(di Italia Futura), 19 agosto 2011
Lunedì 22 agosto la Commissione Bilancio del Senato avvierà l’esame del disegno di legge di conversione del decreto legge no. 138 del 13 agosto 2011 contenente “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”. Italia Futura ha già espresso i propri dubbi e le proprie perplessità circa i contenuti di una manovra che consideriamo insufficiente ed iniqua ma soprattutto priva di una visione del futuro del paese (vedi l’editoriale di Luca di Montezemolo del 14 agosto 2011 “Sono scelte deboli contro l’emergenza”). Il Governo ha segnalato in tempi e modi diversi la propria disponibilità a correzioni che ci auguriamo significative.
Cogliendo questa disponibilità riteniamo di dover sintetizzare le direzioni di una possibile modifica del decreto avvertendo che i punti che seguono non devono intendersi come un menù, una lista all’interno della quale scegliere ciò che più aggrada e respingere ciò che appare più scomodo. Essi, al contrario, vanno considerati contestualmente in quanto rispondono ad una idea complessiva del paese, delle sue scelte di finanza pubblica, del loro impatto sulle diverse fasce sociali e delle loro conseguenze sulla crescita.
Il primo attore economico al quale riteniamo necessario e doveroso chiedere un sacrificio in questo frangente sono le Istituzioni (Scheda no. 1: Una patrimoniale per lo Stato e gli Enti locali; Scheda no. 2: Un contributo di solidarietà da parte della politica). Il patrimonio mobiliare ed immobiliare dello Stato e degli Enti locali è il primo patrimonio al quale fare ricorso per abbattere il debito pubblico (con l’obbiettivo di portarlo al più presto al di sotto del 100% del prodotto) e con esso il servizio del debito. Molto si può fare in tempi anche molto rapidi e moltissimo si può fare nel medio periodo. Dismettere il patrimonio pubblico è un atto dovuto nei confronti dei tanti italiani che sperimentano oggi la serietà della crisi. Lo è ancor di più dopo gli eventi delle passate settimane che hanno segnalato come proprio nella acquisizione e nella gestione del patrimonio pubblico si annida spesso la corruzione più diffusa e intollerabile. Ma dismettere non basta, bisogna anche intervenire sui flussi di spesa più direttamente attinenti le istituzioni. Sopprimendo le provincie, e non limitandosi ad accorparne alcune. Intervenendo decisamente su organi costituzionali come il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e su enti locali sui generis come le Camere di Commercio. E si tratta solo dei primi esempi.
Ciò premesso, riteniamo che la manovra all’esame del Parlamento sia una straordinaria opportunità per affrontare e risolvere alcuni nodi annosi dell’economia e della società italiane. La previdenza, in primo luogo (Scheda no. 3: Previdenza, un cantiere da chiudere). Riteniamo che sia arrivato il momento di superare definitivamente istituti nati e cresciuti in un contesto socio-economico completamente diverso da quello attuale (come le anzianità o la minore età pensionabile femminile) anche per poter disporre delle risorse necessarie a costruire un welfare a misura delle donne e un sistema previdenziale aperto alle generazioni più giovani. Se quindici anni fa era Cofferati a gridare “le pensioni non si toccano”, oggi è Bossi a recitare la stessa parte. E’ arrivato il momento che il paese si liberi dei conservatorismi tanto di sinistra quanto di destra che lo hanno fino ad ora ingabbiato.
Il mercato del lavoro, in secondo luogo (Scheda no. 4: Tutti uguali davanti al lavoro). Riteniamo che non sia più rinviabile l’introduzione di un unico contratto di lavoro a protezione crescente per tutti i futuri lavoratori dipendenti (ferme restando le ovvie eccezioni a contenuto formativo o dei contratti a termine per i casi di sostituzioni temporanee o di punte stagionali): occupazione a tempo indeterminato per tutti i nuovi assunti quindi e piena protezione contro le discriminazioni e contro i licenziamenti disciplinari ingiustificati, ma nessuna inamovibilità per motivi economici e organizzativi.
La definizione delle questioni previdenziali permetterebbe di abolire l’odioso, perché profondamente iniquo, contributo di solidarietà. Non mancano peraltro le ragioni per un intervento inteso a chiedere a chi più ha di contribuire maggiormente alla soluzione delle difficoltà del paese (Scheda no. 5: Crescita ed equità, due facce della stessa medaglia). Riteniamo che sia questo il momento per introdurre una imposta patrimoniale permanente con aliquota pari allo 0,5% sui patrimoni superiori a 10 milioni di euro. Il gettito dell’imposta sulle “grandi fortune” contribuirebbe, nel biennio 2012-2013, ad accelerare il percorso verso il pareggio di bilancio (portando comunque ad una pressione fiscale inferiore a quella prevista nella manovra) e sarebbe destinato dal 2014 a finanziare – su base strettamente competitiva – i settori dell’istruzione e della ricerca e della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano.
Riteniamo, comunque, che si debba evitare il ricorso, in questa fase, a misure di carattere estemporaneo (Scheda no. 6: Regole sì, ma soprattutto regole stabili). Riteniamo che sia un errore grossolano quello di non mantenere i patti con i contribuenti anche quando questi patti sono sbagliati (come nel caso dello scudo). Il discorso, per inciso, vale anche per l'addizionale Ires sulle imprese energetiche. Tassare nuovamente i capitali scudati sarebbe, comunque, una ipotesi legalmente non praticabile e riproporre un nuovo scudo fiscale non aggiungerebbe nulla di strutturale alla manovra. L'ennesimo tentativo di non prendere atto della serietà della situazione.
Al rigore ed alla equità, riteniamo vadano affiancati interventi in grado di riportare l’Italia a crescere. Si tratta di interventi, in tutti i casi, senza impatto sui conti dello Stato. Interventi relativi al rapporto fra Stato e contribuenti (Scheda no. 7: Dagli evasori ai contribuenti): la lotta all’evasione è compito essenziale di ogni Governo, a prescindere, ed il rispetto dell’obbligo fiscale è essenziale per il corretto funzionamento di un economia di mercato (la autodichiarazione patrimoniale di cui alla Scheda no. 5 può, in questo senso, costituire uno strumento fondamentale), purché, però, contestualmente ci si impegni senza esitazioni a destinare alla riduzione delle aliquote le risorse provenienti dall’attività di contrasto all’evasione.
Interventi relativi al alla composizione del prelievo fiscale (Scheda no. 8: Sostenere le imprese): immaginare di ricorrere ad un aumento della imposizione indiretta (dell’Iva, cioè) per sostituire questo o quel pezzo della manovra è irragionevole; l’aumento dell’Iva può essere una scelta intelligente se e solo se è parte di una manovra di riequilibrio delle entrate intesa a ridurre corrispondentemente, e per lo stesso ammontare, il prelievo sulle imprese (a cominciare dall’Irap).
Interventi relativi al funzionamento dei mercati (Scheda no. 9: Mercato, non solo a parole): l’idea che per sostenere la crescita sia necessario mettere in campo risorse pubbliche è, come minimo, fuorviante (il Mezzogiorno ne è testimone). Il ricorso alla spesa pubblica è, spesso, la modalità con cui la politica evita di affrontare questioni difficili. Le principali misure di sostegno alla crescita nel nostro paese sono a costo zero: riguardano il funzionamento della pubblica amministrazione, in tutti i suoi aspetti, e, in particolare, il funzionamento dei mercati con particolare riferimento al comparto dei servizi. Facciamo nostre le proposte in tema di liberalizzazioni avanzate recentemente dall’Istituto Bruno Leoni.
Interventi tesi a cambiare la cultura politica e sociale del paese (Scheda no. 10: Le riforme costituzionali). Introduzione del vincolo del bilancio in pareggio, dimezzamento del numero dei parlamentari, abolizione delle province, libertà di impresa. Si proceda senza indugio con l’obbiettivo di concludere in tutti i casi l’iter entro l’anno e lo si faccia seriamente.
Disciplina (e serietà) nelle politiche di bilancio e equità nella distribuzione dei sacrifici, crescita: se la politica italiana c’è – tanto al governo quanto all’opposizione – batta un colpo. Se non c’è – tanto al governo quanto all’opposizione - si faccia da parte. L’Italia non può aspettare.
Schede
1.Una patrimoniale per lo Stato e per gli Enti locali.
Il primo attore economico al quale chiedere un sacrificio in questo frangente sono le Pubbliche amministrazioni. Riteniamo che il patrimonio mobiliare ed immobiliare dello Stato e degli Enti locali sia il primo patrimonio al quale fare ricorso per abbattere il debito pubblico e con esso il servizio del debito.
Il patrimonio immobiliare delle amministrazioni locali ammonta a ca. 350 mld. di euro. La parte più consistente è posseduta dai Comuni (ca. 230 mld. di euro). Seguono le Regioni (11 mld. di euro) e le Provincie (29 mld. di euro). A ciò si aggiunge il patrimonio delle ASL (ca. 25 mld. di euro) e quello dell’Edilizia Residenziale Pubblica valutabile fra i 50 ed i 150 mld. di euro. Limitandoci al caso di Comuni, Provincie e Regioni, la parte libera, inutilizzata o affittata a terzi, è stimabile, in via prudenziale, in ca. il 3-5% del totale, pari ad un valore di mercato compreso fra i 20 ed i 40 mld. di euro. A questa andrebbe aggiunta la parte dell’Edilizia Residenziale Pubblica che ha perso le originarie finalità sociali, stimabile in ca. il 60% del totale. La Cassa Depositi e Prestiti – soggetto esterno alla P.A. – ha in essere mutui verso Comuni, Provincie e Regioni per complessivi 111 mld. di euro ca. che rappresentano debito pubblico per ca. 6 punti di Pil. Riteniamo che Comuni, Provincie e Regioni che dispongano di patrimonio immobiliare non utilizzato per fini strettamente istituzionali e/o affittato a terzi, debbano utilizzarlo per estinguere immediatamente, in tutto o in parte, i mutui già contratti con la Cassa Depositi e Prestiti (previa valutazione degli immobili da parte di un advisor nominato dalla stessa Cassa). La Cassa Depositi e Prestiti acquisirebbe gli immobili sostituendo nel suo attivo i mutui verso gli enti locali con le quote di un fondo cui gli immobili sarebbero successivamente trasferiti come equity e di cui la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe limitarsi ad essere pro tempore il quotista di maggioranza relativa. Gli enti locali si priverebbero della parte non utilizzata del patrimonio immobiliare e contestualmente ridurrebbero l’indebitamento. Inoltre, nel caso di Comuni, Provincie e Regioni che non dispongano di patrimonio immobiliare non utilizzato per fini strettamente istituzionali e/o affittato a terzi ma dispongano di partecipazioni di controllo in società di capitali che gestiscano servizi di pubblica utilità, riteniamo che gli stessi Enti locali debbano utilizzare queste ultime per estinguere in tutto o in parte i mutui già contratti con la Cassa Depositi e Prestiti. L’impatto della norma sullo stock di debito pubblico è potenzialmente pari al 5% del Pil.
Il patrimonio mobiliare dello Stato ammonta a ca. 500 mld. di euro. Al suo interno spiccano alcune partecipazioni che in nessun senso possono considerarsi strategiche: due delle tre reti Rai, Bancoposta, Sace, Anas (per la componente concessioni) per fare solo i primi esempi. La loro dismissione, con modalità da definirsi, deve essere posta immediatamente all’ordine del giorno. L’introito corrispondente dovrebbe essere riversato nel fondo per l’ammortamento del debito pubblico.
Per memoria, si ricorda che fra il 1994 ed il 2003 furono privatizzati asset per ca. 90 mld. di euro. Nel periodo 2000-2005 sono stati privatizzati immobili pubblici per circa 20,4 miliardi di euro, di cui 16,3 miliardi da parte dello Stato ed Enti previdenziali e 4,2 da parte degli Enti territoriali.
2.Un contributo di solidarietà da parte della politica.
L’intervento sulle realtà provinciali e comunali di minori dimensioni presente nella manovra è meritorio ma largamente insufficiente. Nel primo caso, in particolare, esso non prefigura il necessario superamento dell’istituzione provinciale. Riteniamo dunque che, in attesa di norma costituzionale che elimini il livello intermedio di governo fra Comuni e Regioni, debbano essere soppresse tutte le province con meno di 1 milione di abitanti e che le funzioni delle stesse debbano essere fin d’ora trasferite alle Regioni o ai Comuni. A scanso di equivoci, è bene ripeterci: soppresse, e non accorpate.
Riteniamo, inoltre, che il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro possa, nel rispetto del dettato costituzionale, essere collocato presso la Presidenza del Consiglio e ridotto a non più di 15 membri non remunerati per le loro funzioni.
Riteniamo che alcune delle funzioni a rilevanza pubblica oggi svolte dalle Camere di Commercio, Industria, Artigianato ed Agricoltura debbano essere affidate agli enti locali (in particolare la tenuta del registro delle imprese) e che l’autonomia degli enti camerali debba tradursi in una loro indipendenza economica derivante dalla fornitura a titolo oneroso di servizi alle imprese in regime di concorrenza, in assenza di qualsivoglia autonomia tributaria.
3.Previdenza: un cantiere da chiudere.
Le riforme dell’ultimo quindicennio – ivi inclusa la recente indicizzazione agli andamenti demografici – hanno fatto molto per garantire la sostenibilità del sistema nel lungo periodo che garantita ancora non è però in presenza di una crescita debole, per un verso, e, per l’altro, di un numero rilevante di carriere lavorative corte e/o discontinue. Riteniamo che sia arrivato il momento di superare definitivamente istituti nati e cresciuti in un contesto socio-economico completamente diverso da quello attuale anche per poter disporre delle risorse necessarie a costruire un welfare aperto alle donne e un sistema previdenziale a misura delle generazioni più giovani.
In primo luogo, le pensioni di anzianità. Nate nel 1969 in un momento in cui le tendenze demografiche sembravano permettere una maggiore generosità, oggi sono un inaccettabile onere a carico delle generazioni future. Chiudere la parentesi delle pensioni di anzianità – con la dovuta eccezione dei cd. lavori usuranti – è semplicemente un atto dovuto. Riteniamo, quindi che i requisiti per le pensioni di anzianità (tanto per i dipendenti quanto per gli autonomi) vadano così ridefiniti: (a) dal 1°gennaio 2012 almeno 36 anni di anzianità contributiva e 62 anni di età, (b) dal 1° gennaio 2013 almeno 36 anni di anzianità contributiva e 63 anni di età, (c) dal 1° gennaio 2014 almeno 36 anni di anzianità contributiva e 64 anni di età, (d) dal 1° gennaio 2015 almeno 36 anni di anzianità contributiva e 65 anni di età. L’intervento riguarderebbe, nel triennio, non più di 150 mila lavoratori.
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In secondo luogo, l’età pensionabile femminile. La differenza rispetto alla età pensionabile maschile non è altro che la conseguenza di un modello sociale centrato sul maschio, prevalente fonte di reddito familiare. Un risarcimento e, soprattutto, un anacronismo che, non contenti, vorremmo cominciare a correggere solo fra dieci anni. Riteniamo che l’adeguamento debba aver luogo a partire dal 1° gennaio 2012 e concludersi, al massimo, nel giro di un decennio.
In terzo luogo, l’età pensionabile. Riteniamo che si debba anticipare al 2012 l'adeguamento dell'età pensionabile alle aspettative di vita, con l’obbiettivo di portare l’età pensionabile a 67 anni fin dal 2016.
Nel complesso, i tre interventi citati comporterebbero a partire dal 2012 minori spese per ca. 0,5-1,0 mld. di euro che crescerebbero nel tempo fino a raggiungere 1-2 mld. di euro nel 2014, 2-3 mld. nel 2015 e, a regime, ca. 15-20 mld. di euro.
Una quota minima dei risparmi citati dovrebbe essere destinata fin dal 2012 (a) alla definizione di uno schema di prestiti contributivi in grado di sfruttare il meccanismo “ad accumulazione” del sistema previdenziale vigente; uno schema inteso a consentire – con oneri marginali per lo Stato – carriere contributive continue anche per le generazioni più giovani in grado di evitare quel che fra qualche tempo sarà inevitabile: il ritorno in grande stile della pensione assistenziale; (b) alla realizzazione di una rete di asili nido in grado di favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro; e (c) al finanziamento della riforma della contrattazione (vedi Scheda no. 4) .
4.Tutti uguali davanti al lavoro.
Riteniamo che non sia più rinviabile l’introduzione di un unico contratto di lavoro a protezione crescente per tutti i futuri lavoratori dipendenti (ferme restando le ovvie eccezioni a contenuto formativo o dei contratti a termine per i casi di sostituzioni temporanee o di punte stagionali): occupazione a tempo indeterminato per tutti quindi e piena protezione contro le discriminazioni e contro i licenziamenti disciplinari ingiustificati, ma nessuna inamovibilità per motivi economici e organizzativi. In caso di licenziamento, trattamento complementare di disoccupazione “alla scandinava”, contribuzione figurativa per i periodi di disoccupazione, assistenza nel mercato del lavoro più efficace e controllo altrettanto efficace sulla effettiva disponibilità del lavoratore alla nuova occupazione. Nel contempo, attenta valutazione dei maggiori oneri monetari sopportati dalle imprese a seguito del cambio di regime (valutabili in media e in termini prudenziali in circa lo 0,3% della retribuzione lorda) e rimborso degli stessi oneri medi in via permanente attraverso una riduzione di pari importo di alcune voci di contribuzione e i rimborsi resi possibili dal Fondo Sociale Europeo.
5.Crescita ed equità: due facce della stessa medaglia.
Riteniamo che sia questo il momento per introdurre una imposta patrimoniale permanente con aliquota pari allo 0,5% sui patrimoni superiori a 10 mil. e tetto pari a euro 1.000.000 (escludendo le partecipazioni in società non quotate ma non le immobiliari e le holding di partecipazione). L’imposta sarebbe basata su una autodichiarazione dei patrimoni mobiliari ed immobiliari eccedenti i 10 ml. di euro da parte dei contribuenti da presentarsi unitamente alla dichiarazione Ire e dovrebbe prevedere pesanti sanzioni nel caso di dichiarazioni mendaci.
Secondo le stime dell'Associazione Italiane Private Banking, sono 20 mila gli italiani con un patrimonio finanziario netto fra i 5 e i 10 milioni di euro e 8 mila quelli con patrimonio finanziario netto superiore a 10 milioni di euro: Ricordando che la ricchezza mobiliare delle famiglie italiane tende ad essere i 2/3 circa della ricchezza immobiliare, una valutazione prudenziale porterebbe a valutare in oltre 1,0 mld. di euro il gettito dell’imposta se riferita al solo scaglione più elevato (> 10 ml. di euro).
Il gettito dell’imposta andrebbe a sostituire, per dimensione, negli anni 2012 e 2013 il cd. contributo di solidarietà e, a partire dal 2014, verrebbe destinato a finanziare – su base strettamente competitiva – i settori dell’istruzione e della ricerca e della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano.
6.Regole sì, ma soprattutto regole stabili.
Il fisco dovrebbe essere il regno della stabilità, della semplicità, della trasparenza. Le norme fiscali dovrebbero essere pensate per durare decenni (e non anni) e dovrebbero essere costruite per essere comprese. Ma non in Italia: valga per tutti l’esempio della addizionale Ires sulle imprese del settore energetico che rappresenta, al meglio, uno dei principi cui più frequentemente si è ispirata la politica italiana nell’ultimo quindicennio: le regole possono essere cambiate in qualunque momento a discrezione del Sovrano. Finché questa sarà l’impostazione, i capitali stranieri di cui pure avremmo estremo bisogno non metteranno piede in Italia (e quelli italiani ne usciranno). In questo senso, sopprimere l’addizionale Ires è parte di una nuova e diversa strategia di politica economica intesa a riportare i capitali esteri in Italia. Nella stessa direzione va il rifiuto di tassare i capitali rientrati con lo scudo fiscale. Che quei capitali siano stati a suon tempo tassati in misura infima è fuori discussione, ma altrettanto fuori discussione dovrebbe essere il rispetto dei patti.
7.Dagli evasori ai contribuenti.
La lotta all’evasione è compito essenziale di ogni Governo, a prescindere, ed il rispetto dell’obbligo fiscale è essenziale per il corretto funzionamento di un economia di mercato. La autodichiarazione patrimoniale (di cui al punto 4) può, in questo senso, costituire uno strumento fondamentale. Purché, però, contestualmente ci si impegni a destinare alla riduzione delle aliquote le risorse provenienti dall’attività di contrasto all’evasione. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: si chieda al Ragioniere generale dello Stato di certificare ex post il recupero da evasione e si stabilisca fin d’ora che lo stesso sarà dedicato anno dopo anno alla riduzione della pressione fiscale. Se per qualche anno si mantenesse il ritmo del 2010 (ca. 10 mld. di euro evasi recuperati dall’Amministrazione), basterebbe una legislatura per ridurre significativamente e visibilmente la pressione fiscale sui contribuenti onesti.
8.Sostenere le imprese.
Immaginare di ricorrere ad un aumento della imposizione indiretta (dell’Iva, cioè) per sostituire questo o quel pezzo della manovra è irragionevole: si andrebbe incontro a tutti i rischi di un aumento della imposizione indiretta (in particolare, ad un ritocco generalizzato dei prezzi) senza trarre tutti i benefici che da una simile operazione potrebbero derivare. L’aumento dell’Iva può essere una scelta intelligente se e solo se è parte di una manovra di riequilibrio delle entrate intesa a ridurre corrispondentemente, e per lo stesso ammontare, il prelievo sulle imprese (a cominciare dall’Irap e, in particolare, dalla deducibilità del costo del lavoro).
9.Mercato, non solo a parole.
Facciamo nostre le proposte avanzate oggi su La Stampa in tema di liberalizzazioni dall’Istituto Bruno Leoni. E cioè:
- a) separazione della rete gas dall’ex monopolista per liberalizzare il mercato del gas;
- b) introduzione della concorrenza nel trasporto ferroviario regionale;
- c) liberalizzazione dei servizi pubblici locali;
- d) riforma dei servizi idrici (pur nel rispetto dell’esito del referendum);
- e) liberalizzazione del settore postale;
- f) liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura dei negozi;
- g) liberalizzazione dell’assicurazione infortuni (e privatizzazione dell’Inail)
- h) piena liberalizzazione delle telecomunicazioni.
(da brunoleoni.it)
10.Le riforme costituzionali.
Introduzione del vincolo del bilancio in pareggio, dimezzamento del numero dei parlamentari, libertà di impresa. Si proceda senza indugio con l’obbiettivo di concludere in tutti i casi l’iter entro l’anno ma lo si faccia seriamente. Nel caso del pareggio di bilancio (art. 81) si preveda (a) una maggioranza qualificata per l’approvazione di deroghe al pareggio, nel caso in cui si debbano fronteggiare situazioni eccezionali, e (b) un limite percentuale al rapporto tra spesa pubblica e PIL, in modo da rendere più efficace il vincolo del pareggio. Nel caso della libertà di impresa, se proprio si vuole intervenire sull’art. 41, lo si faccia per affermare un principio in Italia regolarmente negato da tutti i governi dell’ultimo quindicenni. Si scriva che le norme che regolano l’attività economica privata non possono essere retroattive. Per gli investitori internazionali questo sarebbe un messaggio infinitamente più forte del “ciò che non è vietato è permesso” che oltre le Alpi avrebbero serie difficoltà, prima che ad interpretare, a tradurre.
11. Come si evince dalla tabella che segue, le modifiche proposte hanno natura strutturale e implicano risparmi crescenti nel tempo. Esse implicano una pressione fiscale inferiore per ca. 0,5 punti percentuali di Pil rispetto alla manovra all’esame del Senato e, a partire dal 2015, pongono le premesse perché i tagli di spesa consentano una ulteriore graduale riduzione della pressione fiscale.
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