Gli avvoltoi svolazzano su Mediaset sia in Borsa, dove il titolo è ai minimi di ogni tempo, poco sopra i 3 euro contro i 6,5 raggiunti nell’aprile dell’anno scorso quando iniziò una discesa praticamente ininterrotta e indipendente dagli ultimi risultati elettorali. Dopo i quali, per soprammercato, molti pensano che sia iniziato l’autunno di Berlusconi (e del berlusconismo) esponendo l’azienda a vendette a lungo covate.
Il primo a pensarlo sembra lo stesso PierSilvio che giusto ieri, presentando i bilanci del 2010 (che, per inciso, non distribuisce utile), ha tratto occasione per dichiararsi preoccupato dalla “ostilità contro mio padre”, chiedendo per contro che all’azienda sia riconosciuto il ruolo nazionale di creatrice di “ricchezza, occupazione e un indotto di enormi dimensioni per la nostra economia”. Come a chiedere il rinnovo della qualifica di “risorsa per il Paese” risuonata nella bocca del d’Alema 1996, in visita pacificatrice a Cologno Monzese per l’urgenza di smentire ogni ipotesi di spoliazione a un anno dalla sconfitta nel referendum contro la pubblicità nei film (“non si spezza un’emozione”) allestito, tanto per farsi del male, da capetti di sinistra in cerca di notorietà e/o in debito di rapporti con il mondo reale.
Allora, a pochi anni dalla legge Mammì e dal Lodo Ciarrapico, Mediaset era rannicchiata nel fruttuosissimo duopolio di comodo dove controllava il 42% circa dell’ascolto, all’ombra della RAI che sequestrava, contro ogni possibile concorrenza, il 50%, senza poterlo davvero sfruttare per la pubblicità (tanto che, allora come oggi, Mediaset rastrellava il 66% dei ricavi). Allora Mediaset non era una azienda industriale propriamente detta, ed era facile capirlo perché la sua veloce crescita era avvenuta solo grazie alla alleanza con i produttori americani. Prodotto di mercato (fiction e documentari) non ne realizzava, mentre se la cavava nel prodotto a circuito nazionale, come il varietà. Era in sostanza un distributore chiuso nel mercato locale, debole verso il mondo, ma fortissimo in casa propria (per le ragioni che sappiamo).
Da allora Mediaset ha estratto profitti enormi (l’EBITDA, cioè l’avanzo prima di pagare tasse, investimenti e deprezzamenti veleggiava sulla mostruosa percentuale del 30% dei ricavi, roba da Google attuale) e ha goduto di una liquidità invidiabile. Forse poteva tentare di rompere il guscio e affacciarsi sul mercato, quello vero, trasformando in fattore di forza globale il surplus che, con le buone o le cattive, spremeva dal sistema del duopolio. Qualcosa di simile a quello che, con alterne vicende, ha tentato la brasiliana Rede Globo che, appoggiandosi al monopolio di cui godeva in Patria, ha tentato nel corso dei decenni varie sortite verso il mondo (tra cui anche quella sfortunata in Italia –sotto specie di TMC- negli anni ’80). Però Mediaset questa scalata al cielo ha pensato di non potersela permettere, e ancora oggi, nelle sue relazioni di bilancio, inalbera come titolo di gloria la interminabile lista dei titoli noleggiati (19.000 episodi di telefilm, tanto per dire) e l’esistenza di solidi accordi con i fornitori di prodotto (Universal, Twentieth Century Fox, Dreamworks, Walt Disney e Warner Bros. International, tutti soggetti grandi da tre a otto volte Mediaset e tutti dotati di grandi linee di produzione di film e telefilm). E nient’altro.
Una autodichiarazione di irrilevanza sul mercato. Ne ricaviamo che il pompaggio di utile monopolistico è stato il suo unico e vero modello di business, e che tutta questa liquidità non poteva alimentare un aumento dell’utile di natura industriale. Del resto una industria non si improvvisa. E se non sei una industria non lo diventi per il solo fatto di essere padrone di una televisione all’estero, come TeleCinco in Spagna. Questa sembra funzionare bene, sia chiaro (contribuisce nel 2010 con 800 milioni di euro, un quinto del totale) ma il massimo di vantaggio sistemico che Mediaset può trarre dal suo controllo in termini di economie di scala e di scopo, sta nell’avere lo sconto quantità quando compra film e telefilm in USA. Una inezia rispetto al colossale vantaggio dei produttori autentici, come quelli sopraindicati, cui potremmo aggiungere la tedesca RTL e la BBC, oltre a Disney, Viacom, e Sony Columbia) che producendo telefilm etc –per fare un esempio- li vendono in mezzo mondo e sono sicuri di recuperare con ampio margine le grandi somme investite.
Questa sicurezza Mediaset non può averla, per la stessa ragione per cui non può averla neanche la RAI. Puoi buttarti a fare un kolossal del genere biblico ogni tanto (peraltro kolossal di Mediaset non ne ricordiamo) ma per contare sui mercati del mondo devi disporre di intere library proprietarie. Altrimenti, ben che vada, puoi crescere solo nel mestiere del grossista, e cioè di un intermediario fra i tanti. Per la stessa ragione Mediaset non può sperare di fare granché nel campo della tv a pagamento (nonostante che quest’anno, fatturando 700 milioni, sembri aver raggiunto il pareggio). La ragione è sempre la stessa. Pagamento di cosa? Dei soliti prodotti acquistati da Universal, Fox etc, che ovviamente non te li regalano? Oppure di partite di calcio che di certo non rendono più di quello che ti costano? Si dirà che Murdoch, anche lui, viene spennato dalle squadre di calcio, ed è vero. Ma lo squalo adopera l’esca del calcio per attrarre le prede su tutto il resto della sua offerta, che alimenta in gran parte con prodotto proprio. E questa opportunità per Mediaset non esiste perché non ha nulla da vendere.
Non sorprende dunque che mentre si va incrinando l’esoscheletro ambientale (politica etc, che hanno fatto del Paese una risorsa per Mediaset, senza che valesse il viceversa) che ne ha protetto il business, Mediaset stia scontando la assenza di uno scheletro proprio, che la tenga comunque in piedi oltre la stagione rampante del conflitto di interessi. Al punto che, dopo una stagione in cui i suoi pezzi forti come Striscia (-4%) e Grande Fratello (-4%) mostrano la corda e l’intero gruppo arretra nelle serate del primo trimestre dal 38% al 33% (contra la RAI di Masi!) persino il lieve peso di una La7 che raggiunge il 5% sembra in grado di farla tremare, come il frullare d’ali della farfalla cinese (sempre che qualche Vispa Teresa non riesca a renderla inoffensiva sfruttando fino allo stremo lo forza del Governo Scilipoti).
Stefano Balassone
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