Il presidente orienta l'attività del governo, frenando gli eccessi del premier senza strappi. Ed è diventato l'unico punto di equilibrio in un sistema politico impazzito. Con una popolarità e un rispetto in crescita
(di Marco Damilano - l'Espresso)
"...ci sostenga, Presidente...". La giornata di martedì 5 luglio per Giorgio Napolitano si apre con l'appello degli occupanti del teatro Valle, attori, registi, maestranze che protestano contro la chiusura dello stabile romano. E si chiude con la lettera degli avvocati del movimento No Tav che difendono i manifestanti degli scontri in Val di Susa, di identico calore: "Li ascolti, Presidente...". Come si faceva un tempo, quando si
invocava una grazia dal re. In mezzo, un convegno sull'Europa a palazzo Giustiniani, i funerali del caporal maggiore Gaetano Tuccillo ucciso in Afghanistan, un colloquio con Romano Prodi, la riunione con gli uffici del Quirinale per esaminare il testo della manovra finanziaria. E in serata arriverà, puntuale, la nota della presidenza con la richiesta di chiarimenti sui contenuti del decreto.
Una giornata al Quirinale, per nulla particolare. Va avanti così da tempo: all'inquilino del Colle, solo per restare all'ultimo mese, si sono rivolti i lavoratori del call center Teleperformance e i parenti delle vittime della strage di Viareggio, gli universitari e gli operai della Fiat, un anno fa invocarono il suo intervento perfino i genitori di Sarah Scazzi per ritrovare la figlia. A lui guardano parlamentari di maggioranza e di
opposizione, amministratori locali, a partire dal neo-eletto sindaco di Napoli Luigi De Magistris. E numerosi ministri del governo Berlusconi, in cerca di un ascolto che a Palazzo Chigi non trovano più.
Napolitano ha compiuto 86 anni una settimana fa, è già entrato nella stagione finale del suo mandato, l'ultimo biennio che storicamente è il più delicato, segnato dalla guerra per la successione che finisce per coinvolgere il presidente in carica: fasi di passaggio, in cui il Quirinale si trasforma nell'epicentro dello scontro politico. Ma per l'attuale Capo dello Stato la situazione si pone in termini esattamente opposti. Con Napolitano il Quirinale non è un elemento di instabilità: anzi, è l'unico punto di equilibrio di un sistema politico impazzito. Come dimostra la vicenda dell'ultima mina disinnescata dall'intervento presidenziale, la norma salva-Fininvest inserita alla fine dell'articolo 37 della manovra, comma 23, lettera b, con cui Silvio Berlusconi aveva regalato alla sua azienda la sospensione del maxi-risarcimento alla Cir di Carlo De
Benedetti per il lodo Mondadori: lo zenith del conflitto di interessi. Gli uomini di Napolitano erano entrati in allarme dalla settimana precedente, fiutando che qualcosa non andava. Il testo del decreto, spedito dal governo alla presidenza della Repubblica per essere esaminato, era arrivato all'attenzione degli uffici del Quirinale quattro giorni dopo il Consiglio dei ministri che lo aveva ufficialmente approvato e solo dopo una
nota del Colle che aveva svelato l'anomalia della procedura. Una volta individuato il marchingegno, è bastata una giornata per convincere il Cavaliere a rimangiarsi l'ennesimo codicillo ad personam: facendo anche balenare l'idea di un messaggio di condanna, nel caso in cui la norma non fosse stata ritirata.
In quelle ventiquattr'ore, tra le 16 del 4 e del 5 luglio, mentre Napolitano studiava il decreto richiesto dall'Europa per stabilizzare i conti, il governo Berlusconi è sembrato sul punto di dissolversi, come un film ai titoli di coda. Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti in fuga dalla conferenza stampa di presentazione del provvedimento, "causa maltempo", in realtà indisponibile a mettere la faccia su una trovata che lo faceva arrossire. La Lega furibonda, che esprimeva "stupore e rabbia" per una misura di cui nessuno era stato informato. I parlamentari del Pdl tenuti all'oscuro di tutto. Il portavoce del governo Paolo Bonaiuti con le braccia allargate, come un Cristo in croce. Il ministro dell'Agricoltura, il siciliano Saverio Romano, la buttava sul letterario ("Sono un cultore di Kafka"): "Se la norma salva-Fininvest c'era nella manovra sono sicuro che l'ho votata, ma non sono sicuro che la norma ci sia". Una norma che c'è ma non c'è, senza padri: Pirandello a Palazzo Chigi, fino alla marcia indietro di Berlusconi.
"È il metodo Napolitano, la moral suasion che evita guai peggiori", riassumono nello staff presidenziale. Nelle ultime settimane il campo d'azione si è allargato: con il governo Berlusconi in preda a un 8 settembre permanente, tocca a Re Giorgio coprire il vuoto. Sui rifiuti di Napoli, il presidente ha firmato il decreto, con una nota severa in cui ha definito il provvedimento "non rispondente alle attese e tantomeno risolutivo", scatenando la replica di Umberto Bossi involontariamente comica: "È napoletano, la sua è concorrenza sleale". Sulla nomina del nuovo governatore della Banca d'Italia Napolitano ha fatto sentire la sua voce contro "forzature politiche e contrapposizioni personali", a tutela dell'autorevolezza e dell'autonomia della banca centrale: nessuna preclusione per i nomi dei due principali candidati, il direttore generale del ministero dell'Economia Vittorio Grilli, fortemente sponsorizzato da Tremonti, e il direttore generale di Banktalia Fabrizio Saccomanni, sostenuto da chi vorrebbe una soluzione interna. Senza rinunciare però a immaginare un terzo nome, per esempio Lorenzo Bini Smaghi in uscita dal board della Banca centrale europea. E sull'intervento in Libia, all'indomani del raduno leghista di Pontida che reclamava il ritiro dell'Italia dalle operazioni militari, Napolitano ha ribadito la necessità di restare schierati nel Mediterraneo, seguendo la linea rigida adottata dal Consiglio supremo di difesa del 9 marzo, quando la guerra era appena all'inizio. Anche in questo caso la Lega non ha gradito, ma pazienza.
Tutte le rilevazioni danno Napolitano in testa alla classifica per consenso e per fiducia, con punte dell'83-89 per cento del gradimento, anche nelle regioni del Nord. E se non bastano i sondaggi c'è l'accoglienza ricevuta a Varese, roccaforte leghista, durante i festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità nazionale. Oppure la visita in Veneto nei giorni dell'alluvione, quando il presidente indossò la pettorina gialla dei volontari sopra il cappotto blu: sono uno di voi.
Napolitano non è più "re Umberto", come lo chiamavano nel Pci per la somiglianza con l'ultimo monarca di casa Savoia e per il portamento elegante e un po' altezzoso. Ha cambiato stile, perché in questo marasma la presidenza della Repubblica è l'istituzione vicina, di cui ci si può fidare. Come ai tempi di Pertini: ma mentre nonno Sandro per riavvicinare il Palazzo ai cittadini procedeva a colpi di strappi con il protocollo e la Costituzione materiale, per Napolitano la sfida è opposta: ripristinare il rigoroso rispetto delle regole in un momento di caos.
Re Giorgio si emoziona e si commuove, come quando riceve i parenti delle vittime del terrorismo, si lascia andare all'ironia, si fa forza di un consenso straordinario per un presidente fortemente caratterizzato da un'identità politica di sinistra mai rinnegata, e per di più eletto nel 2006 da una maggioranza di parte, a differenza dei suoi ultimi predecessori (Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi). "La gente comune gli riconosce una capacità di interlocuzione che non ritrova nella propria parte politica. Esistono elettori berlusconiani che sono felici quando Napolitano argina le spinte estremiste del Cavaliere. In lui si vede qualcosa che è totalmente sparito dal resto della politica: la rappresentanza dell'interesse generale", si accalora un amico del presidente: "Ma per Napolitano è motivo di preoccupazione: quando la gente arriva a fidarsi solo di lui vuol dire che si è rotto qualcosa di importante con le altre istituzioni e con la politica".
Una funzione di supplenza da esercitare nei confronti di un governo che da molti mesi ha smesso di funzionare e che dal Quirinale è stato più volte richiamato all'ordine: l'ultimo dibattito di fronte alle Camere è stato provocato dalla richiesta di Napolitano di segnare il cambio di maggioranza (fuori i finiani, dentro i Responsabili) con un passaggio parlamentare. È il Governo del Presidente: Berlusconi se ne lamenta al
punto da invocare il rafforzamento dei poteri del premier e del Parlamento, lui che era entrato in politica sbandierando l'elezione diretta del Capo dello Stato. Ma non è l'invadenza di Napolitano, è l'assenza del premier dalle scelte decisive che rafforza l'immagine di un Quirinale che guida le scelte politiche. In altri casi, con discrezione, l'uomo del Colle è chiamato a prendere le parti dei presidenti delle Camere. Con Gianfranco Fini e con Renato Schifani intrappolati per ragioni diverse in un ruolo puramente notarile, è stato il Quirinale a consultare i gruppi parlamentari di Camera e Senato nel momento più caldo della legislatura. Rapporti stretti con i capigruppo dei partiti di maggioranza e di opposizione, tenuti dal segretario generale Donato Marra o direttamente dal presidente che non esita a chiamare e far conoscere la sua opinione, di approvazione o di dissenso.
Ne sa qualcosa, per esempio, Massimo D'Alema che in viaggio all'estero, mesi fa, fu raggiunto da una telefonata del presidente, piuttosto seccato e desideroso di ricevere spiegazioni sul comportamento del Pd al Senato dov'era in discussione il lodo Alfano, lo scudo anti-processi per le alte cariche dello Stato. E Re Giorgio si fa sentire anche nel dibattito interno ai partiti e ai sindacati. Sul Pd, per esempio, due mesi fa, ha fatto sapere che l'alternativa deve essere "credibile, affidabile e praticabile". E ai sindacati ha chiesto più impegno per riprendere il cammino unitario.
Posizioni che segnalano quale sia l'assillo di Napolitano. E il suo obiettivo di fine mandato. Spiegano al Quirinale: "Il presidente vorrebbe che i partiti mettessero finalmente mano alle riforme istituzionali e elettorali necessarie per consolidare la democrazia dell'alternanza e chiudere con la transizione infinita".
Dopo i 150 dell'Unità nazionale che sono stati per lui un trionfo personale, anche sul piano del prestigio internazionale (per Barack Obama è lui la "guida morale" dell'Italia), Re Giorgio il Traghettatore vorrebbe chiudere il settennato legando il suo nome all'innovazione dello Stato, diventato una macchina fuori controllo, dove sono tutti contro tutti. Senza farsi troppe illusioni, però: più che dalle riforme i prossimi mesi potrebbero essere caratterizzati da un possibile scioglimento anticipato delle Camere e dall'implosione del
berlusconismo. E da ipotesi di governi istituzionali in cui il presidente sarà chiamato a sfoderare tutta la sua saggezza politica. Mettendo in conto che la situazione precipiti e che si vada allo scontro. "Con Berlusconi c'è un rapporto di leale collaborazione", è la formula di rito che ripetono al Quirinale. Ma negli ultimi giorni aggiungono sempre più spesso: "Finché dura..."
Tutti gli uomini del presidente
C'è l'uomo delle note che fanno tremare gli altri palazzi della politica, le dichiarazioni con cui il presidente Napolitano quotidianamente comunica, ammonisce, si felicita, esprime disappunto: il pugliese Pasquale Cascella, ex giornalista dell'"Unità" e già addetto stampa di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi, invisibile per il pubblico e prezioso per i colleghi.
E c'è l'ultimo arrivato, il consigliere diplomatico Stefano Stefanini (nominato sette mesi fa, per lui è stato un ritorno, era già stato al Quirinale con Ciampi), moglie australiana, rappresentante permanente dell'Italia alla Nato, a conferma dello stretto legame che passa tra il primo presidente iscritto al Pci e Washington.
È il Governo del Presidente, nel senso letterale del termine: la macchina della presidenza della Repubblica che affianca e sostiene Napolitano nelle sue decisioni. Più che uno staff, un Consiglio della Corona di Re Giorgio, chiamato a intervenire sempre più spesso in funzione di supplenza quando il governo Berlusconi latita o si distrae. Esemplare il caso delle Forze armate: vista l'assenza dai dossier più pesanti del ministro Ignazio La Russa, le politiche della Difesa e la gestione delle missioni all'estero si sono progressivamente spostate verso il Consiglio Supremo, presieduto da Napolitano, il tavolo da cui ormai passano tutte le decisioni, e verso il Consigliere del Presidente per gli Affari Militari, il generale Rolando Mosca Moschini, il più anziano ufficiale a indossare la divisa, ottimi rapporti con Finanza, Carabinieri e Servizi.
Regista della macchina quirinalizia è il segretario generale Donato Marra, napoletano, 71 anni ad agosto, di matrice democristiana, che ha lavorato con Napolitano ai tempi della Presidenza della Camera, sottosegretario alla Giustizia nel governo di Lamberto Dini nel '95: l'interlocutore del mondo politico. I capigruppo di maggioranza e di opposizione raccontano delle sue telefonate, scambi di informazione, qualche suggerimento, il polso della situazione per capire che aria tira.
Il secondo nome chiave è il sardo di Tempio Pausania Salvatore Sechi, Consigliere per gli Affari Giuridici, che al Quirinale lavora da un quarto di secolo, da quando nell'85 arrivò con Francesco Cossiga come Consigliere Speciale e poi come Direttore di Gabinetto, promosso da Scalfaro come consigliere giuridico del Capo dello Stato e confermato da Ciampi: l'uomo che tiene le relazioni con gli organi costituzionali,
governo, Parlamento, Consulta, Csm.
Il terzo uomo è il magistrato Loris D'Ambrosio. Una vita in prima linea, impegnato nel pool della Procura di Roma sul terrorismo nero negli anni Ottanta, nell'alto commissariato antimafia e poi braccio destro di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia all'inizio degli anni Novanta, considerato il padre del decreto che istituì la Direzione Nazionale Antimafia. Oggi è il tramite riservato tra il Quirinale e le procure più esposte, da Roma (il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, titolare delle inchieste politicamente roventi, era con lui nella squadra che indagava sui Nar che avevano assassinato il collega e amico Mario Amato) a Milano.
Senza nessuna pubblicità i contatti con il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati sono continui e gli effetti si vedono: in tutte le fasi dell'inchiesta sul caso Ruby il procuratore capo di Milano ha tenuto il basso profilo, quasi un'osservanza del Napolitano-style trasferito nella bufera politico-giudiziaria più intensa degli ultimi anni.
Chiudono la squadra il tecnico delle manovre finanziarie Giuseppe Fotia e il consigliere politico Giovanni Matteoli, insieme all'amico Emanuele Macaluso nella redazione di "Ragioni del Socialismo".
(Espresso dell'8 Luglio 2011)
Confesso che è con malcelata soddisfazione che pubblico questo articolo dell'Espresso su Giorgio Napolitano, ed il grafico IPR sul sondaggio della sua popolarità, anche se all'epoca della sua elezione, come alcuni ricorderanno, altri erano i miei candidati (a cominciare, per un fatto anagrafico, da Anna Finocchiaro). Particolare soddisfazione anche perchè questo articolo viene da un giornale come l'Espresso, che seppur in forma più velata rispetto ad altri (MicroMega, e non solo), si è spesso unito al coro degli insultatori più o meno espliciti (dai Grillo, ai Di Pietro, ai dipietristi sub specie Popolo Viola, e ad alcuni epigoni di oggi).
Durissima, far capire che in Italia il Presidente non è il RE, e che ha spesso una funzione assolutamente e semplicemente notarile. Molti pretenderebbero da lui cose che non può e non deve fare. Oggi noto con piacere che i toni si sono abbassati, e che la stima per "Napisan" Napolitano è a livelli bulgari. Non piace all'11% della popolazione. Se ne farà una ragione. Non si può piacere a tutti. Sta di fatto che l'unico baluardo al banditismo compulsivo dei nostri governanti è stato ed è Napolitano, al quale spesso basta, per fermare la banda del buco, una semplice telefonata, una nota di due righe, una battuta in conferenza stampa. Quindi, forse, Napolitano non è esattamente la prolunga di una Montblanc, pronto a firmare tutto, ma uno che firma ciò che deve e non può evitare di firmare, a termini della Costituzione vigente (e non di una strampalata "costisuzione materiale", che è quella che i nostri trafelati costituzionalisti della domenica vorrebbero che ci fosse, ma che non c'è).
Resto dell'avviso che le leggi (inclusa la Legge Suprema), finchè sono in vigore, vanno rispettate. Chi non le ama o no le condivide, si dia da fare per cambiarle. Esistono, in una delle Costituzioni più belle del mondo, gli "strumenti interni" perchè questa Costituzione possa essere cambiata. Li si adotti. Tafanus
IPR Marketing - 6 Luglio 2011 (...se l'89% vi sembra poco...)
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