli deputati e senatori, senza cedimenti alle segreterie di partito".
Mica facile: le liste bloccate del Porcellum limitano al minimo gli spostamenti da una formazione all'altra. Alla Camera gli iscritti al gruppo misto, i senza partito, sono 31: tra loro, otto sono dell'Api di Rutelli, quattro dell'Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, i tre liberaldemocratici (gli ex di Lamberto Dini), più altre formazioni minori e alcuni cani sciolti incontrollabili tipo Paolo Guzzanti. Indispensabili per fare maggioranza in caso di crisi del governo Berlusconi, terrorizzati dal pericolo elezioni, nessuno li prenderebbe in carico per ricandidarli. Più incerti i numeri della componente finiana nel Pdl che tra una riunione e l'altra ha perso qualche pezzo per strada: all'ultimo incontro nella sala Tatarella a Montecitorio erano 45, tra deputati e senatori, troppo pochi per sperare di essere decisivi per le sorti della legislatura. Anche se, sperano i fedelissimi di Fini, in caso di crisi provocata dalla Lega o pilotata da Palazzo Chigi, i numeri dei dissidenti riprenderebbero a salire, per paura delle elezioni anticipate. E farebbero proselitismo anche tra gli ex forzisti arrivati al terzo incarico da parlamentari che non saranno ricandidati.
Un pallottoliere solo virtuale, per ora. "Conto lo 0,1 per cento", scherza Fini, consapevole che se si sposta sul terreno dei numeri la sfida con Berlusconi è persa in partenza. Meglio, molto meglio allontanarsi dall'asfittico Transatlantico, sempre più deserto, e dimostrare che la partita si gioca su altri campi. Quello televisivo: a nessun leader che non sia il Cavaliere è stato permesso un tour de force sulle reti Rai in tre tappe, Annunziata-Floris-Vespa, ogni sera un'esternazione finiana, e per fortuna che il presidente della Camera non si è affacciato negli studi di Michele Santoro, almeno per ora. E sul campo dei rapporti che contano: vedi l'incontro tra Fini e Montezemolo alla presentazione del rapporto della Luiss sulla classe dirigente. Luca e Gianfranco hanno già discusso del tema sei mesi fa alla prima uscita dell'associazione montezemoliana Italia Futura. Sarà mister Ferrari il nuovo partner con cui Fini si rifarà una vita dopo il divorzio dal Cavaliere?
Di certo bisogna trovare subito una via d'uscita. Perché il governo tecnico per ora è solo una suggestione, una metafora. Ma i due litiganti del Pdl hanno ben presenti i concretissimi termini della questione. Berlusconi sa molto bene che nei prossimi tre anni difficilmente potrà aspirare al Quirinale, e la Lega incassare un federalismo hard, con Fini che si mette di traverso. E Fini è consapevole che il duello avviato si potrà concludere solo con la sua estromissione dalle liste del Pdl e dunque dal Parlamento, impossibile pensare in queste condizioni a una sua ricandidatura in una lista che porta il nome di Berlusconi. Uno dei due andrà eliminato. Silvio deve cercarsi un altro Parlamento, Gianfranco un altro partito. Se Montezemolo aiuta.
(di Marco Damilano - l'Espresso)
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