Daccò, il faccendiere del San Raffaele, s'era comprato un ospedale a Milano. E al vertice aveva piazzato un uomo di Formigoni. Un affare da 25 milioni
(di Paolo Biondani e Luca Piana - l'Espresso)
Hanno seguito le sue tracce in giro per il mondo, dalla Svizzera alla Nuova Zelanda. Alla fine, però, i magistrati che indagano sul buco miliardario dell'ospedale San Raffaele potrebbero scoprire che una delle operazioni cruciali di Piero Daccò, l'uomo d'affari finito in carcere il 14 novembre con l'accusa di concorso in bancarotta, si è consumata nel cuore di Milano.
Tutto ruota attorno all'ospedale San Giuseppe, una struttura di proprietà dell'Ordine dei Fatebenefratelli, nella centralissima via San Vittore. Nel 2006, mentre attraversa un periodo difficile, il San Giuseppe viene affidato con un affitto di lunghissima durata a una società nella quale, secondo quanto ha ricostruito l'Espresso, Daccò è uno dei principali azionisti. In pratica, i Fatebenefratelli si tengono le mura, mentre l'uomo d'affari comincia a farsi strada come imprenditore della sanità. A Milano.
"Daccò non aveva nessunissimo rapporto con la Regione Lombardia", ha detto il presidente Roberto Formigoni, con l'obiettivo di fugare i dubbi sui legami tra la sanità lombarda e l'uomo d'affari, come lui vicino al movimento di Comunione e Liberazione. Le indagini della magistratura, infatti, hanno toccato da vicino la Regione, dove sono stati perquisiti gli uffici di due dipendenti come Maria Erika Daccò, figlia di Piero, nonché di Alessandra Massei, definita dagli investigatori "in stretto contatto" con l'arrestato. Lo stesso Formigoni, peraltro, sembra legato da rapporti di amicizia con Daccò: è stato fotografato sull'Ad Maiora, uno dei suoi yacht, anch'esso perquisito dai militari della Guardia di Finanza.
La vicenda del San Giuseppe, però, mostra che negli ultimi anni Daccò non si è limitato ad agire da "consulente" del San Raffaele, come l'ha definito il governatore, ma ha intrecciato con il sistema sanitario lombardo rapporti articolati. Per ricostruire i fatti, occorre tornare al 2006, quando una società chiamata Hospitality prende in gestione - attraverso una controllata - l'ospedale religioso. Tra gli azionisti della Hospitality figura la fiduciaria Cordusio: è dietro questo schermo legale che si celerebbe appunto Daccò, che si fa rappresentare in consiglio d'amministrazione da Giuseppe Danzi, ora definito dai magistrati un suo "stretto collaboratore".
A dispetto delle entrature dei nuovi azionisti, il San Giuseppe continua a vivere mesi difficili. I bilanci testimoniano di indagini giudiziarie (poi archiviate) sulle gestioni passate, di continui litigi fra gli azionisti, di reparti chiusi perché "non compatibili con le normative sanitarie". In tre anni i partner di Daccò cambiano due volte. E a sistemare la situazione non basta l'arrivo al vertice di Giancarlo Cesana, storico leader di Comunione e Liberazione, nominato direttore scientifico. Il 2008 si chiude con 12 milioni di perdite. E l'anno dopo Daccò e soci vendono. Ma l'uscita di scena nasconde un lieto fine: con la cessione al gruppo Multimedica, un colosso della sanità lombarda, la Hospitality incassa una plusvalenza di 25 milioni. L'addio porta fortuna anche a Cesana: la giunta Formigoni lo insedia al vertice del Policlinico di Milano, il grande ospedale pubblico con un patrimonio immobiliare miliardario.
Per Daccò, dopo l'arresto, l'affare sul San Giuseppe non è più un segreto, anzi è una specie di alibi per i versamenti in nero dal San Raffaele: non ruberie né tangenti, è la sua tesi, ma rimborsi di anticipi per un servizio di aero-ambulanza progettato dal suo ospedale con quello di Don Verzè, poi non decollato. Ma il suo avvocato, Giampiero Biancolella, punta anche su un'altra arma: un ricorso immediato in Cassazione contro l'arresto. Per motivi giuridici: il San Raffaele non è fallito, ma è stato ammesso al concordato. E senza fallimento, per la difesa, non c'è bancarotta.
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