Riassumiamo. Due anni fa quando, l’ex avvocato palermitano conquista il seggio più alto di palazzo Madama, sui giornali si preferisce non ricordare che razza di clienti frequentavano lo studio legale in cui svolgeva la sua attività. Per averlo rammentato sul “Fatto” nel dicembre scorso siamo stati raggiunti da una richiesta di risarcimento danni di 720mila euro. Motivo? L’aver diffamato un fior di galantuomo accostando il suo nome a quello di incalliti mafiosi. Ma di questo si occuperanno i giudici anche se, come scrive oggi Marco Lillo, c’è un pentito di Cosa Nostra, Francesco Campanella, che qualcosa in proposito ha riferito.
Come presidente del Senato, dicevamo, il nostro eroe fino a qualche giorno fa si era fatto notare per il presenzialismo in cerimonie pompose, tagli di nastri e immancabili appelli al dialogo. Un’attività tutto sommato insignificante, fino a venerdì scorso quando dalle colonne del “Corriere della Sera” il senatore palermitano ha levato alto e forte il suo ammonimento sotto il titolo: “Governa chi vince: no a esecutivi tecnici”. Destinatario (e chi se no?) il presidente Napolitano a cui con il classico ruggito del coniglio Schifani ha rammentato che “nelle democrazie maggioritarie vale il principio che i governi siano scelti dagli elettori”.
Ovvero, poche storie: se cade il governo si va ad elezioni. Poiché lo sanno pure i sassi che la seconda carica dello Stato prende direttamente gli ordini dalla quarta (il presidente del Consiglio) ci saremmo aspettati una qualche reazione del Quirinale. Che infatti è arrivata, ma tre giorni dopo, quando Napolitano se l’è presa con tal Bianconi, un peone berlusconiano che incredulo si è visto accusare di “indebite pressioni”. Insomma è chiaro: l’unica garanzia che Schifani assicura è quella per il Caimano. Altro che il tinello di Gianfranco Fini.
(Antonio Padellaro - Il Fatto)
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