Silvio Berlusconi ha molte buone ragioni per sorridere. A 74 anni, ha un impero mediatico che ne ha fatto l'uomo più ricco d'Italia. Ha dominato la scena politica fin dal '94, ed è stato, dopo Mussolini, l'uomo che ha occupato più a lungo la carica di premier. E' sopravvissuto ad innumerevoli previsioni di imminente uscita di scena. E tuttavia, a dispetto dei successi personali, è stato un disastro come leader nazionale, in tre modi diversi.
Due di essi sono ben noti. Il primo è la sordida saga sei suoi parties sessuali noti come "bunga-bunga", uno dei quali ha condotto al poco edificante spettacolo di un premier chiamato in giudizio presso il Tribunale di Milano con l'accusa di aver fatto sesso a pagamento con una minorenne. Il Rubygate ha insozzato non solo Berlusconi, ma anche il suo paese.
Per quanto vergognoso possa essere stato lo scandalo sessuale, il suo impatto sulle performances politiche di Berlusconi è stato limitato, e quindi questo giornale se n'è occupato relativamente poco. Noi abbiamo tuttavia stigmatizzato a lungo la sua disonestà finanziaria. Egli è stato accusato numerosissime volte per frode fiscale, falso in bilancio, e corruzione. I suoi difensori ribattono che non è mai stato condannato, ma questo è falso. In molti casi è stato salvato dalla prescrizione, almeno due volte grazie a leggi ad personam da lui stesso volute ed approvate. Questa è la ragione per la quale nell'aprile 2001 abbiamo scritto che quest'uomo fosse inadatto a guidare l'Italia.
Non abbiamo mai avuto ragioni per cambiare questo giudizio. Ma adesso è chiaro che né il sesso traballante, né la sua opaca storia finanziaria, sono le ragioni principali per le quali gli italiani giudicano Berlusconi come il colpevole di un disastroso fallimento. Una terza colpa è giudicata di gran lunga la peggiore: il suo totale disinteresse per le disastrose condizioni economiche del paese. Forse perchè distratto dalle sue grane giudiziarie, non è stato capace, in quasi nove anni da primo ministro, di rimediare, e nemmeno di riconoscere la grave crisi economica italiana. Di conseguenza, lascerà dietro alle sue spalle un paese in condizioni economiche disastrose.
Malattia cronica, non malattia acuta
Questa spietata conclusione potrebbe sorprendere gli studiosi della crisi dell'euro. Grazie alla severa politica fiscale di Tremonti, l'Italia è finora riuscita a sfuggire alla furia dei mercati. Per ora l'Irlanda, e non l'Italia, è la "I" fra i "PIGS" (insieme a Portogallo, Grecia e Spagna). L'Italia ha fin qui evitato lo scoppio di una bolla. Le banche non hanno fatto fallimento. L'occupazione ha tenuto: la disoccupazione è all'8%, in confronto al 20% e più della Spagna. Il rapporto deficit/PIL nel 2011 sarà del 4%, contro il 6% della Francia.
E tuttavia questi numeri rassicuranti sono ingannevoli. La malattia italiana non è acuta, ma cronica, e sta lentamente corrodendo la vitalità economica del paese. Quando l'economia degli altri paesi europei è in sofferenza, quella italiana lo è di più. Quando queste riprendono, quella italiane cresce di meno. Come il nostro rapporto di questa settimana sottolinea, solo Lo Zimbabwe e Haiti hanno avuto, nel decennio terminante nel 2010, una crescita del prodotto nazionale lordo inferiore a quello italiano. Di fatto, il prodotto interlo lordo italiano è in caduta (-17% in tre anni - NdR). L'assenza di crescita, a dispetto degli sforzi di Tremonti, non ha fatto diminuire il debito pubblico, che è ancora al 120% del PIL (il terzo, per dimensioni, fra tutti i paesi industrializzati). Questo è tanto più preoccupante, dato il rapido invecchiamento della popolazione italiana.
Il relativamente basso tasso di disoccupazione nasconde alcuni aspetti preoccupanti. Un quarto dei giovani - ma molto di più nel sud depresso - è senza lavoro. La partecipazione femminile alla forza di lavoro è al 46%, il valore più basso in Europa. Il mix di bassa produttività e salari relativamente alti ha eroso la competitività del paese. Mentre negli ultimi anni la produttività è cresciuta del 20% negli USA, e del 10% in Gran Bretagna, in Italia è diminuita del 5%. L'Italia si classifica 80° nell'indice "Doing Business" della World Bank, dietro alla Bielorussia ed alla Mongolia, e 48° nella classifica della competitività del World Economic Forum, dietro all'Indonesia ed alle Barbados.
Il Governatore Draghi (in uscita verso la guida della Banca Centrale Europea) ha sputato fuori tutto recentemente, in un discorso d'addio che ha colpito duro. Ha insistito sulla necessità di grandi riforme economiche strutturali. Ha sottolineato la stagnazione della produttività, ed ha attaccato le politiche del governo, che non solo non hanno incoraggiato lo sviluppo italiano, ma spesso hanno messo i bastoni fra le ruote: ritardi nella riforma della giustizia civile, università scadenti, assenza di competitività nei servizi pubblici e privati, un mercato del lavoro a due livelli, uno di insiders protetti, un altro di outsiders esposti alle intemperie. Infine, un numero troppo piccolo di grandi aziende.
Tutti questi elementi stanno intaccando la un tempo acclamata qualità della vita in Italia. Le infrastrutture stanno diventando "sciatte". I servizi pubblici stanno diventando sovraccarichi ed insufficienti. L'ambiente è in sofferenza. I redditi in termini reali, nella migliore delle ipotesi sono stagnanti. I giovani italiani ambiziosi stanno lasciando il paese a frotte, lasciando il paese in mano ad una élite vecchia, costituita da intoccabili. Pochi europei disprezzano come gli italiani i loro politici corrotti.
Eppur si muove
Quando i giornali hanno iniziato ad accusare Berlusconi, molti uomini d'affari italiani hanno replicato che solo la furfantesca faccia di tolla di Berlusconi avrebbe potuto offrire una qualche chance di modernizzare l'economia. Nessuno rivendica adesso questa sciocchezza. Adesso il mantra è che non sia colpa sua, ma di un paese irriformabile.
E tuttavia la tesi che il cambiamento sia impossibile è non solo disfattista, ma anche sbagliata. A metà degli anni '90 diversi governi, preoccupatissimi che l'Italia potesse restare fuori dall'area euro, hanno condotto alcune riforme impressionanti. Persino Berlusconi ha fatto occasionalmente passare qualche riforma liberalizzatrice. Nel 2003 con la riforma Biagi, e molti economisti hanno apprezzato le riforme delle pensioni che si sono susseguite. Berlusconi avrebbe potuto fare molto di più, se solo avesse usato il suo grande potere e la sua grande popolarità per fare qualcosa di diverso dal proteggere i suoi personali interessi. L'Italia degli imprenditori pagherà un prezzo molto alto per i piaceri di Berlusconi.
E se i successori di Berlusconi dovessero essere incapaci come lui? La crisi dell'euro sta costringendo Grecia, Portogallo e Spagna verso riforme accolte da dure proteste popolari. A breve termine, questo farà male; nel lungo termine, dovrebbe dare alle economie periferiche nuova energia. Alcuni paesi si accingono a diminuire l'impatto del loro carico di debito attraverso ristrutturazioni dello stesso. Una Italia irriformata e stagnante, con un debito pubblico sopra il 120% del PIL, avrà un colpevole: Berlusconi. Il quale, ne siamo certi, continuerà a sorridere.
(Fonte: The Economist)
Traduzione: Tafanus
N.B.: Il servizio dedicato a Berlusconi è di 14 pagine, ma ovviamente non possiamo tradurle tutte (per ragioni di tempo, e di copyright). Chi è interessato, può trovare il tutto online o sul giornale cartaceo in edicola da oggi.
SOCIAL
Follow @Tafanus