[Prima lettura: Isaia 53,2-11 - Salmo responsoriale 122/121 - Vangelo di Luca 24,13-35]
Mio fratello Salvatore è morto. Una settimana prima mi aveva fatto una procura perché compissi per lui un atto notarile importante. Avevo appuntamento con il notaio martedì 13 luglio alle ore 11. Dopo che sabato si è aggravato, ho chiesto al notaio di fare in fretta perché Salvatore non sarebbe arrivato a martedì 13 alle ore 11,00. Il notaio mio amico, Alberto Clavarino, si affrettò e lunedì 12 luglio alle ore 20,00 firmai l’atto, dicendo: mio fratello aspettava che io firmassi; ora sono certo che questa notte morirà. Chiamai per telefono mio nipote e gli dissi: «Tutto è a posto». A mio fratello quasi in coma, mia cognata Maria disse: «Ha telefonato Paolo e ha detto che tutto è a posto; Salvatore, fece un cenno di sorriso ed esternò un grande respiro, rilassandosi e appisolandosi. Nella notte alle ore 3,30 morì. Come Gesù sulla croce, ha potuto dire: «Tutto è compiuto!». Avrei desiderato ardentemente essere accanto a lui, insieme ai figli, alla moglie e ai miei fratelli e alla immensa folla di parenti e nipoti che lo hanno assistito come un principe, ma sono contento di averlo aiutato a morire sapendo che non lasciava nulla in sospeso perché aveva concordato tutto con la moglie e i figli.
Lunedì scorso mentre mi accingevo a partire da Genova, ho annunciato ai miei amici (via e-mail e via Facebook) che Salvatore stava morendo e attorno alla sua morte si è messa in moto una catena di affetto e di grazia che ha valicato i confini, le distanze e anche le conoscenze. Ho ricevuto centinaia di e-mail di persone conosciute e sconosciute da tutto il mondo che mandavano a Salvatore una carezza, un saluto, una preghiera e una amicizia. Persone che lui non ha mai visto né immaginato, eppure lo hanno accompagnato in questi giorni di dolore. Credenti e non credenti perché la morte nella sua più rude laicità costringe tutti alla riflessione.
La morte è una realtà seria con cui tutti abbiamo appuntamento. Senza saperlo, Salvatore fu al centro di un mondo di affetto che allargava quello che viveva in casa attorniato dalla sua famiglia. Non sapendo cosa fare e come rispondere a tutti, ho pensato di scrivere una riflessione sulla morte di mio fratello, mentre era ancora in vita, nelle stesse ore in cui dava frutti di vita in tutto il mondo. Come ricordo di Salvatore che tutti voi avete conosciuto e stimato per la sua generosità, per la sua esuberanza, per la sua onestà, voglio fare dono anche a voi di questo pensiero riformulato e sono certo vi aiuterà non solo a vivere questo momento di distacco, ma anche a pensare alla vostra morte con gli occhi che solo la fede può dare a chi crede già e che solo l’austerità del distacco può esprimere in chi è laico.
Non ho paura della morte perché da moltissimi anni la considero mia sorella e mia sposa che mi permette di vivere la vita, assaporando ogni respiro e vivendo ogni attimo come fosse l’ultimo e quindi il più importante e decisivo. Oggi 14 luglio 2010, giorno in cui diamo il nostro saluto di «arrivederci» a Salvatore, è il compleanno di mio fratello Santo, morto all’età di 31 anni, lasciando una moglie di 29 e due figli di 6 e 3 anni. Di Santo che oggi compie 59 anni, ho celebrato la «liturgia dell’arrivederci», dopo avere annunciato ai genitori la sua morte straziata e straziante, schiacciato tra due vagoni di treno, per essere stato generoso e avere preso il posto di un suo collega che era in ritardo. Lo ricordo perché mia cognata non celebra mai l’anniversario della morte, ma il giorno del suo compleanno che ricorre il giorno 1 novembre, solennità di tutti i Santi che è anche il giorno della mia ordinazione a prete.
Mentre ricordiamo Santo nel compleanno incompiuto, salutiamo Salvatore che gli va incontro, avendo compiuto 65 anni il 1 gennaio. Assieme a lui lo accolgono la mamma Rosa di cui volle prendere la stessa malattia, nelle stesse forme e con le stesse modalità. C’è anche papà che attende sulla soglia di cui volle prendere l’ora della morte, le 3,30 l’ora del mattutino nei monasteri, della veglia notturna davanti al Signore. In questo modo, prendendo da tutti un aspetto essenziale della loro vita, Salvatore, ha quasi voluto fare la sintesi e così dirci che nella nostra famiglia abbiamo sempre marciato uniti, gli uni per gli altri senza interessi di parte. Ora la famiglia si ricompone oltre la soglia della morte perché Salvatore incontra i cognati Raffaele e Matteo con i quali era un cuor solo e un’anima sola, più che fratelli insieme con i suoceri Antonio Giuseppe e Mariangela, gente antica, gente di terra e per questo genuina e solida.
La presenza straripante di tutti voi sta a testimoniare che egli fu uomo stimato e benvoluto da tutti: questa inattesa partecipazione è una sorpresa anche per noi, segno che visse autentici rapporti, senza pose e senza finzioni. Se non fosse stato quello che fu, voi oggi non sareste qui. Per questo vi ringrazio pubblicamente anche a nome di tutta la mia famiglia, uno per uno e una per una perché ci è veramente impossibile rispondere adeguatamente a questa coralità massiccia. Voi siete il segno che le persone giuste seminano anche quando non lo sanno, specialmente quando ne sono ignari, perché non vivono per avere riconoscimenti, ma vivono per rispondere ad un impulso vitale, per fedeltà alla propria natura.
Sì, noi piangiamo oggi perché le lacrime sono un linguaggio dell’anima che quando è satura e piena di sentimenti positivi e di amore non sa contenere la propria pienezza e si esprime con le lacrime che assumono così la forma di parole liquide del cuore. Quando non sappiamo più esprimerci con le parole, noi parliamo con lacrime; per questo si piange nel dolore e si piange nella gioia. Non sono lacrime di disperazione o di desolazione, sono lacrime di vita per avere vissuto una vita vera, una vita piena, una vita impastata di sofferenze, ma anche di gioie e di consolazioni Così martedì 12 luglio scrivevo ai miei amici, in attesa che Salvatore varcasse la soglia della vita per prendere possesso della vita.
Mentre mi preparo per accompagnare mio fratello Salvatore nell’esodo dalla vita alla vita, ricevo centinaia di messaggi di amicizia e di preghiera commoventi. E’ il segno che i sentimenti veri non conoscono barriere e distanze perché il cuore vive e pulsa dove c’è verità di vita e di amore. Si è messa in moto una circolarità di sentimenti grandi e profondi di cui ringrazio tutti voi, una per una e uno per uno. E’ bello essere parte di un movimento di amore che anche senza conoscersi direttamente conduce a profondità inaudite che lasciano il segno nella carne e nel cuore. Anche quando alcuni fa rimase paralizzato agli arti superiori e inferiori e per un anno e mezzo visse all’ospedale di Alghero, riuscì a tessere amicizie e seppe dare solidarietà: alcune persone conosciute là, oggi sono qui, venendo anche da lontano.
In un mondo che esorcizza la morte con riti scaramantici, quasi a relegarla tra le ipotesi improbabili e non immediate, mi pongo in controtendenza e dichiaro apertamente che oggi non piango la morte di mio fratello, perché essa è parte intima e profonda della vita, ma ringrazio Dio per essere stato degno di averlo avuto come fratello e, ne sono certo, la famiglia e coloro che lo hanno conosciuto e sperimentato nutrono lo stesso sentimento di gratitudine. Mai una parola, mai un dissidio, mai un contrasto per interesse, semmai tra di noi c’era la gara a chi fosse più generoso. La mia famiglia non ha mai considerato gli interessi come cosa importante, ma ha sempre dato la precedenza alle persone e ai bisogni, perché la giustizia non è fare le parti uguali o dare a ciascuno il suo, ma venire incontro alle esigenze degli altri.
E’ un onore per me dare pubblicamente una testimonianza ai parenti di mia cognata, le famiglie Capula e Pinna. Se qualcuno vi dice che oggi la famiglia è in crisi, dite loro di venire a vedere queste due famiglie che sono l’esempio vivente e sperimentabile della dedizione, dell’amore a perdere, del disinteresse puro. Hanno bivaccato per giorni attorno a mio fratello, impotenti di fronte alla malattia e alla morte, ma pronti per qualsiasi necessità, bisogno ed emergenza. La loro presenza è stata e continua ad essere una manna del cielo. Essi non sono così in occasione di questa morte, ma sono così sempre: gli uni per gli altri, comunque e sempre in una gara di generosità. Non ho mai sentito un lamento o un segno di stanchezza.
Salvatore lascia la moglie Maria Antonia con cui ha condiviso la vita nel senso pieno e vero della parola: l’uno per l’altra sempre e comunque; un figlio, Massimiliano, che da anni ha ereditato l’impresa di trasporti del padre e con quale aveva un rapporto speciale e un altro figlio, Giuseppe che da 40 anni, cioè dalla nascita, vive la vita dalla prospettiva di una carrozzina, senza mai averla potuto assaporare stando in piedi. A loro ha dedicato la sua vita e per essi ha impegnato insieme alla moglie tutta la sua esistenza. Ha avuto la gioia ricevere dalla nuora Katiuscia il dono più bello che potesse immaginare: il nipotino Manuel che è diventato il senso e la pienezza della sua esistenza e che ha goduto per tre anni.
Consapevoli del vuoto, sappiamo che esso non potrà mai essere riempito: quella sedia resterà vuota, quel posto sarà privo della sua presenza fisica, non lo vedremo più camminare, non lo sentiremo più borbottare e chi passa per la strada non vedrà più Salvatore che saluta tutti. Il vuoto resta vuoto e nemmeno Dio lo può riempire. Eppure non siamo tristi né angosciati, la sua morte non ci scoraggia, perché siamo immersi nella vita e quindi comprendiamo e accettiamo la morte come il momento supremo del suo corso. Personalmente sono convinto che ognuno di noi muore nel momento più alto e più maturo e armonico della propria esistenza. Non so spiegare come questo accada, ma sono certo che sia così: la morte è il sigillo della vita e ciascuno di noi muore come vive.
Questo è il motivo che la vita deve essere, dovrebbe essere, la preparazione alla morte, un «esodo» verso la pienezza, verso l’armonia, di giorno in giorno, di anno in anno, di esperienza in esperienza. La mia famiglia di origine è immersa nel pozzo profondo della morte perché ad essa ci siamo abbeverati in abbondanza: su sette siamo ora siamo rimasti in tre in attesa della nostra ora per andare anche noi a ricostruire oltre la morte gli affetti che abbiamo vissuto. Sì, gli affetti vissuti che non possono finire con una banale morte, perché l’amore e l’amicizia non sono scampoli di esperienze occasionali, ma sono atti, movimenti di vita e sentimenti che hanno in sé il sapore dell’eternità. Per questo in tutta la mia vita, durante la quale ho accompagnato migliaia di persone a questo solenne e austero appuntamento decisivo, non mi sono mai abituato alla morte e di conseguenza non l’ho mai banalizzata. Ho sempre vissuto la morte di ciascuno come fosse la prima volta, perché per ognuno di noi «è la prima volta», ma anche come fosse la mia morte.
Ho avuto il dono da Dio di coglierne l’essenza che non è la fine di tutto, ma il senso di ogni respiro e di ogni scelta e pensiero e azione. Vivo ogni giorno come se dovesse essere l’ultimo e questo mi porta a valorizzare e dare importanza solenne a tutto: alle persone che incontro e con le quali sono in corrispondenza, alle persone che «vedo» virtualmente senza vedere i loro volti, ma scoprendo i loro cuori. Nessuno è escluso da questo flusso di amore e di condivisione perché tutto, anche le cose che giudichiamo banali diventano «eventi»: un saluto, un bacio, un abbraccio, un pensiero, un sorriso, un nome, un incontro, una persona … potrebbero essere l’ultimo saluto, bacio, abbraccio, pensiero, sorriso, nome, incontro, persona; tutto, ogni cosa, se può essere l’ultima cosa vissuta, assume la densità e la corposità di Dio e non si perde nulla, ma tutto si trasforma in potenza di vita e desiderio passionale di verità ed essenzialità. Se questa può essere la mia ultima messa, voglio che sia la più vera, la più autentica, la più solenne e voi diventate naturalmente le persone più importanti della mia vita perché i vostri volti e i vostri sentimenti io presenterò a Dio come credenziali del mio ingresso nella casa comune, la Gerusalemme dei risorti.
La liturgia cattolica dice: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata» e poiché ne sono intimamente convinto so che la morte è solo la soglia tra un modo di essere e un altro modo. Non esiste la vita eterna in contrapposizione con la vita terrena: esiste solo «una vita» che passa anche attraverso la soglia della morte per essere «in un altro modo», non meno reale di quella che sperimentiamo ogni giorno. Forse la ragione si ribella a questo, ma non tutto ciò che è irrazionale è falso e la ragione stessa essendo umana deve accettare il suo limite. Io Paolo prete credo in Gesù risorto da morte e lo credo tanto che sono intimamente persuaso con San Paolo che «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14).
A questo evento che supera il tempo e svuota la morte di ogni paura, ora appartiene anche Salvatore dagli altri giusti che lo hanno preceduto: essi sono viventi presenti, seppure assenti e insieme formano una squadra solidale che si prende cura di noi proteggendoci nel nostro cammino: i nostri morti sono i nostri angeli custodi che ci assistono e ci consolano perché la morte ha un vantaggio: rende presenti nei nostri cuori coloro che abbiamo amato e stimato, senza più bisogno di muoverci fisicamente per andare a trovarli. Con essi possiamo parlare, pregare, consigliarci, piangere e attendere. Ecco, contemplo i cieli e vedo la Gerusalemme celeste, con i nostri morti assisi nel cuore del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, delle Matriarche Sara, Rebecca e Lia, dei profeti e dei giusti d’Israele e della Chiesa. Essi vedono il volto del Dio di Gesù Cristo, che ci garantisce che i nostri morti sono vivi, anzi viventi con noi e custodi del nostro restante cammino: «Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti, ma dei viventi!» (Mt 22,32).
Insieme alla mia famiglia Consegno mio fratello Salvatore a «sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare» (Francesco di Assisi, Cantico delle Creature, vv. 27-28) perché lo trasformi in benedizione e grazie per noi e per tutte le persone che porto nel mio cuore che è, questo sì, sconfinato come il cuore di Dio. Per questo, io Paolo prete vivo aspettando la morte come lo sposo attende la sposa. Offro questa liturgia eucaristica non solo per e con mio fratello, ma anche per voi, per tutto quello che portate nel vostro cuore, per le persone che amate, per quelle per cui soffrite, per coloro muoiono oggi, per i defunti di tutti gli amici e le amiche con cui sono in contatto sul internet. Nessuno sia escluso da questo momento di serena pace nel segno della morte e della vita. Nulla è senza senso. Tutto è grazia e dono. Tutto è amore. Continuiamo non una liturgia di tristezza sconsolata, ma una liturgia che è un inno alla vita e insieme accompagniamo Salvatore al suo meritato riposo, sapendo che ora la nostra morte ci farà meno paura perché lui,come il Signore ci ha garantito ci sta solo precedendo per prepararci il posto.
Castelsardo, Concattedrale di Sant’Antonio Abate, 14 luglio 2010, ore 18,30
Paolo Farinella, prete
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