Blindato l’anello a rischio di una catena esplosiva: se emerge una cricca del nord salta tutto
Se è Calderoli a dire, unico, che «quella di Brancher non è stata una nomina improvvisa» c’è da credergli. Perché attraverso quella nomina, sul piano politico, si sta cercando di evitare il rischio di tornare ad accendere prepotentemente i riflettori sui rapporti tra Fiorani e il Carroccio: o quanto meno una parte del Carroccio. Una deflagrazione all’interno della Lega potrebbe per effetto domino far saltare la maggioranza e lo stesso governo. Il giallo a questo punto è risolto. Brancher è stato fatto ministro per proteggere attraverso lo scudo del legittimo impedimento – da lui subito utilizzato per evitare l’udienza di oggi – ben altro che lui medesimo dal processo Banca popolare di Lodi-Antonveneta. Perché altrimenti premiare proprio Brancher e non invece Denis Verdini indagato per corruzione e riciclaggio, assai più uomo-chiave per Berlusconi essendo di fatto il coordinatore unico e l’immagine del Pdl?
Perché il caso Brancher ha una sua unicità. Il motivo dell’imbarazzo di Bossi (sul pasticcio delle deleghe affidategli, non già sulla decisione dell’upgrading a ministro) e in certa misura del prolungato silenzio di Fini è che Brancher è la punta di un iceberg che, se si sgretola, può far davvero saltare in aria maggioranza e governo, scombinando i piani di chi – praticamente tutti a eccezione di Berlusconi – ha bisogno di più tempo per cucinare il Cavaliere, e non vogliono precipitare nelle elezioni anticipate.
Quell’iceberg a rischio di frattura è l’asse Pdl-Lega, è il patto Berlusconi-Bossi. Quell’iceberg è di più ancora: è il patto Tremonti-Lega, cioè anche il possibile dopo-Berlusconi, il “PdLega” di cui Aldo Brancher rappresenta l’incarnazione, metà postforzista, metà leghista. Qualcuno s’è chiesto perché mai avvolgere con il legittimo impedimento Brancher che avrebbe potuto presentarsi in aula e tirarla per le lunghe: prima della conclusione del processo sarebbero trascorsi anni. La risposta è che nessuno intendeva correre rischi. Europa in tutta questa storia ha accertato un paio di fatti: primo, non è stato Brancher a chiedere l’upgrading a ministro. L’idea è nata altrove. Secondo, Bossi ne informò Fini in anticipo. Giorni fa il Foglio aveva parlato di una manina di Calderoli d’accordo col Cavaliere, quasi all’insaputa di Bossi. Tesi verosimile, ma a metà. Calderoli in questa storia deve averci messo più di uno zampino, ma Bossi non ne era all’oscuro. L’indecente pasticcio sulle deleghe è frutto dello stato confusionale del Cavaliere, di qualche passo falso di Calderoli e del mancato coinvolgimento di Tremonti: è questo ciò che ha irritato Bossi. Ma dell’operazione il Senatùr era informato eccome.
Del resto il processo Antonveneta per Bossi è una bomba a orologeria. Brancher c’è rimasto impigliato con un rinvio a giudizio per appropriazione indebita e ricettazione, mentre la posizione di Calderoli, accusato di ricettazione, è stata archiviata l’8 febbraio. Dunque sarà solo Brancher, che si recò nel marzo 2005 a un appuntamento con il banchiere Fiorani insieme all’allora ministro per le riforme Calderoli, a doversi difendere dall’accusa di aver intascato in quell’occasione una mazzetta da duecentomila euro. Ma questa circostanza non tranquillizzava affatto Bossi. Se anche Brancher avesse continuato a negare le accuse (che riguardano anche altre dazioni di denaro che Fiorani mette in relazione a presunte richieste della Lega) la vicenda sarebbe dilagata sulla stampa e si sarebbe tornati a parlare del Carroccio. Il colpo all’immagine della “nuova” Lega dei duri e puri e al ruolo chiave di Calderoli nelle trattative sul federalismo sarebbe stato durissimo.
Ma devastanti sarebbero state le conseguenze sui delicati equilibri interni della Lega. Nello schema semplificato che fotografa il vertice del Carroccio (Bossi al centro, Maroni a sinistra e Calderoli a destra) far traballare il pilone di Calderoli può destabilizzare il movimento guidato dal carismatico ma pur sempre ammaccato e malandato Bossi, che è seduto su un vulcano: perché all’antica prepotente rivalità tra Maroni e Calderoli, la dinamica interna aggiunge adesso il fattore dello scalpitare della nuova generazione degli emergenti Cota e Zaia che incalzano.
Ecco l’inconfessabile cornice di questa contorta vicenda: una frittata nata male e finita peggio. Coprire Brancher elevandolo a ministro significava coprire con la coperta del suo legittimo impedimento anche il Carroccio o alcuni dei suoi calibri da novanta. Così si spiegano l’imbarazzo, i mezzi silenzi e le reazioni a scoppio ritardato di molti dei protagonisti dell’affaire Brancher. Se il caso non fosse stato gestito con i piedi dal premier, se non fosse deflagrato con tanta forza mediatica, molti avrebbero vantato un credito nei confronti della Lega per tenerla a cuccia. Invece è andata male, malissimo. Tutti ora si chiamano fuori. Il danno, per i registi dell’operazione, pare peggiore del rischio che pensavano di scongiurare. Per fare un favore a Bossi l’hanno inguaiato e ora la Lega ribolle: il che non tranquillizza nessuno.
(di Francesco Lo Sardo - Europa)
Perché il caso Brancher ha una sua unicità. Il motivo dell’imbarazzo di Bossi (sul pasticcio delle deleghe affidategli, non già sulla decisione dell’upgrading a ministro) e in certa misura del prolungato silenzio di Fini è che Brancher è la punta di un iceberg che, se si sgretola, può far davvero saltare in aria maggioranza e governo, scombinando i piani di chi – praticamente tutti a eccezione di Berlusconi – ha bisogno di più tempo per cucinare il Cavaliere, e non vogliono precipitare nelle elezioni anticipate.
Quell’iceberg a rischio di frattura è l’asse Pdl-Lega, è il patto Berlusconi-Bossi. Quell’iceberg è di più ancora: è il patto Tremonti-Lega, cioè anche il possibile dopo-Berlusconi, il “PdLega” di cui Aldo Brancher rappresenta l’incarnazione, metà postforzista, metà leghista. Qualcuno s’è chiesto perché mai avvolgere con il legittimo impedimento Brancher che avrebbe potuto presentarsi in aula e tirarla per le lunghe: prima della conclusione del processo sarebbero trascorsi anni. La risposta è che nessuno intendeva correre rischi. Europa in tutta questa storia ha accertato un paio di fatti: primo, non è stato Brancher a chiedere l’upgrading a ministro. L’idea è nata altrove. Secondo, Bossi ne informò Fini in anticipo. Giorni fa il Foglio aveva parlato di una manina di Calderoli d’accordo col Cavaliere, quasi all’insaputa di Bossi. Tesi verosimile, ma a metà. Calderoli in questa storia deve averci messo più di uno zampino, ma Bossi non ne era all’oscuro. L’indecente pasticcio sulle deleghe è frutto dello stato confusionale del Cavaliere, di qualche passo falso di Calderoli e del mancato coinvolgimento di Tremonti: è questo ciò che ha irritato Bossi. Ma dell’operazione il Senatùr era informato eccome.
Del resto il processo Antonveneta per Bossi è una bomba a orologeria. Brancher c’è rimasto impigliato con un rinvio a giudizio per appropriazione indebita e ricettazione, mentre la posizione di Calderoli, accusato di ricettazione, è stata archiviata l’8 febbraio. Dunque sarà solo Brancher, che si recò nel marzo 2005 a un appuntamento con il banchiere Fiorani insieme all’allora ministro per le riforme Calderoli, a doversi difendere dall’accusa di aver intascato in quell’occasione una mazzetta da duecentomila euro. Ma questa circostanza non tranquillizzava affatto Bossi. Se anche Brancher avesse continuato a negare le accuse (che riguardano anche altre dazioni di denaro che Fiorani mette in relazione a presunte richieste della Lega) la vicenda sarebbe dilagata sulla stampa e si sarebbe tornati a parlare del Carroccio. Il colpo all’immagine della “nuova” Lega dei duri e puri e al ruolo chiave di Calderoli nelle trattative sul federalismo sarebbe stato durissimo.
Ma devastanti sarebbero state le conseguenze sui delicati equilibri interni della Lega. Nello schema semplificato che fotografa il vertice del Carroccio (Bossi al centro, Maroni a sinistra e Calderoli a destra) far traballare il pilone di Calderoli può destabilizzare il movimento guidato dal carismatico ma pur sempre ammaccato e malandato Bossi, che è seduto su un vulcano: perché all’antica prepotente rivalità tra Maroni e Calderoli, la dinamica interna aggiunge adesso il fattore dello scalpitare della nuova generazione degli emergenti Cota e Zaia che incalzano.
Ecco l’inconfessabile cornice di questa contorta vicenda: una frittata nata male e finita peggio. Coprire Brancher elevandolo a ministro significava coprire con la coperta del suo legittimo impedimento anche il Carroccio o alcuni dei suoi calibri da novanta. Così si spiegano l’imbarazzo, i mezzi silenzi e le reazioni a scoppio ritardato di molti dei protagonisti dell’affaire Brancher. Se il caso non fosse stato gestito con i piedi dal premier, se non fosse deflagrato con tanta forza mediatica, molti avrebbero vantato un credito nei confronti della Lega per tenerla a cuccia. Invece è andata male, malissimo. Tutti ora si chiamano fuori. Il danno, per i registi dell’operazione, pare peggiore del rischio che pensavano di scongiurare. Per fare un favore a Bossi l’hanno inguaiato e ora la Lega ribolle: il che non tranquillizza nessuno.
(di Francesco Lo Sardo - Europa)
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