Un grande maestro della dottrina economica, Adam Smith, diceva che quando l'offerta di lavoro è bassa, forte è il potere delle organizzazioni sindacali. Il rovescio della medaglia è che se aumenta l'esercito di riserva della manodopera diventano più deboli peso e ruolo delle rappresentanze dei lavoratori. Non si può capire fino in fondo il senso dello scontro in atto oggi sul fatidico art. 18 (licenziamenti immotivati o discriminatori) se non lo si legge anche come effetto del mutato rapporto di forze tra offerta e domanda di lavoro.
Anche qualche anno fa Confindustria era all'attacco su questa norma con il compiaciuto sostegno del governo Berlusconi. Ma i 3 milioni di manifestanti raccolti in piazza da Sergio Cofferati e una congiuntura economica meno pesante dell'attuale avevano consigliato una rapida ritirata. Ora il clima economico e sociale è molto cambiato (l'emorragia di posti di lavoro si somma alla precarietà di molti impieghi) e la richiesta di manomettere le garanzie previste dall'art. 18 è tornata di prepotente attualità. I datori di lavoro intendono sfruttare la serrata degli investimenti per trasformarla in un loro punto di forza in un braccio di ferro che non riguarda solo la quantità dei salari ma anche i diritti dei lavoratori.
Quella lotta di classe - che molti (chissà poi perché?) consideravano morta e sepolta dopo la caduta del muro di Berlino - torna così ad affacciarsi in campo aperto. In termini anche piuttosto acuti in un paese che, negli ultimi anni, ha visto crescere al suo interno le disuguaglianze economiche, al punto da far diventare l'impoverimento del potere d'acquisto dei lavoratori forse la principale causa interna della caduta dei consumi e perciò degli investimenti con effetti recessivi sulla crescita del prodotto interno lordo.
In simile frangente ci si poteva aspettare che un governo composto da rinomati studiosi di cose economiche intervenisse nello squilibrato rapporto fra domanda e offerta di lavoro in senso anticiclico. Ovvero non favorendo ulteriormente il prepotere della seconda contro la prima. Così, però, non sta accadendo, perché il governo Monti, subendo di fatto l'offensiva confindustriale contro l'art. 18, si mostra orientato a compiere una scelta di campo senz'altro più liberista che liberale. Non va dimenticato, infatti, che la norma in discussione dispone garanzie giurisdizionali per il cittadino che venga allontanato dal lavoro senza giustificato motivo o, peggio ancora, per discriminazione magari politica o sindacale. Trattasi, dunque, di tutela di un diritto che fa tutt'uno con l'impianto di una classica democrazia liberale.
Quando il presidente del Consiglio spiega che l'attuale art. 18 ostacola la crescita fa un'affermazione grave di incompatibilità fra economia e diritti. Perché è come se dicesse che o si concedono alle imprese mani libere sui licenziamenti, oppure non ci saranno né investimenti né nuove assunzioni: giudizio davvero pesante sulla natura da padroni delle ferriere dei sedicenti moderni imprenditori italiani. Che il modello Marchionne abbia dilagato da Pomigliano a Mirafiori negli stabilimenti Fiat è ormai un dato di fatto dal quale, per altro, non sono scaturiti chissà quali investimenti. Suscita perciò non pochi interrogativi che esso possa diventare una bussola anche per Palazzo Chigi.
Massimo Riva - l'Espresso
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