"Mani Pulite è stata un fallimento. Non ha cambiato nulla, anzi ha determinato una reazione opposta: lo smantellamento della giustizia. E la vittoria di un pensiero collettivo che convive con la corruzione".
Gherardo Colombo è lapidario nel giudicare il passato. Guarda da lontano l'esperienza di pubblico ministero che lo ha visto misurarsi con tutte le trame d'Italia: la scoperta delle liste della P2, l'istruttoria sui fondi neri dell'Iri e infine la grande indagine su Tangentopoli. Oggi nell'ufficio di presidente della Garzanti, porta il discorso dal piano giudiziario a quello culturale, dal codice penale al senso civico.
Senza arrendersi al pessimismo, vede a Milano i segni della riscossa non nelle nuove inchieste che assediano il Pirellone, ma nel successo dell'Area C: lo sbarramento al traffico voluto dalla giunta Pisapia che restituisce il centro alle biciclette. Vent'anni dopo l'arresto di Mario Chiesa, nel libro intervista con Franco Marzoli, docente senese e suo amico dai tempi dell'università, discute dell'Italia di ieri e di oggi. Il volume, edito da Longanesi, ha un titolo programmatico: "Farla franca".
Mani Pulite è stata inutile?
Sotto il profilo giudiziario è servita a poco o nulla. Io lo dissi sin dall'inizio, proponendo nel 1992 proprio sulle pagine de "l'Espresso" una soluzione diversa, una sorta di condono dietro l'ammissione di responsabilità. Mi ero reso conto che di fronte all'enormità di quello che stava emergendo, sarebbe stato difficile o impossibile dare una soluzione attraverso il processo. Alla fine invece le indagini hanno confermato il senso di impunità: la maggior parte dei reati sono stati prescritti. E non c'è stato solo quello. Penso a tutte le leggi cambiate in corso d'opera, ai reati che sono diventati meno reati come l'abuso d'ufficio o il falso in bilancio, alle modifiche alle regole per il processo e le rogatorie fino a rendere appunto il senso d'impunità. Il dato positivo è nell'informazione: i cittadini ne hanno saputo molto di più.
Questa conoscenza non si è però trasformata in una spinta a cambiare.
La cultura era quella. Il modo di pensare generale era in linea con il diffondersi così articolato e capillare della corruzione.
Nel libro lei dichiara che questa cultura del quieto vivere è presente anche nella magistratura.
Anche i magistrati seguono quel pensiero collettivo, che ispira una certa prudenza nell'andare a vedere quello che si nasconde nei cassetti del potere. Per fortuna ci sono tante eccezioni, ma ho provato sulla mia pelle come andare fino a fondo rende più difficile la vita.
Oggi il governo tecnico ripropone il ruolo chiave dei grandi burocrati, figure spesso gattopardesche: i politici cambiano, loro restano. E spesso nelle vostre indagini sono stati loro a rappresentare l'ostacolo maggiore.
Le indagini sulla burocrazia sono state condizionate da alcune variabili, spesso più intense che in altri settori. La burocrazia ha un vantaggio rispetto alla politica: è più stabile, più coesa. Investigare su un settore che ha più compattezza è difficile: c'erano persone rocciose nella loro resistenza, sia negli apparati statali che in quelli di partito, che hanno difeso strenuamente il loro ambiente.
Ma quando da cittadino viene a sapere dei casi di corruzione contestati alla giunta lombarda o del malaffare che resiste anche nel Pio Albergo Trivulzio, non prova un senso di smarrimento?
Non mi sorprendono. Perché il sistema sarebbe dovuto cambiare? Sotto il profilo giudiziario non è stata fatta una legge per rendere più difficile la corruzione o più facile la scoperta della corruzione. Sotto il profilo culturale se qualcosa è cambiato, lo è stato in senso opposto: si è rafforzata l'idea che l'interesse privato nell'esercizio di una pubblica funzione non è riprovevole. Non ci si può aspettare una folgorazione.
Lei nel 1998 in una celebre intervista a Giuseppe D'Avanzo denunciò una rete di ricatto che condizionava alcune scelte del Parlamento. Oggi quanto pesa il ricatto?
Io mi chiedevo, tra l'altro, perché fosse così difficile ottenere certe autorizzazioni all'arresto da parte del Parlamento. Di sicuro il ricatto pesa anche oggi, ma c'è molto altro: sopravvive l'accettazione di un sistema. Nel libro cito Giuliano Ferrara: "Per fare politica devi essere ricattabile, devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte".
E oggi il governo tecnico può cambiare le cose?
Mi dà maggiore speranza. Ha la fiducia del Parlamento, ma poiché non ha dietro le spalle un singolo schieramento può fare cose impopolari, può agire sulle corporazioni senza essere condizionato dalle loro pressioni: è in grado di varare le misure che servono ma non incontrano il favore di parti della cittadinanza. Questa situazione può permettere alle persone di capire la realtà delle cose, senza essere troppo attaccate agli interessi di parte: e infatti tante misure sono accolte positivamente. La politica era screditata e la separazione tra forze politiche radicalizzava anche lo schierarsi dei cittadini, in un modo spesso irrazionale che ricorda il tifo calcistico. Adesso con il governo tecnico è come quando gioca la Nazionale e si mette da parte il sostegno alla squadra del cuore per il risultato comune.
A Milano però si respira già un'aria di novità, come se la città volesse voltare pagina.
C'è stata un'alternanza al Comune, positiva per il fatto di essere alternanza. E oggi i cittadini milanesi sono più attenti rispetto a vent'anni fa. Nel 1990 si credeva di essere in una situazione economica che poteva permettere grandi spese e certi comportamenti venivano accettati: tre anni dopo si è compreso quanto fosse grave la situazione. Oggi c'è la consapevolezza della crisi e ciò incide anche nei comportamenti. Guardate all'Area C, alle limitazioni del traffico nel centro storico milanese: è stata accettata con responsabilità da tutta la città e ritengo che ciò dipenda dall'avere capito il problema.
Lei cita spesso Giacomo Leopardi e il disinteresse del singolo per la comunità che lui teorizzò due secoli fa. Gli italiani quindi non cambieranno mai?
Di speranze ne ho tante. Altrimenti non continuerei a impegnarmi: dal 2007 ogni anno faccio 400 incontri nelle scuole e nelle associazioni. La speranza nel cambiamento è alimentata dall'incontro con i giovani: non è vero che sono indifferenti, se dai loro l'occasione si interessano molto. Prima avvertivo la partecipazione soprattutto in provincia, adesso la sento anche nelle metropoli come Milano. Ma bisogna trasmettere punti di riferimento e farlo con modelli concreti, che spesso gli adulti non danno.
(di Gianluca Di Feo - l'Espresso - Ha collaborato Nicole Cavazzuti)
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