Con la riforma della tassazione sulle rendite finanziarie il governo Berlusconi-Tremonti fa una cosa giusta sotto molti aspetti, ma anche del tutto sbagliata per quanto riguarda lo specifico trattamento di favore riservato ai titoli di Stato. Il proposito di uniformare i prelievi sui frutti di conti correnti, depositi bancari, obbligazioni, azioni e così via appare lodevole perché mette fiscalmente sullo stesso piano le diverse opportunità di impiego del denaro evitando distorsioni del mercato.
Altrettanto positiva è l'idea di aumentare il medesimo prelievo dall'attuale 12,50 al 20 per cento non soltanto perché così ci si allinea alla media europea in materia, ma anche perché si pone rimedio alla stridente iniquità nei confronti dell'imposta sui redditi da lavoro, la cui aliquota più bassa è tuttora al 23 per cento. Fin qui, insomma, tutto bene.
Risulta, viceversa, dannoso e indebito l'annuncio che per i rendimenti dei vari titoli di Stato il prelievo resterà fermo al 12,50 per cento. Intanto, Giulio Tremonti forse non si rende conto di lanciare così un pessimo messaggio ai mercati, perché questa eccezione a favore di Bot e similari rischia di essere letta come segnale di un'inconfessabile trepidazione sull'accoglimento delle future emissioni da parte dei risparmiatori. Ben più gravi, tuttavia, sono le alterazioni che un tale privilegio fiscale minaccia di produrre nella allocazione delle risorse dell'intero sistema economico.
Già oggi lo Stato fa la parte del leone nel rastrellamento di risparmio anche perché il suo debito abnorme lo costringe a presentarsi sui mercati alla ricerca di centinaia di miliardi anno dopo anno. Ed è consolidata convinzione da tempo che questa sua massiccia offerta di titoli abbia un nefasto effetto di "crowding out", ovvero di spiazzamento nei confronti della raccolta di denaro da parte di soggetti privati come banche o imprese. Ma almeno finora questa pur impari competizione si è svolta su un piano di parità per quanto riguarda il trattamento fiscale. Con la riforma Tremonti il quadro cambia significativamente, nel senso che il piccolo o grande risparmiatore, dovendo scegliere fra un titolo di Stato e l'obbligazione di un'azienda industriale, non si mostrerà certo insensibile di fronte a un vantaggio fiscale del 7,50 per cento sul rendimento del primo rispetto alla seconda.
Differenza che realizza una distorsione profonda sul mercato del risparmio e che suona ancora più proterva perché imposta in dissimulato conflitto d'interessi dalla stessa autorità politica cui fa capo il debito pubblico. Tutto ciò, per giunta, in una fase congiunturale nella quale gli investimenti languono e si dovrebbero semmai fare i salti mortali per aiutare le imprese che ne abbiano il coraggio a emettere obbligazioni o a fare aumenti di capitale per nuove iniziative che spingano la crescita del Pil.
Che Tremonti se ne infischi di simili esigenze e navighi a vista è ormai un dato di fatto. Quel che proprio non si riesce a comprendere è la totale noncuranza con la quale questi risvolti della riforma delle rendite finanziarie sono stati accolti, per esempio, dalla Confindustria. Quandoque dormitat anche Emma Marcegaglia?
C'è solo da sperare che almeno l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato batta un colpo anche per mostrare la sua reale indipendenza dal potere politico.
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