Sono trascorsi trent’anni precisi da quando è stato descritto il primo caso di AIDS in Italia. Si trattava – come hanno illustrato Bruno De Michelis, Remo Modica e Giorgio Re nel loro Trattato di clinica odontostomatologica – di un paziente omosessuale che si era recato molte volte negli Stati Uniti.
Sempre nel 1982, e precisamente il 27 luglio, a Washington, nel corso di un incontro tra i leader della comunità omosessuale e i rappresentanti del Governo e dei Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta, fu proposto di usare l’espressione «sindrome da immunodeficienza acquisita», da cui AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome), in luogo di GRID, acronimo di Gay-Related Immune Deficiency, perché era ormai accertato che l’AIDS non era «il flagello dei gay», come qualcuno lo definiva negli ambienti conservatori con un tono forse anche un po’ compiaciuto. I CDC adottarono ufficialmente la nuova espressione il 24 settembre.
Tutto questo per ricordarci che trent’anni fa, il breve volgere di una generazione, dell’AIDS non sapevamo nulla, se non qualche nozioncina aneddotica intrisa di pregiudizi. Non sapevamo ancora che era causato dall’HIV. E ci sarebbero voluti altri cinque anni per avere un farmaco che ne rallentasse la progressione.
Oggi, invece, non se ne parla quasi più. L’AIDS è passato di moda, almeno in Italia. Basta pensare al vuoto quasi totale di campagne di prevenzione. Eppure secondo l’ultimo rapporto UNAIDS, del dicembre 2011, nel mondo ci sono circa 34 milioni di persone malate di AIDS, ogni anno se ne infettano 2,7 milioni (un dato fortunatamente in calo) e 1,8 milioni muoiono di patologie correlate.
Ma la ricerca non si è fermata. Vero è che non ci sono farmaci in grado di eliminare completamente il virus dall’organismo, e che il tentativo di sintetizzare un vaccino non ha portato a risultati apprezzabili. Però le terapie di oggi consentono ai pazienti che hanno accesso ai farmaci di rimanere in buona salute per decenni, tenendo sotto controllo l’infezione.
Il panorama però, potrebbe cambiare radicalmente, se si dovesse riuscire a mettere a punto una tecnica di ingegneria genetica sicura ed efficace basata sull’inattivazione di un unico gene, il gene CCR5, che produce una proteina di superficie delle cellule immunitarie che l’HIV sfrutta per penetrarvi. E il merito sarebbe tutto di un fortunato trapianto di midollo osseo eseguito ormai cinque anni fa in Germania su un paziente malato di leucemia, che da dieci anni era anche sieropositivo. Una volta ricevuto il midollo, la fonte delle cellule immunitarie, da un donatore anonimo il cui DNA reca una mutazione che lo rende resistente all’HIV, il «paziente di Berlino» non ha più mostrato traccia di presenza del virus, nonostante abbia sospeso ormai da anni la terapia a base di farmaci antiretrovirali.
A raccontarci di questa potenziale rivoluzione nel trattamento dell’AIDS sono Carl June e Bruce Levine, dell’Università della Pennsylvania, che stanno collaborando a un trial clinico molto promettente. È presto per cantare vittoria, ma la stagione dell’HIV potrebbe davvero essere al tramonto.
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