Che cosa c’è alla radice della contrapposizione tra la “secessione” invocata dalla platea di Pontida e il “federalismo” proposto e perseguito dai vertici della Lega? Alla radice, in fondo, la consueta scelta tra l’uovo oggi e la gallina domani. Confesso la mia preferenza per la “secessione”. Non credo che il federalismo – al di là dei vincoli che nascono da una imprescindibile “solidarietà” nazionale – sia qualcosa di più di un compromesso (l’uovo, per l’appunto) che rimanda sine die la gallina di una vera e propria divisione dell’Italia in due.
Questa mia “preferenza” non nasce tanto da una carenza di italianità (io sono e mi sento italianissimo!) quanto dalla convinzione che esistano nella nostra penisola due Italie, e che da questo stato di cose la secessione derivi come unica conseguenza logica. Pochi giorni fa, del resto, in un’intervista al Corriere della Sera, il sindaco di Verona Flavio Tosi citava il caso della Cecoslovacchia che si è divisa in due – Cekia e Slovacchia – per la profonda diversità economico-sociale delle due regioni. Questo coincide perfettamente con il principio social-comunista che afferma che la struttura portante di una società è il suo assetto economico-sociale, tutto il resto non essendo altro che sovrastruttura.
Una società contadina avrà una sua propria etica, una sua propria struttura giuridica, una sua propria religione; diverse da quelle di una società matriarcale, di una civiltà di cacciatori o di raccoglitori, di industriali e mercanti, e via dicendo. Ora, sia pure rifuggendo da ogni forma di generalizzazione, è evidente che in quell’Italia che Metternich sbrigava come una pura e semplice “espressione geografica” esistono due differenti nazioni: l’una storicamente aperta all’Europa, con tutte le sue esperienze di lotte sociali e di tensioni religiose, l’altra rivolta al Mediterraneo - e soggetta alle influenze delle nazioni che sul mediterraneo si affacciano - e all’Oriente arabo ed islamico.
Da questa situazione tutto il resto deriva, fino alle più spicciole manifestazioni del costume politico e sociale, del comportamento pubblico e privato, del modo d’essere quotidiano: dai rifiuti nelle grandi città, al livello di corruzione nella pubblica amministazione, dal numero dei dipendenti pubblici, a quello dei pensionati e degli invalidi; dalle truffe in materia di incidenti stradali, dall’evasione fiscale ai dati sull’assenteimo, all’incidenza del lavoro nero, dalla diffusione dei quotidiani all’uso delle cinture da parte degli automobilisti, dai pedaggi sulle autostrade, qui sì e là no.… Due Italie, insomma. Unite da una forma di assitenzialismo che – ed è questo il dato più importante – agisce sull’Italia assistita in modo inefficace e diseducativo, impedendone quello sviluppo, quella maturazione, quella auto-organizzazione che solo il dover contare su se stessi, e solo su se stessi, potrebbe mettere in moto.
Due Italie, insomma, per queste ragioni che ho esposto e che sono più che sufficienti. Senza bisogno di inventare “espressioni geografiche”, quali la Padania, che vede la valle del Po scavalcare gli Appennini per invadere Genova, traboccare a Trieste, contendere Firenze all’Arno e via dicendo. Del resto, tutte le volte che una nazione ha creduto di doversi dividere in due, o lo ha comunque fatto, nessuna delle due parti ha rinunciato alla propria piena “nazionalità”: abbiamo avuto una Germania Est e una Germania Ovest, un Vietnam del Sud e un Vietam del Nord, e idem per la Corea: ma nessun tedesco o vietnamita o coreano ha rinunciato ad essere in toto tedesco o vietnamita o coreano. Il mio auspicio di un’Italia divisa in Italia del Nord e Italia del Sud, non impedirà a nessuno di dichiararsi italiano nel senso più ampio e pieno della parola.
Che poi questa italianità sia anche un mito ideale, senza eccessivi riscontri con la realtà di ogni singolo individuo, può anche essere vero; così come è vero che l’unità d’Italia è nata da un lato per una partita di scacchi europea, e da un altro lato per le aspirazioni patriottiche e patriottarde di una élite culturale presente in modo abbastanza uniforme nei ceti medioalti dell’intera penisola, con l’adesione plebiscitaria – ma solo formale – delle varie popolazioni regionali, che non sentivano minimamente il problema, e che non ha impedito ai siciliani di sentire i piemontesi come invasori, e via dicendo. Ma pur con questi limiti la stessa “italianità” ha radici antiche e nobilissime, che risalgono a Dante e a Petrarca, e dunque non può essere troppo sbrigativamente declassata ad acqua fresca. La stessa lingua italiana, fino all’altro ieri incomprensibile ai più dei friulani e dei calabresi, dei siciliani e dei liguri, si è fatto pur sempre un fattore di comunicazione e un’occasione di incontro. Del resto, quando l’onorevole Borghezio dichiara che dell’Italia “non gliene frega un cazzo”, a che lingua ricorre, se non all’Italiano?
Non Padania, dunque: ma Italia del Nord. Dovessimo avere domani un parlamento lontano e indipendente da Roma: quale sarà la lingua in cui si esprimerà? La coerenza delle premesse “padane” imporrebbe la lingua della Padania. Ma quale: il piemontese, il friulano, il romagnolo o il ligure? In quante lingue dovrebbero scriversi gli atti ufficiali? Quale enorme quantità di interpreti sarebbero necessari per tradurre al parlamento intero i discorsi di questo o di quel deputato nella “sua” lingua? E poi – quasi a fornire materia ai comici televisivi – avremo un dizionario Inglese-Padano, Tedesco-Padano (e Italiano-Padano, naturalmente)? Sugli spalti grideremo Forza Padania? Avremo nei programmi scolastici una materia come Letteratura Padana: e dove confineremo San Francesco e Benedetto Croce? Il Festival di Sanremo sarà festival “della canzone padana”? Cosa diremo al sito di Trenitalia, che non vorrà saperne di prenotarci un treno per “Venexia”? Passo quotidianamente per il nobile paese di Concorezzo, e mi si stringe il cuore a vederne sulla segnaletica comunale il nome storpiato nell’orrendo aborto di Cüncuress (pr. kũŋku're's). L’Italia del Nord – presentata come Padania - dovrà certamente guardarsi dal ridicolo.
La stessa esaltazione delle lingue regionali e locali (io non parlo mai di dialetti, non avendo mai trovato un criterio oggettivo e convincente per distinguere una lingua da un dialetto) ha una serie di implicazioni negative. Da un lato è frutto di ignoranza storica e di incomprensione del presente: che le lingue locali siano destinate a scomparire, è un evento ineluttabile (che un intellettuale colto e sopracciò potrebbe spiegare con il concetto di entropia e con il secondo principio della termodinamica). Così, del resto è stato per le antiche lingue italiche (le varie lingue osco-umbre) cancellate dal latino, delle quali oggi non sentiamo certo la mancanza. Così – per quanto ci possa dispiacere – è già in atto la scomparsa delle lingue regionali di fronte all’italiano; e così forse sarà per le lingue nazionali, se l’inglese diventerà lingua globale (e infatti già si parla di lingue neo-inglesi, del tutto analoghe alle lingue neo-latine della nostra civiltà nel secondo millennio.
Questa esaltazione della lingua locale e l’invito a coltivarla può anche essere bella e romantica (purchè non si arrivi a parlare di Cüncuress!!) ma è in fondo autolesionistica e dannosa: che il leghista di ferro insegni pure il bergamasco ai suoi nipotii; io, ai miei, gli insegno l’inglese. E vedremo chi vince.
In conclusione: continuiamo pure a dirci orgogliosamente italiani, a parlare italiano (che è tra l’altro, a mio meditato avviso la lingua più bella tra quelle del nostro ceppo), e a sentire la comunanza ideale che lega i “settentrionali” Manzoni e Verdi ai “meridionali” Vincenzo Bellini e Pirandello. Se esistono problemi di natura politica, organizzativa, economica che portino a individuare – come detto più sopra – “due Italie”, che questi problemi non travalichino in quel territorio ideale che non è di loro competenza; perché non è qui il problema e non è qui la soluzione. Continuiamo pure a cantare le (brutte) parole dell’Inno Mameli, e non confondiamo la Patria ideale con lo Stato delle strutture amministrative. In ultima analisi: non sporchiamo la legittima e razionale aspirazione ad una “secessione” con stupidaggini folcloristiche inventate e improvvisate, come i fasci littori e i balilla dell’era fascista.
Ho una naturale avversione per la volgarità, e l’idea dell’uso che Umberto Bossi dichiara di voler fare del tricolore mi provoca un senso di rifiuto. Ma se i miei sentimenti possono essere un fatto personale, vi è in questo atteggiamento qualcosa di più oggettivo. L’Italia è un valore storico e la sua unità è stata un traguardo ideale (sia pure con i limiti di cui si è detto) nel quale molti in passato hanno creduto e per il quale molti hanno sofferto e sono morti. Ora: i traguardi ideali possono col tempo cambiare faccia, aggiornarsi, trasformarsi, addirittura rovesciarsi nel loro opposto. L’unità d’Italia è a mio avviso un ideale superato, che va oggi corretto e aggiornato; così come domani potrebbe essere superata l’idea del federalismo regionale o della secessione: ma questo non deve autorizzare a irridere gli ideali del passato. Non so quale tragico greco antico ha ammonito: “I vincitori si salveranno, se rispetteranno i templi e gli dèi dei vinti”.
Mi spiace per Umberto Bossi, ma il disprezzo per il tricolore è offensivo e ingiusto per tutti coloro che nel tricolore hanno creduto; e questo vale per il passato, ma anche per il futuro, se non si vuole che domani un eventuale “vincitore” faccia altrettanto con le camicie verdi dei leghisti. Quale che sia la resa elettoralistica di questi atteggiamenti, quale che sia il plauso che essi si attirano nelle adunate oceaniche, rimane la loro sostanza profondamente diseducativa. Si può anche accettare – per ragioni di propaganda spicciola – che a Pontida si passi sopra al fatto storico che Varese e Como erano dalla parte degli imperiali (Mussolini ha fatto di peggio con il Mare Nostrum!, e le falsificazioni operate dai vari imperialismi politici e religiosi del passato e del presente sono innumerevoli!); ma l’irrisione dei miti del passato è intollerabile e pericolosa.
Ancora una volta, spiace che un’ottima idea sia inficiata da un suo uso ingiusto e riprovevole, e alla lunga controproducente. Del resto esiste anche una Provvidenza o una Nemesi (rispettivamente per i credenti e per i laici: per chiudere con un dettaglio di attualità, io sono convinto che l’adesione popolare che c’è stata alla celebrazione del 15° anniversario dell’unità d’Italia, e il dilagare di bandiere tricolori sui balconi e alle finestre, sia stato in buona parte una reazione di auto-difesa contro certe dichiarazioni e certi atteggiamenti di Bossi e di Calderoli. Su questo, almeno, varrebbe la pena riflettere.
Vi è poi la questione dell’invasione degli extracomunitari. A regolarne l’afflusso basterebbero – se applicabili e se applicati – i codici e i regolamenti di polizia; e a questi è sacrosanto ricorrere per mntenere l’ordine. A questo pare non essere sufficiente, di fronte a quel fenomeno che Umberto Eco ha definito una vera e propria emigrazione, sul modello degli antichi spostamenti di massa. Quali che siano le misure che si adottano nel breve termine, una cosa andrebbe comunque tenuta presente: che non c’è assolutamente niente da fare! Ancora una volta ci richiamiamo al concetto di entropia e alla termodinamica, per affermare che – ineluttabilmente – il mondo globale tende ad uniformarsi: questione di secoli, probabilmente, ma il traguardo è quello di una umanità sempre più “incrociata”, con una fusione sempre più intensa di razze e di colori. Questo dobbiamo saperlo ed averlo presente: sul piano biologico il mondo marcia verso l’uniformità; poiché da ogni nato da un bianco e una nera (o viceversa) non si torna indietro. Vi è poi – ad un medio e meno catastrofico termine – la difesa di quella che noi chiamiamo la nostra identità culturale e morale; ma anche qui la contaminazione (pacifica o aggressiva che sia) da parte di altre civiltà, non è certo un fatto nuovo nella storia.
Forse Borghezio non lo sa, ma circa duemila anni or sono l’identità culturale e biologica dell’Italia latina e romana è stata gravemente inquinata da due fattori: sul piano biologico le invasioni barbariche, con la rapida scomparsa dei “romani doc”, e la nascita di un nuovo popolo “misto”; sul piano culturale con l’avvento (anche questo dal medio oriente, come l’islamismo di oggi) di una setta religiosa che aggredì la religione dominante, distrusse gli dèi in cui i romani credevano, e ai templi di Giove e Minerva affiancò la nuova istituzione delle “chiese”; esattamente come oggi si tenta di fare con le moschee. Che le moschee finiscano da noi col soppiantare le chiese, come avvenne per le chiese dei cristiani (questo il nome della setta che veniva dall’oriente!) nei riguardi dei templi e della mitologia greco romana, non appare probabile. Ma che islamismo e cristianesimo, chiese e moschee, siano destinate a convivere è non solo probabile, ma auspicabile: da un confronto leale e positivo di ideologie diverse non può che nascere un arricchimento generale. Ciascuno potrà trovare nell’ideologia altrui un dettaglio da accogliere nella propria cultura, nel comportamento nel “diverso” qualcosa che sarà utile imitare.
Tra il rigore tribale della “famiglia” musulmana che minaccia la figlia troppo occidentalizzata, e il lassismo morale dei nostri rapporti tra i sessi… è possibile che non si manifesti un utile confronto, e che ciascuno non possa trarne una lezione? Ho detto che non mi pare verosimile che un’ideologia islamica spodesti il cristianesimo, e che il Corano si sostituisca ai Vangeli. Questo no. Ma se domani una nuova morale (quale che ne sia la provenienza) aggredisse non il nostro Olimpo ufficiale fatto di Santi e di Papi, ma quello che è il vero dio moloch della nostra civiltà contemporanea, e cioè a dire “il Dio Danaro”…. siamo sicuri che non potrebbe nascere quella stessa moralità, invididuale e sociale, che portò l’austero cristianesimo delle origini a prevalere sul corrotto e decadente mondo dei romani? Dalla distruzione dell’integrità romano-latina siamo nati noi; e le proteste degli eventuali Borghezi del tempo appaiono oggi come risibili tentativi di opporsi alla Storia. La storia, del resto, la scrive chi vince, o chi comunque sopravvive: e la storia nostra sarà scritta domani da coloro che nasceranno dai conflitti e dai confronti che oggi stiamo vivendo.
Ormai lanciato per la tangente, mi permetto un consiglio e un auspicio. Che la Lega abbandoni il ciarpame folcloristico di cui si addobba, che ha verosimilmente fatto il suo tempo e che ha fatto “il pieno” quanto a benefici elettoralistici, e si identifichi sempre di più con l’attivismo e la sanità dei suoi quadri intermedi (sindaci e amministratori locali), alla conquista di un ceto medio, medio-basso e medio-alto, che altro non aspetta dai suoi amministratori che correttezza e onestà, “vera” giustizia fiscale, “vera” abolizione dei privilegi, “vera” eliminazione del nepotismo, fine degli stipendi stratosferici dei grands commis e delle facili consulenze a parenti e amici, moralità di vita pubblica pivata, e via dicendo. Tutto quello di cui cento volte al giorno sentiamo la mancanza, leggendo i giornali o guardando la televisione.
Luigi Lunari
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