Forse è il caso, a fronte di opinioni anche molto diverse sugli effetti frenanti dell'art. 18 e leggi equipollenti, di fare un confronto fra legislazioni nei vari paesi, e poi cercare eventuali correlazioni - positive o negative - fra livelli di protezione, tassi di disoccupazione, tassi di crescita.
A fronte del rinato polverone sacconian-marcegagliano sull'art. 18, infaustamente ripreso da Monti e Fornero, è il caso di riportare questo articolo di Paolo Griseri su Repubblica del 5 gennaio, che a sua volta riprende dati OCSE:
Licenziare i dipendenti è già possibile - l'Ocse: siete tra i più flessibili al mondo - Come liberarsi della manodopera in esubero: la Germania è il Paese più rigido, gli Usa non pongono ostacoli. Ma nella classifica degli economisti di Parigi la nostra legislazione è considerata assai poco vincolante
In Italia licenziare è difficile? Niente affatto. Gli indici dell'Ocse (strictness of employment protection) spiegano che liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano di quanto non lo sia per un ungherese, un ceco o un polacco. Con un indice di flessibilità di 1,77 (per i lavoratori a tempo indeterminato) l'Italia è al di sotto della media mondiale (2,11).
In cima alla classifica, nei paesi in cui licenziare è più difficile ci sono la Germania (indice 3.0) e i paesi del Nord Europa. Dunque, secondo questi dati aggiornati al 2008, non ci sarebbe alcuna ragione per modificare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in nome di una presunta rigidità delle leggi italiane. Il nodo è, da sempre, l'obbligo di reintegro, se il tribunale riconosce che il licenziamento è avvenuto senza giusta causa. Ma quell'obbligo è presente in gran parte dei paesi industrializzati, con l'unica eccezione degli Stati Uniti (che ora stanno rivedendo le leggi in materia).
Gli Usa sono in cima alla classifica della libertà di licenziamento: il loro indice è di 0.17. Ma sono anche una vistosa eccezione a livello mondiale, che non si riscontra in nessuno dei paesi emergenti, dove il Pil avanza ancora a due cifre nonostante la crisi. La classifica dell'Ocse (presa a riferimento dalle aziende che scelgono in quali paesi investire) mette l'Italia in cima alla top ten (indice 4,88) solo quando si voglia procedere a licenziamenti collettivi. In quel caso il nostro è il paese al mondo dove è più difficile licenziare grandi quantità di lavoratori tutti insieme. Ma è davvero un difetto? Vediamo la situazione nelle diverse aree del mondo.
ITALIA - Niente riassunzione nelle piccole imprese
L'articolo 18 della legge 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) prevede che il lavoratore licenziato senza giusta causa (i motivi economici non sono al momento considerati tali) abbia diritto al reintegro sul posto di lavoro. Solo se il dipendente sceglie di rinunciare al reintegro, il datore di lavoro può scambiare l'obbligo di riassunzione con il pagamento di un indennizzo pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio percepito. Nelle piccole aziende con meno di 15 dipendenti il lavoratore ingiustamente licenziato non ha diritto al reintegro e viene risarcito in denaro. In caso di controversia il lavoratore può ottenere la sospensione del licenziamento fino alla conclusione del processo.
GERMANIA - Lavoratori allontanati solo con giusta causa
Il licenziamento senza giusta causa è considerato illegittimo e, in via preferenziale, deve essere risarcito con il reintegro sul posto di lavoro. L'imprenditore che voglia licenziare un dipendente deve comunicarlo al consiglio di azienda. Se il sindacato riterrà non fondato il provvedimento, il dipendente ha il diritto di rimanere al suo posto fino al termine del processo. Se poi il giudice stabilisce che effettivamente il licenziamento non era giustificato, l'imprenditore ha l'obbligo di reintegrare il dipendente in organico. L'unica eccezione è la possibilità che l'imprenditore dimostri che non c'è possibilità di collaborazione con il licenziato che dunque viene risarcito con un indennizzo.
FRANCIA - Chiudere per delocalizzare è diventato meno semplice
Generalmente il lavoratore che viene ingiustamente licenziato è risarcito con indennizzi di entità variabile secondo criteri stabiliti dalla legge. Ma nell'autunno scorso tre sentenze di tribunali locali hanno fatto scalpore annullando i progetti di delocalizzazione di altrettante aziende d'oltralpe. Quelli che i francesi chiamano "licenziamenti della Borsa", dettati cioè dalla smania degli azionisti di portare altrove la produzione per aumentare i profitti, sono stati considerati illegittimi e le aziende sono state obbligate a riassumere i lavoratori licenziati. Grandi proteste, naturalmente, degli imprenditori. Ora sulla vicenda la parola deve passare alla Corte di Cassazione di Parigi.
STATI UNITI - Mano libera per le aziende e il reintegro non esiste
Tradizionalmente in Usa vale il principio secondo cui l'imprenditore può licenziare i suoi dipendenti a piacimento ("at will") senza alcuna restrizione. Una norma spesso invocata dai liberisti europei come riferimento ideale. In realtà nel corso dei decenni i limiti sono stati posti sia a livello federale che dei singoli stati. In generale è illegittimo il licenziamento di un lavoratore che si sia rifiutato di andare contro la legge, o un licenziamento discriminatorio per ragioni legate alla razza, alla fede religiosa o al credo politico. Curiosa la norma che in Michigan vieta licenziamenti legati alla statura o al peso. Ma anche in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore viene risarcito in denaro e non con il reintegro.
CINA - Cacciare gli "anziani" è quasi impossibile
In Cina la legge sul lavoro è stata aggiornata a partire dal 1 gennaio 2008. I dipendenti possono essere licenziati solo se il datore di lavoro è in grado di presentare un giustificato motivo. Questo vale anche durante il periodo di prova che varia da un mese a sei mesi a seconda della durata del contratto. Se il motivo è considerato giustificato, il licenziamento avverrà senza che al lavoratore vengano corrisposte indennità. E' vietato il licenziamento in caso di malattie dovute all'attività professionale presso l'azienda o quando il lavoratore sia dipendente da almeno quindici anni presso la stessa società e gli manchino meno di 5 anni alla pensione.
Un articolo più datato (ma non molto è cambiato) illustra la legislazione in altri paesi europei. Inseriamo solo i dati su alcuni paesi non toccati dal precedente articolo:
I licenziamenti nei principali paesi dell'Unione europea (di M. Roccella - CGIL)
La disciplina dei licenziamenti presenta aspetti tecnici di estrema complessità in tutti i paesi dell'Unione europea. Quella che segue, è una descrizione essenzialissima, funzionale a confutare la communis opinio che la reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe una bizzaria tutta italiana, frutto delle fantasie dirigistiche del legislatore di casa nostra. Essa al contrario, sia pure con modalità variabili da un paese all'altro, costituisce un rimedio alquanto diffuso nell''Unione europea e tende ad essere praticato anche in paesi (si veda l'esempio danese) che pure, in linea di principio, restano attestati su soluzioni di tipo risarcitorio.
Per inquadrare correttamente i termini della questione, non va trascurato che nella recentissima proposta di normativa comunitaria sui licenziamenti individuali formulata dalla Confederazione Europea dei Sindacati, la reintegrazione nel posto di lavoro è prefigurata come primo rimedio nei confronti di un licenziamento illegittimo.
SVEZIA - Il sistema svedese di tutela contro i licenziamenti illegittimi è in ampia misura accostabile a quello vigente in Italia. La legge svedese risale al 1974, richiede l'esistenza di un giustificato motivo per legittimare un licenziamento, prevede come sanzione fondamentale nei confronti del licenziamento privo di giustificato motivo la reintegrazione nel posto di lavoro. Il sistema è particolarmente severo sia perché:
-a) prevede, in linea di principio, la continuazione del rapporto di lavoro in pendenza della controversia giudiziaria;
-b) qualora ciò non accada ed il licenziamento sia poi giudicato illegittimo, il datore di lavoro sarà condannato a corrispondere tutte le retribuzioni dovute in relazione al periodo compreso fra la data del licenziamento e quella della reintegrazione, nonché al risarcimento dei danno per l'illegittimità del licenziamento, in quanto tale;
-c) l'applicabilità della sanzione è generalizzata, eccezion fatta per le imprese di piccolissima dimensione Ove la reintegrazione può essere giudicata impraticabile. Va precisato che, qualora il datore di lavoro si rifiuti di dar corso all'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro è destinato a venire meno; ma il datore andrà incontro a pesantissime sanzioni economiche, potendo essere chiamato al versamento di una somma ulteriore a titolo risarcitorio, che può arrivare sino a 48 mensilità di retribuzione.
GRAN BRETAGNA - È in vigore dal 1978 (Employment Protection Consolidation Act) una legislazioneche prevede che il primo rimedio a disposizione dell'autorità giudiziaria nei confronti del licenziamento illegittimo sia rappresentato dalla reintegrazione nel posto di lavoro. li giudice può disporre un ordine di reintegrazione in senso stretto (reinstatement), oppure può condannare il datore di lavoro a riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato in un posto diverso, purché comparabile a quello in cui il lavoratore era occupato prima dei licenziamento (reengagement). Il sistema britannico riconosce una certa discrezionalità al giudice rispetto all'emanazione di un ordine di reintegrazione (nelle due forme indicate): si dovrà tenere in considerazione la domanda del lavoratore licenziato, il fatto che egli abbia in qualche misura contribuito a causare il licenziamento, la concreta praticabilità di un eventuale ordine di reintegrazione. La reintegrazione, comunque, non viene considerata impraticabile per il mero fatto che il datore di lavoro abbia già provveduto ad assumere altro lavoratore in luogo del licenziato.
Se il giudice ritiene non praticabile l'emanazione di un ordine di reintegrazione, opterà per una sanzione di tipo risarcitorio. La stessa sanzione, con una speciale maggiorazione, viene applicata al datore di lavoro inadempiente all'ordine di reintegrazione. Il sistema opera senza soglie dimensionali, ma escludendo dalla protezione legale i lavoratori con anzianità di servizio inferiore a due anni. Per questo aspetto la legislazione britannica è stata considerata di carattere indirettamente discriminatorio dalla Corte di Giustizia e dovrebbe essere modificata. Il criterio dei due anni di anzianità di servizio è stato introdotto dal governo Thatcher. Precedentemente l'esclusione riguardava i lavoratori con meno di un anno di anzianità di servizio. li governo Blair si è impegnato a ripristinare questa soglia più ridotta, estendendo in tal modo il campo di applicazione della legislazione protettiva. Una tutela rafforzata, sia dal . punto di vista processuale sia con riguardo alla misura dell'eventuale risarcimento, si applica nel caso di licenziamento discriminatorio per ragioni di carattere sindacale. (...abbiamo appena scritto qualche giorno fa che la strada intrapresa da Monti/Fornero - della discriminazione di tutela legale a seconda che si sia assunti da più o meno tempo - andrà a sbattere contro il primo ricorso di costituzionalità. NdR)
OLANDA - Nel panorama europeo il sistema olandese presenta caratteristiche peculiari. Dal 1945 il potere di licenziamento è condizionato dalla necessità di ottenere un'autorizzazione amministrativa da parte della pubblica autorità competente, chiamata a valutare la ragionevolezza delle ragioni addotte dal datore di lavoro. Qualora l'autorizzazione sia negata, l'eventuale licenziamento è considerato nullo ed il datore di lavoro sarà tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non intervenga altra causa di estinzione dei rapporto. Dalle statistiche disponibili risulta che il sistema di autorizzazione amministrativa preventiva ha tutelato abbastanza efficacemente la posizione dei lavoratori, quanto meno fungendo da deterrente nei confronti di comportamenti arbitrari dell'impresa.
DANIMARCA - Quello danese viene presentato di solito come un sistema dove l'imprenditore avrebbe mano libera in materia di licenziamenti. Niente di meno vero. È vero piuttosto che in Danimarca, per consolidata tradizione, le regole di protezione dei lavoro sono poste dai contratti collettivi, piuttosto che dal legislatore. Il riferimento più significativo è rappresentato dal c.d. "Accordo Fondamentale" che, in materia di licenziamenti, prevede sia la regola dei giustificato motivo, sia la possibilità di contestare la legittimità dei licenziamento dinanzi ad uno speciale collegio arbitrale, specificamente competente, in materia di licenziamenti.
Nel 1981 l'Accordo Fondamentale è stato emendato proprio allo scopo di introdurre la possibilità per il collegio arbitrale di disporre la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento privo di giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). Resta vero che, nell'esperienza pratica dei collegio, arbitrale, tendono nettamente a prevalere soluzioni di tipo economico. La modifica del 1981, ad ogni modo, segnala che anche in sistemi comunemente considerati molto sensibili alle ragioni dell'impresa l'idea di reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento ingiustificato è tutt'altro che sconosciuta.
SPAGNA - Nel sistema spagnolo la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo è prevista solo quando il licenziamento colpisca un rappresentante del personale nell'impresa. In questo caso la regola è rigida e comporta, a carico dei datore di lavoro eventualmente inadempiente all'ordine di reintegrazione, l'obbligo di pagare retribuzione e contributi sino a quando la reintegrazione non abbia avuto effettivamente corso. La regola generale, viceversa, consente al datore di lavoro di scegliere fra la reintegrazione e il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento dei danno (secondo importi graduati dalla legge in ragione dell'anzianità di servizio del licenziato). M. Roccella (CGIL) - Febbraio 2000
Si potrebbero fare molte considerazioni, sui dati sopra riportati. Ma preferisco pubblicare la tabella in calce (OECD Indicators of Employment Protection). Di questa tabella raccomando di leggere e valutare con particolare attenzione la prima colonna, che riguarda il livello di protezione a favore di lavoratori a tempo indeterminato, contro licenziamenti individuali (siamo nella nostra fattispecie dell'art. 18):
I dati sono ordinati per livello crescente di protezione. Contro la vulgata popolare, in Italia i lavoratori - nonostante l'art. 18 - sono fra i più licenziabili al mondo. La Francia - e specialmente la Germania (i maitres-à-penser che ci spingono ad una maggiore flessibilità) hanno un regime di protezione - loro si - che rende i lavoratori pressocchè inamovibili. Il paese al mondo col maggior livello di protezione da licenziamenti individuali è l'India, che, strano ma vero, è cresciuta del 97,10% in dieci anni.
L'Italia, dove invece la licenziabilità individuale è fra le più alte al mondo, il PIL in 10 anni è addirittura diminuito. In Francia e Germania in 10 anni c'è stata una crescita intorno all'8/9%. In particolare, in Germania i salari nell'industria sono, a spanne, il doppio di quelli italiani.
Infine, una considerazione sulla (non provata) correlazione fra flessibilità alta e disoccupazione bassa (la famosa fola che negli USA proprio perchè c'è il massimo di libertà di licenziare, c'è anche il massimo di facilità nel trovare un nuovo lavoro (dati 2010):
- USA: flessibilità elevatissima, disoccupazione al 9,6%
- Italia: flessibilità elevata, disoccupazione all'8,4%
- Germania: flessibilità bassissima, disoccupazione al 6,8%
...meditiamo, gente, meditiamo...
Tafanus
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